Progetto #6.

CAPITOLO IV

Chissà perché quella mattina San Lorenzo gli sembrava bella. Faceva freddo ma c’era il sole e un cielo alla Van Wittel. Laura adesso gli mancava ma non lei come corpo e persona, no. Gli mancava perché lo aveva abbandonato. L’ennesimo abbandono. Peccato, perché anche se i soldi dell’affitto ancora non ce li avesse, qualcosa di buono era uscito fuori dal concerto al Forte Fanfulla e invece di sentirsi un fallito totale, uno destinato a rimanere solo per sempre, stava leggermente rilassato. Aveva una fastidiosa mollezza in fondo allo stomaco, come quando da bambino si ha la febbre. Pensò la parola malinconia. Gliela dicevano sempre quando era piccolo e si ritrovava a piangere al tramonto, così, senza motivo. Si fermò un attimo a guardare la soprelevata da Via dei Sabelli, chiuse gli occhi e, bum! indietro di vent’anni.

«Lollo, ti vogliono al telefono… È l’ospeda­le…»

«Grazie…»

Erano le sette. Erica, la moglie di Ful­vio, lo aveva svegliato con la faccia cupa di sonno e preoccupazione. Quella coppia gli aveva re­galato una stanza della loro casa. Erano tutti e tre giovani e fichissimi. Quella mattina, però la voce sommessa di Erica non gli piacque, aveva qualcosa di materno.

La voce dall’altro capo, pure, informale e forse anche più pre­murosa, gli dice che deve andare lì, al Policlinico, che sua madre si è aggravata. La donna era in coma da quindici giorni.  Lui aveva da poco compiuto venti anni.  Non era af­flitto, era biondo e molto bello, così  dicevano le sue amiche e le sue amanti, il dolore quindi era una faccenda da vecchi, un’ entità da allontanare, o perlo­meno da posticipare. Il mondo sembrava ruotargli intor­no e nessuno poteva o doveva scalzarlo da quella posizion­e di favo­re. Quella mattina stava soltanto facen­do il bra­vo fi­glio e lo contrariava moltissimo prendere l’auto­bus che di solito lo conduceva all’università, ma era quello della famiglia che abitava a Roma. Viveva in centro, a Via Giu­lia, e ve­dere dai finestrini del bus le strade e le case, che via via diventavano sempre più brutte, lo ri­portava violente­mente a terra, al suo passato più prossimo. Le rammentava bene quelle case in corti­na, quell’architet­tura anni trenta, squadrata, stile ventennio, che tanto somigliava a certe zone che co­nosceva da vicino giù a Isernia.

“Cosa significa aggravata? Una persona in coma cioè, praticamente morta, come si aggrava?”

La risposta gli venne data non appena varcò la so­glia della stanza in cui era solito venire tutti i giorni. Il letto era vuoto, il materasso piegato in due. Andò nel locale dove era riu­nito un po’ di personale ospedaliero. C’ era un’ in­fermiera china su una cartella. Le chiese spiega­zioni, lei lo guardò im­paurita poi si rivolse alla sua collega.

«È il figlio della 27…» disse, sparendo dietro una por­ticina. L’altra infermiera lo guardò fisso e la boc­ca le si aprì in una “o” muta. Stava per chiede­re delucidazio­ni, ma uscì nuovamente la prima in­fermiera e lo an­ticipò por­gendogli una busta gialla con qualcosa di non troppo volumi­noso.

«Questo era di tua madre…»

«Che significa?»

«La mamma, purtroppo…»

Rimase muto a guardarla, con la busta in mano, gli mancava l’aria.

«Ma che è morta?»

«Sì, stamattina alle cinque… mi dispiace…»

Non una lacrima, né un sospiro. Fece sol­tanto un cen­no di assenso con la testa e uscì fuori dalla stanza. Era diventato un blocco di cemento. Percorrendo tutto il corridoio dal pavi­mento lucido, arrivò da­vanti ad una vetrata e sentì le gam­be cedere. Re­sistette, oltrepassò la vetrata, fu fuori. Era una bellis­sima giornata di maggio. Cadde a sedere sul­la scalinata che immetteva al padi­glione.

