Progetto #3.

Rapporto n° 385

Roma 29-30/11/2013

Operatore Epicuro Tre

Orario operativo: dalle 22.13 alle 3.50

Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

Laura non chiama. Non ha chiamato, sono tre giorni che non vi sentite. Non puoi rimanere a casa perché al di là della parete le frequenze basse di Giuliano, si al­ternano alle risate argentine di Antoi­nette. Tristezza. Bi­sogna uscire. Potresti incontrare Lau­ra. Ma soprattutto bisogna incontrare Carlo.

Bicicletta. Sulla Prenestina, ogni tan­to, dalle auto si affaccia qualche pi­schello urlante per prenderti per il culo. Di giorno mai. La sera, però, gli ubriachi in auto sembrano non avere altro sport che quello dello sfottò al ciclista. Colpa  dei no oil e delle loro esagerazioni.

Forte Fanfulla. All’entrata c’è Abu, il ragazzo senegalese più popolare qui in zona. Simpatico a tutti. È ormai total­mente romano. Sicuramente più di te. 

Diluite in giro per la struttura, una decina di comparse. Nullità senza volto  e senza alcuna peculiarità, inutili per chiacchierarci.

Al bancone ci sono Barbara e Elsa. Una è siciliana, l’altra calabrese, entram­be piacevoli. Barbara, inoltre è anche musicista e così iniziate a parlare di band e strumenti musicali.

D’un tratto senti delle labbra calde sul collo, da dietro qualcuno sta ba­ciandoti. Ti volti, è Carlo. Ride come una pazza. Indossa un cappello nero a falda larga ed è elegantissimo. Insieme a lui la donna del sogno e il suo bion­do.

«Ciao, frocione» dice Carlo, ridendo «Ti presento Claudia e Francesco»

Frasi di cortesia a seguire. Ordinano una bottiglia di rosso biologico e se ne vanno in cortile. Non ti hanno invitato, quindi resti al bancone. Bisognerà appartarsi un attimo con Carlo per  chiedergli il prestito. Speri che più tardi possa liberarsi ma per   il momento è meglio stare calmi e tranquilli. La sedia però sembra avere degli spilli. Non riesci a rimanere seduto sapendo che la bionda, anzi Claudia, è li, oltre quella porta. Sorseggi il tuo pastis, lasciando sfilare qualche minuto per non dare nell’occhio fingendo una calma olimpica.

Ne sono passati dieci. Ti alzi. Appena esci lei ti guarda, tu altrettanto. Ti siedi ad un tavolo, tiri fuori il ta­bacco e ti giri una sigaretta.

Adesso è lei ad alzarsi, ti punta, vie­ne verso di te. Una nullità, seduta ad un altro tavolo, la segue con lo sguar­do incollato al suo culo per tutto il tragitto.

È davanti a te, ti fa un sorriso cor­diale, tu cerchi subito di darti un tono ma lei ti domanda semplicemente:

«Posso farmi una sigaretta?»

Le rispondi, gentile, che faccia pure. Si siede. Il tuo sguardo va subito al biondo coi baffi ma quello non si è neppure accorto che lei è venuta qui. Forse è gay come Carlo e lei soltanto un’amica. Ma certo che è così.

«Dov’è che ti ho visto prima?»

«Al Necci. Stamattina» rispondi sorri­dendo.

«Intendevo prima di stamattina» fa lei, guardandoti seria.

Fai spallucce.

«Non lo so… Io abito a San Lorenzo»

«Non frequento San Lorenzo»

«Allora qui. Io sto sempre qui al Pi­gneto»

«No. Ti ho visto da qualche parte che non è Roma… Vabbè, lasciamo stare»

E’ nervosa. Ha dei tic impercettibili, sembrerebbero gesti naturali, se non fosse per la loro ripetitività che suona falsa. No, non si tratta di tic: sono dei rituali. Sì, anche questo finto sbadiglio. Accende la sigaretta, è venuta uno schifo.

«Scusa, non sono una cannarola…» e aggiunge riprendendo il discorso «In ogni caso non ti ho visto qui al Pi­gneto. Io e Francesco siamo venuti ad abitarci tre giorni fa»

«Ah. E dove state?»

«Sai la casa di paglia, quella che…»

«Ma sì, certo. Quella totalmente ecoso­stenibile. E’ famosissima qui in zona»

Lei tira una boccata. Poi si alza.

