Progetto #4.

Rapporto n° 386

Roma 1/12/2013

Operatore Epicuro Tre

Orario operativo:  dalle10.20 alle 12.15

Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

Stamattina Laura risponde evasiva alle tue do­mande. Eppure è stata proprio lei a contattarti in chat e, passata mezzo­ra, vi siete ritrovati qui, al vostro tavolo. Colazione fe­lice. Felice è un su­perlativo in que­sto caso, anche  stupi­do tra l’altro. Cerchi la parola giu­sta… Forse, tranquillaBea­ta? Colazione beata ti piace. In­somma, non c’è quel conflitto, nascosto come un fiume carsico, che di solito trama durante  i vostri in­contri per sgorgare sotto forma di litigio alla prima parola sbagliata dell’uno o dell’altra. È molto bella oggi. La pelle leg­germente am­brata e un nuovo taglio di capelli. Chissà se non t’abbia chia­mato proprio per questo, voleva qual­che complimen­to. Non ti risparmi. Lei ti sor­ride con se­verità e con un  bonario distacco. Pro­babilmente ha paura che la situazio­ne degeneri e  che, a forza di sorri­setti e carinerie, si possa finire nuo­vamente a letto insieme, vanificando il suo ten­tativo di farsi abbandonare da te.

Giù in strada, al di là del can­cello del bar, appare Clau­dia. È insieme a Francesco. Stamattina però la sua bellezza ti è indifferente. Una stron­za democrat spocchiosa nel suo umani­tarismo da operetta e dogmatica nella sua incoerenza ipocrita.

Eccola, ora. Ha varcato il can­cello, i suoi passi sgrana­no appena percettibil­mente la ghiaia e sem­bra fluttuare die­tro a Francesco. È fiera ma l’atteggiamento è dimesso, pallidamente empatico, come a scusarsi di tanta eleganza: un dio immortale in un reparto di terminali oncologici

Laura legge il giornale in silenzio, sulla prima pa­gina c’è scritto a carat­teri cubitali: DECA­DENZA. Mister B. si  è dimesso. Tu abbassi lo sguardo sul libro che hai da­vanti. Fai finta di essere assorto ma il rumore di ghiaia è sempre più alto, finché una voce ma­schile:

«Ciao, Lorenzo!»

È Francesco, l’architetto felice. Alzi la testa, ri­spondi sorridendo un pater­nale:

«Ciao, belli!»

Lei ti saluta senza espressione, solo alzando il mento per riabbassar­lo im­mediatamente dopo. Lau­ra ha richiuso il giornale e ti guarda. Fai finta di nulla e riprendi il segno nella pagina, che ora è piena di geroglifici incom­prensibili. Troppo ner­voso per legge­re. Lo sguardo di Laura te lo senti addosso, è materico, carnoso come una verruca. Alla fine, esausto, alzi la te­sta, la guardi, ha un sorriso grave di commiserazione. Le sorridi facendo un cenno col capo, come a dire che c’è?

«Ti piace?»

«Chi?»

«Sei patetico» fa lei alzandosi. Le prendi una mano.

«Lauretta, che cazzo fai?»

Si riprende la mano e schizza via, i suoi passi sul brecciolino sono frustat­e. Ti guardi intorno per vedere se hai fatto eventuali figure di merda, poi ritorni al tuo libro. La pagina scritta, davanti a te, non rimanda nes­sun significato, sembra una città vista dall’alto dove le interlinee sono viali e gli spazi tra una parola e l’altra i vicoli laterali. E tu scendi sempre di più fino ad arrivare al livello stradale. Ora sei in una di quelle vie. Vedi Laura che se ne va di spalle, ha la faccia di granito per l’angoscia, la se­gui fino a casa sua e, mentre apre il portone condominiale, hai una stretta al cuore. Non te ne eri mai reso conto prima di quanto potesse essere esteticamente mediocre in un momento di debolezza. Quella bellezza esile, nematomorfica, al lim­ite dell’anoressia, di­scendente diretta di antiche divi­nità ex­traterrestri, è lì, ora, indifesa e miserabile: una poverina del nord che infila la chiave in un por­tone. Ha in­ventato il finto attacco di gelosia per staccare la spina. Va bene così.

