Progetto #7.

CAPITOLO V

Rapporto n° 389
Roma 15/12/2013
Operatore Epicuro Tre
Orario operativo:  dalle 23.08 alle 23..31
Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

Alex ti ha riaccompagnato a casa. Gen­tile da parte sua, forse si vuole ven­dere come uno alla mano. Sei sceso dal Suv bianco e i fricchettoni buttati sullo scalino che immette al tuo porto­ne ti hanno guardato con astio. Figu­rarsi, un Suv a San lorenzo! Non si sono scansati e tu non hai badato loro, li hai semplicemente scavalcati, hai richiuso il portone dietro di te e quelli hanno borbottato qualcosa ridacchiando. In casa non c’è nessuno, probabilmente la coppietta è a cena fuori. Arrivi nel tuo stanzino e apri immediatamente la custodia della chitarra alla ricerca del cellulare che squillava. Non hai avuto tempo di vederlo per tutta la giornata, prima le prove, poi il pranzo, poi nuovamente le prove e quando ti hanno invitato a cena non ti sei potuto tirare indietro. Ma quell’aggeggio ti mandava la sua fascinazione nonostante fosse rinchiuso nella custodia. Volevi ad un certo punto andare in bagno per vedere che razza  di mistero si nascondesse nella custodia della chitarra, ma non potevi portartela certo in bagno. C’era qualcos’altro che ti tratteneva, perché se veramente avessi voluto un sistema per prendere il telefonino l’avresti escogitato.  Ti sei trattenuto perché volevi essere da solo. Ora lo sei, non c’è addirittura nessuno in casa, cosa veramente strana. La custodia è aperta. Ti arriva una vampata alla testa: nuovamente Lo smart phone giallo, lo prendi in mano, lo volti e ha il simbolo “#” sul dorso. Giureresti che sia lo stesso che hai riconsegnato al cassiere del Necci. Non può essere, è talmente assurdo. Eppure sai che è proprio lui. Pigi il bottone di comando, strisci il polpastrello sullo schermo per sbloccarlo e nell’icona dei messaggi trovi un cerchietto rosso con il numero 1. Sicuramente il proprietario che ne richiede la restituzione. Schiacci il punto rosso e si apre una pagina, l’archivio è vuoto. Soltanto un messaggio. Nell’intestazione c’è scritto “Progetto #”, lo apri.

D’un tratto un botto e un fragore di vetri proveniente dall’esterno. Vai alla finestra e attraverso le stecche della persiana vedi un tizio con la faccia sporca di sangue, immediatamente seguito da un parapiglia di gente ur­lante. L’ennesima rissa tra ubriachi. Te ne freghi, ti siedi sul letto e guardi lo schermo dello smartphone. La prima cosa che ti balza agli occhi è il tuo nome e cognome in stampatello. Cominci ad ansimare, ma vai avanti e leggi:

Caro LO­RENZO MINELLI, attraverso que­sto telefono, che le è stato recapitato in maniera un po’ rocambolesca, la nostra or­ganizzazione, o asso­ciazione, o se vuo­le net­work, che ha scopi benefici, vuo­le occuparsi di lei. Sappiamo che lei non versa in buone condizioni finanziarie e sta perdendo il gusto di vivere la vita. Noi vogliamo farle cambiare idea. Non si ponga troppe domande e non ne faccia parola con nes­suno, se accetta di farsi aiutare, capirà in segui­to il perché. La sola informazione che per il momento possiamo  darle è che, se accetta i nostri servi­zi, la sua vita sarà gradevole fino alla fine dei suoi giorni. Vuole il nostro aiuto? Se Sì prema il tasto “#” se NO elimini questo mes­saggio. Inutile dirle che non è un’offerta pubblicitaria, né uno scher­zetto di cattivo gusto. Si prenda tutto il tempo che vuo­le per risponderci. In­tanto, per farle capire che non siamo dei buontem­poni, la vorremmo aiuta­re immediatamente. Venerdì 29, cioè doman­i, giochi quest’ambo secco sulla ruota di Roma, i numeri che usciranno sono: 5 e 29. Giochi soltan­to 2 euro, altrimenti non usciranno mai. Ar­rivederci e, speriamo, a presto.