Riaprì gli occhi. Basta, niente ricordi. Basta. Scese per Via dei Sabelli, fino ad arrivare ai piloni che sostengono la soprelevata. Lì c’era una fermata del tram. Si ordinò di stare bene. Tutto parlava di futuro roseo e alberi pieni di caramelle. Aveva un nuovo lavoro. Inaspetta­to.  Una tournèe di sei mesi. Le canzoni le conosceva perché il committente, Alex Tarelli era il can­tante me­lodico più famo­so d’Italia. Aveva già impa­rato gli spartiti tan­to era il materiale a disposi­zione on line.

Prese il tram 19 verso Prati.

La sala prove era prestigiosa, non ci aveva mai suona­to, irraggiungibile. Roba da no­biltà musicale. Eppure pro­prio lui, senza nessun aggancio, nessuna cono­scenza di ri­lievo, era il fortunato sconosciuto che sarebbe entrato in quella sala. Forse il primo, perché lì dentro artisti senza pedigree non avevano mai suo­nato. Alex Tarelli vide l’esibizione con la sua scalcinata band sul palco del Forte Fanfulla e i suoi fra­seggi di chitarra gli erano ri­masti in testa, al punto di farlo contattare dal suo agente. Il provino andò benissimo, fecero due pezzi insieme e uno glielo fece fare da solo. Dalla sua valigia di chi­tarrista tirò fuori la Ciaccona di Bach ri­scritta per chitarra da Se­govia e sapeva che con quella avrebbe vinto. Infatti ora era lì, sul 19, e stava per fare la prima prova ufficiale della tour­nèe. Tutto a posto, quindi. E allora perché quei flashback?

Il giorno dei funerali. Mattinata luminosa e pie­na di vento, le nuvole gli sembravano le mani bianchissime di due amanti che si intrecciano e si fondono in­cessantemente. Non aveva voluto rivedere la salma di sua ma­dre prima che fosse sigillata nella cassa. L’aveva vi­sta qualche giorno prima all’ obitorio del Po­liclinico. Aveva una testa piccolissima ra­sata a zero e non sentì granché, non aveva mai vi­sto prima quel corpo cosificato, assolutamente lon­tano dall’immagi­ne che lega­va alla pa­rola mam­ma. Suo padre era impazzito. Non aveva lacri­me, muoveva incessantemente il suo bastone all’indi­rizzo del cielo, bestemmian­done l’innocente pu­rezza tir­renica. Sua sorella, invece aveva il volto pie­no di la­crime, i vicini e i famigliari si rivolgevano tutti a lei per vomitare la loro pietà. Avevano provato anche con Lorenzo inutilmente. Non voleva ringraziare per una so­lidarietà non richiesta e quindi cercava di non farli avvicinare facen­dosi vedere sereno, come se quelle cose gli accadessero tutti i giorni. In verità provava vergogna sotto il tiro incrociato di sguardi carichi di compassione per lui. Ma come osavano provare pietà per lui? Lui era bion­do, bello e fichissimo. Nessuno capì quel­la sua posa e di­ventò immediatamente il colpevo­le di quel­la mor­te. Ah, quanto non era un figlio esemplare; ah, quanto non era stato mai d’aiuto; ah, mai una sod­disfazione!

Finalmente chiusero il portellone dell’auto nera che riportava la cassa di rovere a Isernia. I medici romani nulla avevano potuto. Lui decise di rimanere a Roma. Non c’entrava niente con Isernia, non gli era mai appartenuta. Suo pa­dre lo salutò col volto duro. Gli si avvicinò, pen­sò che volesse baciarlo.

«Fai bene» gli disse con la voce ato­na.

Sua sorella lo guardava invece con disprezzo. Non le andava proprio giù che non tornasse a casa per i funerali. Il furgone nero si mosse. I po­chi parenti si riuni­rono tutti nell’auto di uno dei suoi zii, suo padre e sua sorella in un’al­tra. Salutò con la mano. C’erano i suoi amici lì con lui. Stasera dove si andrà a far casino?