Fai la strada a ritroso, come in un filmato all’incontrario, attraversi il cancello e in quel luogo, su quella sporgenza accanto alle scale, ecco il tavolo presso il quale sei seduto tu: un ragazzo invecchiato, con qualche filo bianco tra i suoi riccioloni biondi e trasandati, curvo su una pagina di libro che non riesce a decodificare. Ti guardi e ti senti deluso come tuo padre. Provi ad­dirittura un di po’ ver­gogna o pena per quel figlio  che pensavi fosse uno in gamba. Non avevi mai notato che quella vita ostile che gli  ruota inutile intorno, sei tu. Malvolentieri riprendi posto nel tuo corpo cadente. Ancora più grasso ti sembra. Il corpo di un caciottaro. Abitarlo è il tuo compito e non puoi tirarti indietro. Vivere in quella persona non  tua è una delle torture più assurde che la natura potesse infliggerti ma bisogna andare avanti e provare a migliorare. Già, migliorare, sono anni che te lo dici.

Tu non sai che ti sto guardando e sei parte del progetto.

#3

«Ciao…»

Cercò di dare un significato a quel volto che  ritornava a galla dall’abisso profondo della memoria. Era Claudia ma erano passati millenni dall’altra sera, al punto che non era un ricordo, ma il ricordo di un sogno che non riusciva neppure ad essere certo  di aver mai fatto. Non sembrava così  per lei. Aveva quattro giornali in mano, su uno spiccava la parola DECADENZA. Quattro giornali. Faceva parte del suo personaggio ben informato dei fatti e il tutto s’intonava alla perfezione con il suo cappottino lungo color cammello. Guardandola sconfessò immediatamente la sua precedente impressione.  La trovò deliziosa no­nostante il viso cianotico e le sottili lab­bra screpo­late. I capelli biondi erano sporchi, opachi, ma, raccolti in una coda di cavallo, le donavano un aspetto sontuoso. Calzava un paio di scarpette da uomo, coi lacci, che rapportandole alla sua altezza di giunco le facevano il piede sproporzionatamente piccolo; sbandierava inoltre una faccia ostinata, legger­mente am­morbidita da un sorriso, forse di scherno, che lui infatti classificò sotto la pa­rola disprezzo.

«Come stai?» le disse fingendo sincero interesse, un interesse  troppo since­ro e una sincerità trop­po inte­ressata per apparire convincenti.

«Perché, te ne frega qualcosa?»

«No, infatti. Era così, tanto per dire…» ribattè con indifferenza. Lo guardò, annuendo sconsolata col capo, poi:

«Bè, io sto male, se ti fa piacere. L’altra sera ho do­vuto riprendere lo xanax e non lo prendevo da un anno.»

Si sentì becero, uno con la mano talmente pesante che anche quando fa una carezza lascia ilividi. Era terrorizzato all’idea che potesse fargli una scenata, sarebbe stata la seconda della matti­na, un po’ troppo. Si vide impacciato come un’otaria.

«No, questo mi dispiace», le disse cercando di smorzare quella tensione rancorosa. «Vorrei aiutarti, ma non so come…»

Tutto falso e recitato male. Lei si fece indietro allibita, come in un film muto. Intanto, con un vassoio in mano, occupato per intero da dolciu­mi, tazze e bicchieroni d’acqua, giunse Francesco, il marito attento e dolce che sembrava il suo assi­stente.

«Siedi con noi?» domandò, continuando a cam­minare.

«No, scusate, sto leggendo…»

Lei lo seguì. Scesero le scale e si accomodarono in uno dei tavoli del cortile. Lorenzo sprofondò la testa nuovamente nel libro che aveva davanti ma era un labirinto di insetti neri su pavimento di carta. Inutile tentare di leggere, troppa confusio­ne in testa. Tuttavia rimaneva a capo chino in una sorta di indugio vigile, attento agli stimoli ester­ni. Un passero si posò sull’inferriata, poi affondò il becco nel proprio petto a rovistare, mentre l’uomo in nero continuava ad osservarlo.