#3
Rapporto n° 390
Roma  16/12/2013
Operatore Epicuro Tre
Orario operativo:  dalle 10.20 alle 12.13
Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

Finalmente te li hanno accreditati. Quattrocento­venti euro. 5 e 29 secchi su Roma. Non ti capaciti di quello che sta succedendo. Sei appena uscito dall’ufficio postale guardandoti intor­no, sicuramen­te qualcu­no ti spia. Mi guardi, ma non mi noti, come fossi un per­fetto estraneo. Non riesci pro­prio a credere ad una fortuna così. Sì, perché la fortuna non prevede l’in­tervento di terzi. La for­tuna se è tale, è un acca­dimento strettamente personale senza lo stimolo o il suggerimento di nessuno. Perlo­meno questo è il tuo modo di vede­re, la tua for­mazione, la tua esperien­za delle cose.

Il tasto #  non l’hai ancora pigiato, hai un conto alle poste di quattrocen­toventi euro, ma non hai mai avuto così tanta paura in vita tua. È esatta­mente una settimana che non riesci a dormire a causa di questo. Ritornare a casa non se ne parla neppure. Il computer ce l’hai dietro, forse è il caso di seder­si in un bar e passare la mattinata a cazzeggiare sul web.

Ci sei. La vite americana è diventata rossa e questa per­gola ti piace. Il cortile, nell’insieme, un po’ meno, ma il sabato mattina, quando il bar Necci è stra­pieno, il Forte Fanfulla è un ot­timo rifugio. Il bar non funziona fino a mezzogiorno, quindi neppure il ser­vizio al tavolo. Il tizio che si oc­cupa della cucina è sempre scorbutico e non ti va di chiedergli il caffè. Te ne stai lì, buo­no buono, a fumarti l’ani­ma aspet­tando l’arrivo di un barista e a leg­gere le tante cazzate auto promozio­nali degli utenti face­book,. È un’accozza­glia di accuse reciproche di hipsteria, la grande vergogna del mo­mento. Ognuno è l’hipster del suo nemi­co prossimo. Qualche anno fa l’accusa era radical chic e guai se ne fossi stato accusato. Ti si faceva il vuoto intorno. Ora non è più in voga come in­criminazione, la continua­no ad usare solo le per­sone sposate, alle quali le mode arrivano sempre con una abbondante laten­za, qualche coatto, quando non sa come of­fendere il proprio commercialis­ta, e i giornali di destra per parlare dei politici di sinistra.

Enrico, il bassista del tuo gruppo, aprì que­sta pagina fan e tu ogni tanto ci entravi per con­trollare se qualche etichetta vi avesse contattato, o maga­ri per vedere se  riuscivi a entrare nelle grazie di qualche agenzia di boo­king e fare un concerto in più in qual­che paesello sfigato della Calabria. Ora ci entri  mezzora ogni tanto per ali­mentare la tua razione di odio verso il con­formismo, per scaricare i post più stupidi, magari un giorno ne farai una raccolta, e per vedere se Claudia ha scritto qualche cretinata. Ti senti sol­levato dal fatto che non posta mai niente, se non le risposte da dare alla sua comitiva di amici odiosi che cerca­no di stimolarla ad entrare in discuss­ioni futili. In ogni caso, una vera si­gnora. Mai una foto del suo cane, tanto meno di altri cuccioli, nessuna notizia di politica linkata da qualche giorna­le, né i vari buongiorno o buona­notte donati all’umanità indifferente. Unica nota stonata, la foto del suo profilo: Tina Modotti. Una dichiarazione di impegno un po’ fuori luogo. Basta leggere la biografia della Modotti e raf­frontarla alla vita calma e borghese di Claudia. Comunque la foto è bella, c’è il faccione della fo­tografa che espone le sue ascelle rasate. Esci dal­la sua pagina vuota e ti inoltri nella giungla di di­chiarazioni di stoltezza. C’è uno che va avanti da due settimane a  sputtanare i propri vicini di casa che scopano rumorosamente. Che gusto c’è? Che cazzo gliene frega a lui se quelli trombano o meno. Ti verrebbe di rispondergli “perché non esci di casa, o ti porti anche tu qualcuna, per di­menticare i coiti altrui?”

