«Don’t extract it. Don’t consume it. Be with it». La coreografa Amanda Piña parlava del suo spettacolo, un omaggio alla montagna cilena che resiste allo sfruttamento predatorio dei milionari americani, ma potremmo prendere in prestito le sue parole per introdurci a questa edizione del festival di Santarcangelo. Un’esperienza che reclama di essere vissuta piuttosto che sezionata e soppesata. L’atmosfera che si respira tra le vie della cittadina romagnola nello spostarsi tra un palco e l’altro, negli incontri e nei workshop pomeridiani, nei dj set che seguono gli spettacoli e i concerti, è quella di una festa. Risultato di diverse scelte fatte dei Motus, nella direzione da dare a questi undici giorni: largo alle opere prime, ad artiste e artisti internazionali poco conosciuti, a chi intavola riflessioni sulle tematiche cruciali del nostro essere al mondo in quest’epoca. Un esperimento in realtà lungo due anni, che nonostante la pandemia ha saputo raccogliere attorno a sé un gruppo, un’energia in movimento che da diverse prospettive si interroga sul teatro di domani, mettendo in primo piano l’importanza delle relazioni e della cura reciproca. In questo senso va anche la scelta di dar vita ad un accampamento temporaneo per studenti, studentesse, artisti/e provenienti da diversi Paesi, uno spazio di elaborazione e sperimentazione su «come essere insieme». Quella della coabitazione del Pianeta, in un ecosistema che comprenda tanto gli esseri umani quanto le specie animali, vegetali, cyborg, è il tema che fa da sottotraccia a questo secondo movimento del cinquantennale del festival. Anche stavolta, come nell’edizione dello scorso anno, con uno slancio immaginativo: in un «futuro fantastico» si potrebbe stare insieme in modi diversi, magari confondendo i confini e cercando un’ibridazione, o quantomeno un contatto, con l’altro da sé. Ed è prezioso, ancora di più in questo momento, il tentativo di non abbandonarci ad una visione catastrofista e senza scampo, ma di pensare che ancora ci sia margine per tentare qualcosa di nuovo, per lo meno nel tempo di queste giornate insieme.
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El Conde de Torrefiel propone un site-specific concepito per Santarcangelo. ULTRAFICCIÓN nr. 1 è il primo di alcuni «lavori di avvicinamento» che porteranno ad uno spettacolo conclusivo l’anno prossimo. Come recita il titolo, il tema è quello dell’ultrafinzione: se una rappresentazione è di per sé un atto di falsificazione, la compagnia catalana si spinge oltre nel voler confondere i confini tra reale e irreale. Proprio perché già sappiamo che è finta, la messa in scena sul palco viene radicalmente negata: siamo posti di fronte ad uno schermo dove un testo martellante ci chiede di immaginare alcuni accadimenti. Questi ultimi raccontano di come la realtà si possa spingere fino a quella che sembrerebbe fiction: i morti durante un concerto al Bataclan sono realmente accaduti, le persone finiscono veramente i propri giorni nel Mediterraneo provando ad attraversarlo, magari facendosi un selfie. In scena non accade nulla, tutto succede nelle nostre teste fino a quando intorno a noi si manifestano degli avvenimenti improbabili ma possibili: delle pecore che pascolano proprio dove si trova il nostro palco all’aperto e che corrono indisturbate tra gli spettatori, un presunto rave organizzato dagli studenti e dalle studentesse ci inonda con la musica techno e le fronde degli alberi vicini si mettono a ballare. El Conde de Torrefiel si muove tra il situazionismo e la distopia, tra la boutade e la critica feroce alla società tecnologica dei consumi, con un linguaggio scenico che può essere ostico ma che è sicuramente originale.
Tornando ad un teatro più «umano», Deflorian/Tagliarini hanno proposto un toccante dialogo sul tema della vecchiaia, misurandosi con il compito di mettere al centro il proprio percorso di coppia artistica. Lo spettacolo è costruito tramite degli specchi, figure con cui i due attori si misurano in quanto «colleghi», portatori di esperienze simili (infatti si chiama Sovrimpressioni). Ci sono innanzitutto Pippo e Amelia, i protagonisti del film di Fellini dell’86 Ginger e Fred che si ispirano a loro volta a Fred Astaire e Ginger Rogers, di cui Deflorian e Tagliarini prendono lentamente le sembianze attraverso una sessione di trucco. I dialoghi poi convergono sugli interpreti della pellicola, Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, ma anche altri personaggi come Greta Garbo. Nelle vicinanze e nelle lontananze si misura la difficoltà a diventare ciò che si è, e soprattutto a continuare dopo. Lo spettacolo inizia e finisce con delle cadute, si evoca il corpo affaticato, che non rende più come un tempo, così come i cliché culturali della senilità — tenersi sotto braccio, ad esempio. La riflessione è molto interessante perché un ripensamento profondo della maturità e della fase avanzata della vita è veramente urgente nella nostra società. C’è bisogno di un pensiero nuovo, forse anche di nuove parole, per ridare dignità ad una fase che i paradigmi attuali relegano all’inspiegabile o al riprovevole. Hillman parlava del carattere della persona che si disvela pienamente e questa potrebbe essere una chiave in sintonia con lo spettacolo. Deflorian/Tagliarini utilizzano soprattutto la dolcezza, rievocando un passato di avventure lavorative dove la costante è stato il sostegno reciproco.
Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Stefano Ricci e Daniele Roccato presentano una perla intitolata MADRE. Cala il tramonto e la vocalità extraterrestre di Montanari dipinge pian piano una storia, che risale dalle viscere della Terra: la madre è finita in fondo al pozzo mentre il figlio è in superficie e cerca un modo per salvarla. Presto si contrappongono due visioni radicalmente opposte della vita: da un lato vi è il rifiuto del negativo da parte del figlio, che crede di poter risolvere tutti i problema con la razionalità e con la tecnica. Sul fondo del pozzo invece, una figura che abbraccia il buio e il dolore come necessari. Lì vita e morte sono legatissime e sono numerose le creature che abitano quel luogo misterioso, tra cui una bisciolina che penetra nella carne della madre e con cui lei si intrattiene. Tra le due figure, un rapporto fatto di mancanze: il figlio perennemente disattento, è forse con la sua disattenzione che ha spinto la madre negli inferi. Lei, abitata da cupio dissolvi, è sempre stata attirata dal buio. Accusa la sua progenie di aver avvelenato gli alberi e la terra con la scienza, ma non sarà questo lo strumento per salvarla, dovrà farsi sottile e calarsi nel pozzo il figlio stesso. Nel dar voce al testo teso e oscuro di Martinelli, Montanari si affida in più passaggi al dialetto romagnolo e sono momenti di foga che toccano intensità altissime. Roccato pizzica il suo contrabbasso, lo fa gemere, mentre Ricci fornisce un’interpretazione visiva in tempo reale disegnando con il gesso figure d’angoscia. Lontano da noi, l’Italia sta giocando la sua finale, si sente ad un certo punto un boato, ma ha la funzione di calarci poi ancora di più nel silenzio e nell’oscurità della poesia.
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Liberarsi della paura è il filo rosso che lega PA.KO Doble di Paola Stella Minni & Konstantinos Rizos e Sonora Desert dei Muta Imago. Le vie indicate per farlo però sono diverse. In PA.KO Doble si invoca la saggezza tantrica, la filosofia e le canzoni di Nick Cave & PJ Harvey con lo scopo di eliminare ogni concezione del futuro. Così facendo ci radicheremmo fortemente nel presente e si aprirebbe un campo percettivo nuovo, un’esperienza tattile e non mediata. Ed è nell’immediatezza della presenza che va intesa anche l’iniziale, lunga scena di nudo dei due interpreti, tra i quali emerge una profonda intimità. Messo da parte ogni voyeurismo, i genitali si mostrano nella loro grazia e potrebbe trattarsi di una qualsiasi altra parte del corpo umano che si muove dolcemente a tempo. Questa vena giocosa viene portata avanti nella seconda parte del lavoro, dove Minni e Rizos diventano due improbabili incarnazioni del duende, lo spirito oscuro indagato da Garcìa Lorca che si impossessa di degli artisti, ma che si manifesta anche nel momento della morte del toro durante la corrida («è una lotta, non un pensiero»). Ed è proprio dalla corrida che i due danzatori prendono spunto per i tableaux vivants che seguono, in una geografia di modi per stare vicini, stringersi, sostenersi. A loro il merito di evocare temi fondamentali — come la paura, la violenza, il sacrificio, l’ispirazione creativa — con la leggerezza di due bambini.
I Muta Imago invece affrontano il problema frontalmente, proponendo l’immersione in uno stato percettivo alterato. Ci si scorda di essere in una stanza con altri spettatori (seppur distesi, ognuno nella propria amaca) quando le forti luci e la musica, composta per l’occasione da Alvin Curran, simulano l’esperienza psichedelica del deserto. Tra Huxley e Baudrillard viene evocata l’America della controcultura in fuga dalla società di massa, convinta di poter accedere ad altre dimensioni, foriere di liberazione, dove la solitudine e la lontananza dal mondo aprono voragini.