“Cazzo! Colazione beata! Alla faccia!”, pensò Lorenzo con stizza. Gli era sembrata una mattina perfetta. Voleva godersi la vicinanza di Laura; le avrebbe offerto, chiedendo credito agli amici del bar, un pranzetto delicato con quiche di bietoline e un vinello bianco, leggero, che però nei suoi piani avrebbe ap­pianato pesantemente, e a suo favore, le loro divergenze, immettendoli in un clima più sere­no;  avrebbe proposto la siesta nell’appartamentino di lei, femminile, così caldo e accogliente; lì, avrebbero nuovamente fatto l’amore, dichiarando finito il  periodo sabbatico di Laura. Invece la bolla di sapone che racchiudeva dentro di sé queste favolette insulse, era scoppiata, così, senza alcun motivo. Si ritrovò col  cervello fritto dal contingente davanti a un libro, l’unico scoglio al quale appigliarsi per evitare di scivolare del tutto nell’impaccio  di quella situazion­e da falliti. Facendo finta di pensare a quello che stava leggendo, alzò lo sguardo verso l’orizzonte ostacolato dalle palazzine brutte, disseminate con la stessa casualità ordinata e criminale di un piano regolatore, e colse l’occasione per scrutare la coppia sotto di lui.  Il biondo era intento a scrivere qualcosa sul suo smartphone, lei, invece, era curva sui giornali con una mano tra i capelli. Nean­che mezza parola, né un sorriso. Erano belli ed eleganti. Romani. Era la coppia per­fetta, tristi al punto giusto. Lui disse qualcosa e lei sorrise: complicità.

Questo termi­ne orren­do è proprio il più comune per descrivere una coppia affiatata. Va di moda da­gli anni ot­tanta, quando il suo suono riman­dava a coppie tipo Bonnie & Clyde, Diabolik ed Eva Kant, e via dicendo. Continua ancora ad avere quell’accezione di legame stretto e un po’ clandestino. In realtà com­plicità, guar­dandoli, acquista soprattutto il significato di colpevo­lezza. Dieci anni insieme. Che delitto amputare così la gioventù…  Colpevoli.

Colpevoli di non es­sersi opposti ad una volgare dittatura culturale che li costringe a tenere in piedi il cadaverino di quello che, in giorni ormai andati, chia­mavano amore.

Colpevoli di  umiliarsi vicendevolmente nei respingimenti notturni dell’uno o dell’altra quando gli occhi sono aperti nel buio e si finge di dormire se uno dei due sfiora l’altro.

Colpevoli di tradirsi in continuazione nelle ma­sturbazioni sotto la doccia o davanti al computer, desiderando altri corpi che non abbiano la consistenza e il sa­pore di quello che si ha per contratto.

Colpevoli di disprezzarsi nell’odio represso per i calzini sporchi, gli assorbenti usati, i peli nel lavandino o nella doccia, la striscia di merda dimenticata nel water, il cibo che ti ha cucinato, le uscite con le altre coppie, la pizza il sabato sera, il cinemino di do­menica, il viaggetto low cost, il non scopare per un mese e, lo scopare quella volta al mese, quasi un dolore, fastidioso e doveroso come defecare al mattino: un bisogno per l’appunto. Vilipendio alla gioventù, ecco qual’è il reato.

Reato che non si attenua soltanto se si ha un lavoro e, quindi, stare insieme significa vedersi quelle due o tre ore prima di dormire; non lo si ammorbidisce  con l’aiuto di un amante; non lo si fugge facendo arrivare – anzi qui risiede l’aggravante più scellerata! -, un figlio. Questa pelosa consuetudine inventata nel corso dei secoli, incallitasi, non più per volontà di chi governava, bensì per la stessa sudditanza mentale dei governati che la ereditano e perpetuano a loro volta, non è più un reato ma la normalità. Anzi, addirittura chi si sottrae è condannato  allo sguardo sospettoso o pietoso di chi lo circonda, sebbene l’ esistenza abbia ormai altri ritmi e altre necessità. Non ci sono più campi da arare dall’alba al tramonto, non si è più costretti ad avvitare bulloni in fabbrica, non esistono più case da governare. Si è liberi, senza più scusanti, responsabili totali di queste scelte colpevoli.

Bisognerebbe piuttosto dividersi con fiducia, con l’animo aperto, e quest’oceano, la libertà, che si srotola infinito come il futuro, non è il luogo pericoloso dove si potrebbe affogare ma l’elemento in cui navigare verso nuove terre, forse migliori di questa.

