Mio zio fa l’orto.

Si cambia per continuare a crescere, il precariato, l’eterna sensazione di bozza, di bozzolo avviluppato e inconcludente, le vie del signore che sono infinite.

Lo zio è chino sull’insalata. Il filare è illimitato, disteso e dritto come un fuso, una salma, una sequenza di maglie disarticolate e perfette. La discesa del terreno – o la salita – fanno sì che l’accosciata dello zio sia profondissima, ben sotto il parallelo. Mi ricorda qualcosa.

Lo zio ha i capelli candeggiati. Sono sempre stati così – SEMPRE – bianchi e vaporosi, tantissimi, una montagna di liane albine. È prerogativa del nostro albero genealogico portare il peso della cheratina sulla testa: è come un reminder, un post-it volante che ci ricorda che noi siamo quello che siamo.

Lo zio lavora da sempre, è incredibile. – Se non lavori almeno 14 ore al giorno, – diceva a mio padre quando si affacciava tra i grandi – non puoi dire di aver lavorato. Questo è sempre stato il suo mantra. Anche ora che l’orto gli occupa la giornata – la sveglia alle 4, la colazione, il pranzo, la cena alle 17.30 – le cose non sono troppo diverse. Le galline dai glutei poderosi, le uova oniriche, i coniglioli sempre spellati, giganti ma teneri. E gli zuccherini, i dolcetti all’anice, quelli però comprati al forno del paese coi soldi del lavoro.

Lo zio è una sagoma. In posizione accucciata pare un comodino, quando si prona a novanta gradi un tavolino pieghevole da campeggio con la tovaglia a quadri bianchi e azzurrini. Il nonno c’è – è presente – e lo ammira. Anzi, forse lo invidia: per la capacità gestionale del podere, degli ortaggi e delle bestie; forse lo stima proprio come persona, come cognato premuroso e fornitore di materie prime per la sussistenza. Mio padre gli deve l’insegnamento sul lavoro senza il quale oggi non sarebbe l’Uomo che è. Io l’ho sempre visto poco, ma ho ben in mente tutti i suoi capelli.

Sono a casa, ai fornelli. Ho messo su un pentolino con dell’acqua. Una volta che è calda ci metto a bagnomaria un altro ciotolino con all’interno tuorlo d’uovo, zucchero e un gocciolino di vin santo. Lascio che la temperatura raggiunga gli ottantatré gradi e che la consistenza sia cremosa e vellutata. Poi prendo un cucchiaio, agguanto LA MERAVIGLIA e la inserisco nella mia cavità orale: il dolce, l’uovo, la salubrità. Le galline dello zio e il loro magnifico culo, le loro uova. Ogni settimana una caterva di uova. La mia colazione dei campioni. Poi vado in bagno. Grazie zio, grazie per queste uova non standard e talvolta sporche di merda. Grazie davvero.

I pomodori che sto mangiando sono succosi. Sono quelli dell’orto del nonno. Che oggi non c’entra nulla, però è una cosa piccola ma buona.


Niccolò Protti non dimostra l’età che ha. Gli piace scrivere e cucinare. Suo nonno fa l’orto.