Perché ricordare quelle cose, alle otto di mattina, su un tram che ha per méta un futuro dorato? La risposta gli sembrò semplice: Laura. L’ennesi­mo addio.

Salì un tizio grasso, con un faccione butte­rato piantato sopra ad un corpo gigan­tesco, un su­damericano. Lo fissava e fu costretto a volge­re lo sguardo altrove. Lo riguardò, nella sua tuta fel­pata, col suo zaino enorme strapieno di chissà cosa e lui non gli staccava gli occhi di dosso, anzi, li strinse, come se volesse ricordare dove lo avesse già vi­sto. Pensò al solito pazzo da auto­bus e guardò fuo­ri, oltre il finestrino, i piloni del­la sopraelevata su Via dello scalo di San Loren­zo. Intanto si diffuse una puzza mostruosa, qualcuno aveva scorreggiato, pro­babilmente proprio il bengalese che aveva davanti. Così, tranquillamen­te, come se niente fosse. Una ra­gazza guardò Lorenzo e lui arricciò il naso, per farle inten­dere che non era stato lui e girò lo sguardo sul benga­lese. Una signora coi capelli rame e la pellic­cia, sventolò una mano  davanti a sé, anche lei lo guardava. La fermata era vicina e stava quasi decidendo di scende­re ma il su­damericano aveva prenotato la sua disce­sa e, in quel momen­to, due donne lo bloccarono.

«Ma cossa vuoi? Io devo scende­re!» urlò acci­gliato.

«Tu hai preso il mio telefono, ridammelo!» ribat­tè la donna più giovane. La donna più anziana rincarò la dose e mostran­dogli un telefono cellu­lare fece:

«Vedi, io sto chia­mando il numero. E nel tuo zai­no si sente squilla­re…»

«Ma cossa squilla! No se siente nada! Niente!» rispose l’o­mone togliendosi lo zaino di dosso e ostentandolo davanti al muso della tipa. La ra­gazza  era un po’ sorpresa, in effetti non si sen­tiva nulla. La don­na anziana, invece insistette:

«Infatti, adesso non squilla più, è caduta la linea. Aspetta qui, che ri­provo…»

Il sudamericano aveva lo sguardo furioso e avrebbe potuto spaccare l’intero autobus con una sola mano, in­vece si stava per mettere a piangere.

« Guarda che non ce l’ho io! Lasciame andare! Io sono epi­lettico e tu mi fai star male!» disse con voce rotta. La ragazza era perplessa, tuttavia, dopo un momento di esitazione riprese:

«Mi dispiace, non vo­glio farti del male, ri­dammi solo il telefonino»

La si­gnora più anziana annunciò, mostrando il proprio cel­lulare:

­«Adesso sta risquillando»

La giovane avvicinò la te­sta allo zaino, ma la rialzò subito dopo.

«Io non sento niente…» sentenziò. Si aprirono le porte ma una donna  con gli occhiali d’oro intervenne:

«Lo sento io, viene dallo zaino! A ladro de mer­da!»

 Il su­damericano girò la testa ripetuta­mente in maniera meccanica, poi cadde a terra emettendo un IOIOIO­IOIOIOIO aspirato, il cor­po si contor­se spasmodi­camente, una spuma biancastra uscì dalla bocca e fissava Lorenzo con lo sguardo assente. Lui ap­profittò del parapi­glia e scese. Si al­lontanò a pas­so deciso, mentre nella cu­stodia del­la sua chitar­ra, inspiegabil­mente, squillava un cellu­lare. Non ci poteva credere, si chiese come fosse potuto finire lì dentro un cellulare; si chiese anche come potesse esse­re fuggito, invece di prestare soccorso al malca­pitato sudamericano o alla ragazza deru­bata. Non  gli venne neppure una misera risposta in testa, sapeva solo che era tutto successo senza che se ne rendesse conto. Prese il tram numero 3, che stava passando nel senso di marcia oppo­sto, ritornò indietro verso Porta Maggiore e da lì avrebbe raggiunto Prati in qualche altro modo.


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.