Anche assistere a Il terzo Reich di Romeo Castellucci è un’esperienza non ordinaria, decisamente più violenta di Sonora Desert. La totalità dei sostantivi del vocabolario viene proiettata a grande velocità su uno schermo, in una sorta di ideale rimando a El Conde (i due lavori sono stati presentati nello stesso luogo), ma stavolta non c’è nulla da immaginare. Appena l’occhio si posa su una parola si potrebbe potenzialmente aprire un mondo, che viene immediatamente negato dal lemma successivo, ad un ritmo martellante a cui corrispondono altrettanto martellanti sonorità (musicalmente parlando il risultato è una sorta di industrial techno, che rappresenta comunque un’appiglio nella fruizione, piuttosto complessa a livello visivo). L’installazione-performance si presta sicuramente a diverse interpretazioni, a seconda di come inquadriamo il rapporto tra parole, pensiero e mondo. Si potrebbe quindi tirare in causa l’intera storia della filosofia del linguaggio da Platone in poi, ma ci limiteremo ad alcune suggestioni. Alcuni pensatori come Humboldt e Wittgenstein ritengono che esiste una piena coincidenza tra linguaggio, pensiero e realtà. Senza la funzione delimitante della parola non avremmo alcun concetto, senza quest’ultimo non potremmo distinguere alcuna entità da ciò che la circonda e dunque non potremmo farne esperienza. Per questo, apprendere un’altra lingua significherebbe entrare a tutti gli effetti in un altro mondo, una nuova maniera di definire e dare senso, perché ogni idioma ha il suo originale modo di ritagliare e illuminare. Seguendo questa visione, Il terzo Reich sarebbe allora un’opera-mondo, davanti a noi vediamo sfilare tutta la realtà di un/a parlante di lingua italiana, tutti gli strumenti che egli/essa ha a disposizione per descrivere se stesso/a e il circostante, in ultima analisi la completezza di ciò che ci costituisce, senza residui. Tuttavia, il titolo dell’opera e la violenza della fruizione suggeriscono che l’intento alla base non è né pacifico né banalmente enciclopedico. Si vuole sottolineare l’elemento dittatoriale insito nel linguaggio, l’oppressione che esercita sul parlante, la privazione di ogni libertà, spontaneità, originalità. Un’idea cara al pensiero francese del secolo scorso, ad esempio a Lacan che ci considera sempre «parlati» e mai parlanti, perché il linguaggio ci precede, ci supera, scava nel nostro corpo, devia le nostre funzioni. Un giovane Nietzsche scriveva, in Su verità e menzogna in senso extramorale: «In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto». Da questa angolazione potremmo guardare al rituale iniziale quando, prima che partano le parole sullo schermo, Gloria Dorliguzzo porta sulla scena una sequenza di movimenti misteriosi, dal sapore onirico, prima di accendere una candela e spezzare in due una colonna vertebrale. Castellucci ha dichiarato trattarsi del momento di “accensione” del linguaggio — quegli animali intelligenti che scoprono la conoscenza sulla stella remota, o forse il legislatore del Cratilo di Platone, colui che dà i nomi per la prima volta e spezza il fluire indifferenziato della realtà. Nietzsche traccerebbe anche una possibile via di liberazione: ricordarci che le parole non sono verità eterne ma piuttosto semplificazioni che l’essere umano stesso ha creato, anche se questo significherebbe minare la stabilità della nostra esperienza. «Solo quando la massa originaria di immagini — che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia umana — si indurisce e irrigidisce […] solo quando l’uomo dimentica se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza». E il teatro allora può essere proprio quel luogo in cui ricordarci della difficilissima, ma sempre possibile trasfigurazione della realtà, per sfuggire alla dittatura del già dato.
Agli antipodi della freddezza de Il terzo Reich c’è Emilia Verginelli con Io non sono nessuno. Uno spettacolo caloroso ed empatico, dove non manca però l’interrogazione su questioni fondamentali, in particolare sia possibile o meno liberarsi dei «ruoli». Ancora una volta, il teatro è proprio quella possibilità di giocare coi ruoli, di cambiarli e assumerne di nuovi, ma fuori? La risposta sembrerebbe essere affermativa, a patto di dar vita a legami diversi dal solito, dove le parentele non sono importanti e ciò che conta è il fare esperienza insieme. E allora è la realtà a confluire programmaticamente nella messa in scena, con la massima naturalezza che Emilia, Muradif e Michael occupano il palcoscenico, ballando break dance e evocando momenti di condivisione, soprattutto all’interno della casa famiglia dove Muradif è cresciuto e Emlia fa la volontaria. Un gioioso e sincero interrogarsi sulle responsabilità che ci prendiamo e di come ci influenziamo a vicenda, di come l’altro può sempre avere qualcosa da insegnarci sul difficile esercizio di stare al mondo, nello spazio che c’è tra due passi di danza.
Lucrezia Ercolani si muove tra teatro musica e filosofia. È una punk.