 Un alito freddo fa cade­re qual­che fo­glia e, come  fosse un libro, o me­glio ancora un film, lei ap­pare sotto questa pioggia di coriandoli bruni. Ti aspetti che da un momento all’altro parta, da chissà dove, un suono di viola. È più bella del so­lito, merito forse dell’effetto sorpre­sa, la guardi come se fosse un alieno. Lei ride.

«Chiudi quella bocca che ti entrano le foglie!» ti dice.

«Buongiorno» rispondi con un rantolo.

Gatsby ti salta addosso a farti le fe­ste.

«Ti ho cercato al Necci, pensavo di trovarti lì…» dice lei con naturalez­za.

Fai finta di niente, come se ti avesse detto, piove, o, mi siedo. Rispondi un di­sinvolto:

«No, troppa gente…»

«Quindi, vuoi stare solo… Me ne vado?»

«No, no! Scherzi? Siedi, facciamo cola­zione in­sieme…»

Si siede. Ha i capelli raccolti in una crocchia do­rata: è fantastica. I suoi occhialini da topo. Rim­provera il cane, che or­mai ti si è ac­coccolato sulle gambe, poi:

«Ma qui non hanno niente da mangiare.»

«Ci sono delle torte. L’unica difficol­tà è che c’è quel­lo della cucina. Am­mazza, quanto è scontro­so!»

«No, con me è sempre carino. Vado io.»

Si alza ed entra. È carino, sì, ma solo con lei. È bella e aggraziata, farebbe cadere le braccia an­che a Bar­bablù. In­fatti esce fuori, dopo un po’, con due piattini sui quali ci sono le fette di torta e, dietro di lei, lo stron­zo con due caffè. Lei rin­grazia, tu pure. Quello, im­bronciato, risponde: «Fotte­tevi.»

Lei ride come una bambina, lui rimanda la sim­patia con un sorriso sghembo e rientra. Ti sta troppo sul cazzo.

«Hai visto?» fa lei « Non è poi così burbero…»

« È solo che non ti si può dire di no»

Metà ciambellone lo da al cane, poi prende la parte rimanente e prima di metterla in bocca dice:

«Non ci siamo più visti… Che fine hai fatto?»

In effetti, è dalla sera del concerto che non v’in­contrate. Erano presenti tutt’e due, lei e France­sco, e sono stati molto carini a venirti a salutare dopo la performance. I loro complimenti sembra­vano since­ri.

«Ho fatto bingo…»

«Cioè?»

«Quella sera c’era Alex Tarelli al con­certo…»

«Sì, l’ho visto!»

«Il chitarrista che avevano nella band s’è dilegua­to e m’ha chiesto di sostit­uirlo. Ho iniziato le pro­ve l’altra settimana. Fra dieci giorni parto in tour­nèe con lui.»

Ti prende il polso, tu trasali.

«Ma dai! È fanta­stico!» ti dice con gli occhi lu­minosi.

Non vi siete mai toccati dopo la sera della sbornia. Rimani prigioniero della sua mano e non sai cosa fare mentre ti parla. Hai la sensazio­ne di avere l’arto di un manichino e temi che lei se ne accorga. Una mano penzoloni, una mano da indeciso, anzi, da inetto. For­tunatamente molla la presa per afferra­re un altro pezzo di ciam­bellone. E cambiando espressione all’im­provviso, dice:

«Ovvio, sono contenta per te, ma io… Che palle, la mia solita sfiga…»

«Cioè?»