«Vado a prendere il bicchiere. Ti spia­ce se rimango un po’ qui? Loro stanno parlando di lavoro…»

«Prego»

Ha i jeans attillati, e tu diventi  una nullità che guarda le natiche delle donne. Ti odi, ma con tutta la buona educazione del mondo è impossibile percepire il fuoco come qualcosa di rinfrescante. Ritorna con il suo bicchiere, si siede nuovamente.

«Pagate molto d’affitto?» le chiedi, fingendo interesse.

«È nostra. O meglio, l’ha progettata Francesco»

«Ah. Voi…»

«Si, siamo sposati» t’interrompe in modo sbrigativo. Sembra quasi vergo­gnarsene, o forse è una tua impressio­ne. Per te la notizia è un ceffone in pieno volto. Tuttavia riprendi il di­scorso.

«Avete figli?»

«Sì. Io due. Gatsby e Titta, due cagnoloni grossi così. Lui, invece una station wagon degli anni 80.»

Sbuffi un sorriso di cortesia. Forse sei prevenuto ma già ti sta sul cazzo.

«Bambini veri all’orizzonte?»

«Calma! Sono soltanto dieci anni che siamo insieme. Ci siamo sposati tre mesi fa. Una cosa alla volta.»

C’è qualcosa d’amaro nelle sue parole, nonostante le abbia pronunciate col sorriso in bocca. Una specie di acredi­ne da amante tradita. Un attimo di si­lenzio. Lo riempi subito:

«Sei anche tu architetto?»

«No» replica «lavoro come producer in una televisione e poi faccio documenta­ri. E tu? Cos’è che fai?»

«Suono. Ho un gruppo»

«Ah. Si può sentire qualcosa di tuo?»

«Suonerò qui martedì prossimo. Venite, se vi va. Carlo viene sicuro»

È passata un’ora. Il locale s’è riem­pito. La discussione s’è animata.

Carlo e Francesco stanno ancora seduti all’altro tavolo. Tu sei al secondo pa­stis, lei ha bevuto tre bicchieri di rosso. Non ti piace quel che dice. Crede che l’arte e la cultura vadano sostenute. Inutile farle notare che quel sostegno non è mai volontario come un biglietto al botteghino, ma è estorto con la tassazione e il più delle  volte quei  soldi sono sottratti a gente che non ce la fa a campare in tranquillità. Gente che alza la serranda anche a ferragosto, tanti anche a Natale e a Capodanno, persone che vanno in cantiere anche con la febbre e  magari preferirebbero farsi abbassare le tasse piuttosto che finanziare gli attichetti dei registi impegnati, le ville dei produttori o i cachet esosi di attori che  si ergono sempre a paladini dei poveri. Come ti fa incazzare! Sei sempre più incazzato, lei altrettanto.

«Il tuo mondo è orrendo!» dice quasi urlando, tant’è che dagli altri tavoli qualcuno si è girato e ridacchia.

«Un paese senza cultura è un paese mor­to!» aggiunge.

Vorresti ribatterle con un vaffanculo calmo, di quelli che si proferiscono col viso appoggiato sul palmo di una mano. Invece continui sul dialogico, facendole notare che la parola cultura è troppo vaga. Chiunque può tranquilla­mente masticarla per avere delle sov­venzioni statali. Ma è inutile. Stai parlando con una regista di documenta­ri. Lei campa di questo. Vor­rebbe educare tutti alle sue tesi e guai a ribatterle. Ora è tua nemica. Guardi la bocca distorta dalla fatica che fa a trasformare le parolacce che vorrebbe dirti in frasi colloquiali. Finalmente arrivano Carlo e il marito di lei. A quel punto sentendosi appog­giata è ancora più velenosa e tu ti senti un povero burino, un miserabile senza cultura. Ti ha dato del fascista, del leghista, del destrorso,  del liberista cinico, del borghese bottegaio, dell’anarchico nichilista… Cazzo, quant’è romana! Francesco non interviene. Si limita a guardarti come se non esistessi. Carlo cerca di sedare gli animi con battutine divertenti. Alla fine siete rimasti soltanto voi e i ragazzi del bar con le buste dell’immondizia in mano. Lei ha la fac­cia rossa e una vena gonfia sulla tem­pia delicata. Vi salutate. Rimonti sul­la tua bicicletta da povero a prenderti anche gli sghignazzi degli ubriachi sulla Prenestina.

#3


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.