«La musica che fai mi piace e avevo pensato ad una collaborazione. Sto per fi­nire di girare un documentario e ma­gari potresti occuparti tu delle musi­che.»

«Bè, se ne può parlare… Qualcosa di pronto ce l’ho, poi non è che le date siano tutte attaccate. Abbiamo anche giorni di buco, magari possiamo appro­fittarne.»

«Sarebbe perfetto. Però, non ho molto budget… Do­vrai accontentarti… Sem­pre che ti piaccia, ovvia­mente!»

Quel suo entusiasmo ti sta scardinando a poco a poco, quell’eccitazione fan­ciullesca, quella pro­gettualità da in­timi, quei suoi capelli biondi, ti creano affanno. Sei innamorato come un sedicen­ne. Cos’è che te la fa desidera­re così tanto? Tu lo sai che ti annoie­rebbe in cinque mi­nuti se fosse la tua compagna. Non  sopporteresti di vedere il suo sapo­ne intimo in bagno perché farebbe a bot­te con l’ aura di bellezza naturale che le è propria; odieresti vedere le sue cose tutte ordinate in tau­tologica armonia con l’immagine pub­blica princi­pesca; uscirebbero fuori, probabilmente, tutte le piccinerie di cui è gonfia e tu non riusciresti mai a guardare la televisione con lei, seduto sul divano, senza avere nien­te da dir­le.

«Dammi il tuo numero. così prima che tu parta ti chia­mo e ci vediamo per discutere un po’ su tut­to. Io adesso devo andare…»

La vedi allontanarsi col suo cappottino di cam­mello  e stai già fantasticando, perché le interessi e te l’ha fatto ca­pire. All’improvviso si gira e ri­dendo ti dice:

«Ah, dimenticavo… Grazie per il caffè e la tor­ta. Ciao!»

#3

CAPITOLO VI

Vide una moltitudine di persone giù in fondo alla strada. Man mano che si avvicinava si rese conto che era domenica. Infatti quella che da lontano sembrava una rissa, in realtà era l’inizio del mercato che facevano su via del Pigneto ogni due domeniche. Nasceva come mercatino del vintage, ma ormai c’era di tutto, artigiani che vendevano monili d’argento, artisti che proponevano le loro magliette disegnate, panini, cibi biologici. La testa di Francesco svettava sulle altre. Era intento a chiacchierare con un tizio rasta che vendeva formaggi tipici. Si avvicinò e lui fu contento di vederlo.

«Lorenzo! Mi devi fare un cd con la tua musica, te ne prego… Te lo pago, eh!»

Sorrise, l’altro sollecitò:

«No, davvero! C’era il terzo pezzo che avete fatto in concerto, che era bellissi­mo. Claudia lo vorreb­be usare per il suo nuovo lavoro. Com’è che s’in­titola?»

«Caucaso» rispose lui, vergognandosi. Non cre­deva più a quella robaccia fricchettona, finto etnica. Il rasta lo guardò.

«Con chi suoni?» chiese.

«Novokomponovana rock orchestra…»

«Ah, cazzo! Conosco…» fece lui «V’ho visto al Forte Prenestino. L’altr’anno, no?»

Annuì e voleva seppellirsi. Fortunatamente, quel­lo, aveva finito di confezionare il pacchetto con i for­maggi per Francesco. Lui pagò e tra sorrisi e bat­ticinque se ne andarono in un baretto, sordidamente shabby chic, poco più avanti. C’era legno ovunque, sembrava di stare in mon­tagna, addirittura c’erano corni di chissà quale animale appe­si qui e là e, dietro al bancone, un ti­zio con i ca­pelli raccolti in una crocchia proprio al centro della testa. Aveva la barba incolta, sdrucito, ma era bello e soprattutto abbronzato. “È dicembre. Un vero schifo d’ uomo” pensò fra sé Lorenzo. Li detestava i tipi così. Erano molto in voga nel primo decennio del secolo.

“Il finto deracinè. Il tipo di esse­re umano che ama la terra! Per il bene suo e di tutti, se lo dovrebbe inghiottire, la terra. Sem­pre buono, con sorrisi rassicuranti e un’alterigia da Lord Byron se non sei una figa o uno del suo giro.”

 France­sco sorrise coi suoi baffoni e quello sorrise di ri­mando, si salutarono battendosi la mano come facevano i rappers americani.

«Qui hanno un Tenuta Gattabuia, che è una me­raviglia» disse Francesco col suo entusiasmo adole­scenziale.

«Facciamo aperitivo» incalzò anacolutamente.

Poi, rivolto allo schifo d’uomo:

«Geppo, due Gat­tabuia!»

«Avoja!» ribattè, quello, senza voltarsi.

Il bancone era un’enorme tavo­lone di noce finto antico, lucidato dall’uso,- ma anche deci­samente aiutato dalla chimica (vernice nitro) -, per fare un effetto nature sul genere di persone che frequen­tavano il posto. Si sedettero sugli sgabelli. Francesco gli espose le proprietà qua­si taumaturgiche di que­l liquido marrone e torbi­do, che così ad occhio e croce gli sembrò mer­da sciolta in ac­qua.

«Questo vino è prodotto in un vitigno della Puglia che era antichissimo e abbandonato. Dei ragazzi appena usciti dalla galera decidono di metter su una coope­rativa e di dedicarsi alla vinificazione. Sono riusciti a prendere dei fondi regionali e co­munitari e così, in pochissimo tempo, hanno rimes­so in piedi tutto il vi­gneto. Fanno pochissime botti ogni anno, ma sen­ti che roba?» E lo mandò giù, dopo aver girato per tut­ta la presentazione il bicchierone spropositato nel quale era stato servito dallo schifo d’uomo. Bevve an­che lui. Passarono tre secondi. Sapeva di vino acido. Tutto qui.

«Lo senti? C’è un po’ di mare in fondo… Noo?» disse dopo aver schioccato la lingua più volte.

Lorenzo si schermì schernendolo:

«Sa di vino… buo­no…»

Non finì di dirlo che Francesco sbottò a ridere in tutta la sua maestosità teatrale, con i suoi baffoni biondi da vi­chingo, che rendevano la sua risata franca e fraterna.

«Sei troppo forte!» disse con cameratismo dandogli una pacca sulle spalle. Lo schifo d’uomo, invece, sorrise con le labbra a punta, come se avesse avuto la bocca piena d’acqua.

«Geppo, digli qualcosa su que­sto vino» disse vol­tandosi all’indirizzo del cicisbeo e quello, come se fosse stato richia­mato sotto le armi, dandosi un contegno, con la pezzetta in mano a lucidare un bicchiere in con­troluce, iniziò: 

«Questo vino è fatto con Negroamaro puro, al 100%. Nessuno lo usa puro, lo allungano con al­tre uve, per renderlo commerciale. Praticamente lo im­bastardiscono.  È ovvio, a chi non ce capi­sce nien­te, sembrerà acido, ma il gioco è proprio quello. Solo palati fini. Gli altri andassero a bere al di­scount.»

Ridacchiò. Francesco sorrise benevolo. Lorenzo era schi­fato, ma quello insistette:

«Questi selezionano le uve migliori a luglio, in modo che  quando è periodo di vendemmia diano il massimo. Metto­no l’uva dentro cassette di le­gno, che costruisco­no loro stessi, così è trattata come una principes­sa fino all’arrivo in canti­na. Potrebbero produrre dieci volte de più, ma gli uomini che non c’hanno ideali fanno il commer­cio, non il vino. Questa uva si adatta ai ter­reni più ostili, per esempio la tenuta Gattabuia, che è il nome del vigneto di questa cooperativa, sorge su un terre­no siliceo ar­gilloso dove non ce cre­scerebbe neppure l’or­tica, ma il Negroamaro è la forza della natura. Chia­ramente lo possono fa’ perché c’hanno gli stan­ziamenti, sennò non po­trebbero mica, eh.»

Francesco mandò giù il suo vino, lui lo lasciò. Lo guardarono.

«No, io bevo solo bianco… sono aller­gico al tan­nino» sentenziò remissivo. E loro in coro:

«Bianco?»

«Eh… purtroppo…»

Francesco lo invitò allora a prendere un bianco, lo schi­fo d’ uomo gli voltò le spalle, era diventato uno di quelli che non valgono niente, e lui rispose di non volere nien­te. Era nuovamente il cafone provin­ciale che sentiva di essere quando si trovava in difficoltà.  Si andarono a sedere in un ta­volo in fondo, mentre il tipo gli portò dei ta­ralli e una va­schetta di vetro con una gelatina arancio­ne.

«Marmellata di peperoni, la fa mia madre.»

Stava per rispondergli Sticazzi, ma Francesco lo an­ticipò, ringraziandolo di cuore.

«A me sembra che non ti piaccia così tanto il bio… Sbaglio?»

«Non mi piace l’obbligatorietà del piacere. Il do­versi far piacere un alimento o qualsiasi altra cosa, solo perché ha delle idee dietro.»

Voleva continuare, dirgli che voleva vivere al momento, senza ipoteche o guadagni sul futuro; che odiava la dit­tatura del gusto e, soprattutto quella del giusto; che non sopportava il progresso infelice, tanto meno la decre­scita felice e soprattutto voleva ringhiare a quelle idiozie novecentesche dure a morire.

Lui sorrise indulgente, mentre raccoglieva della mar­mellata di peperoni su un tarallo asimmetri­co, fatto a mano.

«Sei un anarchico?»

« Già me l’ha rinfacciato Claudia l’altra sera… Non lo so, penso di no. Non ho la barba.  Neppure dentro.»

Francesco rise. Era simpatico quando rideva. “È questa cosa qui che piace a Claudia?” si domandò.

«Capisco quello che dici» fece lui. «A volte an­ch’io mi pongo delle domande, ma non posso pensarci trop­po. Io campo di questo, vivo coi sol­di di que­sta gen­te e quindi devo credere, altri­menti non sono credibi­le. Io costruisco i conteni­tori di que­ste idee…»

«Cioè?»

«Le mie case di paglia pressata. La gente che ci vive ha queste idee. Ama l’eolico, il fotovoltaico, i cibi bio, l’acqua pubblica, odia l’OGM, il nu­cleare, il ca­pitalismo… Se mancasse solo una di queste tes­sere, l’intero mosaico si sgretolerebbe. Io non posso per­mettermi di dubitare neanche su una sola di queste cose. Non sarebbe giusto…»

«Né remunerativo…»

«Già. Ma non mi pensare in malafede. A me que­sto vino piace davvero, la Natura mi piace dav­vero e mi tranquillizza pensare che posso contri­buire a rendere il mondo  migliore, per me e per i miei… fi­gli.»

Quell’incertezza, quel pudore nel pronunciare la pa­rola figli lo insospettì. Allora bluffò:

«Ma voi non volete figli, mi sembra…»

«Bè, io ho quarant’anni, Claudia trentotto, siamo in­sieme da dieci anni. Ci abbiamo provato per un po’, poi c’è passata a tutt’e due…»

 Poi, ritornando gio­viale: « Comunque, il mondo migliore magari lo posso desi­derare per i tuoi figli…»

Lorenzo sorrise.

«Lascia stare. Non mi interessa proprio l’artico­lo.»





Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.