Mentre pensava  tutto ciò, si rese conto che era il primo giorno di dicembre, il cielo era bianco e grumoso pieno di fermenti lattici e lui, in quell’angolo di bar non riusciva più a stare seduto. Avrebbe voluto alzarsi e camminare senza meta perdendosi nei vicoli del centro o di Trastevere, per una sorta di narcisismo però si sentiva come una pietra angolare, come se allontanandosi potesse rompersi quell’equilibrio e il mondo stesso crollargli in testa. Aspettava di vedere andar via la coppia che non sembrava però intenzionata a muoversi,  così prese tempo e ordinò un caffè a Michele, il barista che rideva ad ogni parola. 

«Subito, signor Lorenzo» gli rispose infatti ridendo, giocando a fare il ser­vizievole e calcando la parola signor.

Claudia sbirciò Lorenzo per un attimo, rientrò nella pagina del giornale e lo richiuse. Si alzò, fece un cenno al marito, disse qualcosa e se ne andò. Lorenzo lo osservò commiserandolo: Francesco era rimasto muto come un vedovo guardandola andare via. Anche lei, come Laura, parve a Lorenzo vista di spalle una cosetta fragile priva di fascino. Arrivò al cancello, si voltò verso di lui e lo guardò nuovamente. Riacquistò con quell’occhiata tutta la sua grazia e ogni cosa, Francesco, Laura, Michele e l’intero bar dissolsero al buio, mentre su di lei, con i capelli che le galleggiavano tutt’intorno, scese una pioggia di glitter.

 

NATURALMENTE, DEI FILE TRAFUGATI

Caro lettore, questa  è la storia di Lorenzo e Claudia, una storia che come tante potrebbe finire qui. Se così fosse però la tua delusione sarebbe enorme. Inutile ricordarti il perché dell’acquisto di questo libro: tu vuoi conoscere la vita recondita di Lurex, la più grande popstar della nostra epoca, ed in effetti così ti è stato promesso dalle pubblicità. A questo punto però devi farti prendere per mano e lasciarti accompagnare da me. Fidati. Seguimi e ti sarà dato l’aiuto necessario per capire appieno come Lorenzo Minelli sia diventato Lurex.

Il 16 agosto del 2039 venni in possesso di una pennetta. Cos’è una pennetta?I più anziani ricorderanno questo supporto in cui venivano conservati  fotografie, video, e documenti scritti. Mi garantirono che contenesse i primi esperimenti fatti col Wavetranslator, un rudimentale traduttore di onde cerebrali. Il trasmettitore inserito nell’ipotalamo mandava segnali e la persona che ne aveva il controllo poteva trasformare quelle onde in scrittura. Si poteva anche, con l’aiuto dei primi modelli del software Microniricon, quindi soltanto negli stadi di sonno, dare delle direttive all’attenzionato e influenzarne i sogni.  Oggi fa sorridere e crea spavento questa tecnica così barbarica e invasiva superata dagli scansionatori di rétina, ma fu l’archetipo sul quale venne costruito il concetto di mondo parallelo, di cui facciamo largo uso e, secondo me, addirittura abuso. Per gli scandalizzati vorrei ricordare sommessamente che fu inventato e largamente utilizzato dai nostri padri fondatori, i gloriosi e misteriosi ragazzi di Progetto #. So benissimo che quel congegno se fosse finito in mani sbagliate avrebbe potuto causare la totale perdita della libertà individuale, ma così non è stato, alla faccia degli antichi catastrofisti. Ora ce ne sono ancora  alcuni campioni in giro nei mercatini antiquari ma il materiale col quale fu costruito giace nella mente del suo inventore: Yoshimitsu Ashi. Esatto, proprio lui, lo scienziato che dieci anni fa si fece seppellire sul suolo lunare. E’ quasi accertato che  facesse parte di Progetto #, anche se lui l’ha sempre negato risolutamente nel corso della sua vita. D’altronde era nello stile della Comitiva liberare tutti e rimanere segreti.

In questi file, tuttavia, vengo a conoscenza di tale Epicuro Tre, un loro membro di cui chiaramente non si conosce nulla se non il suo nickname e lo stile col quale ha tradotto le onde cerebrali di un “aiutato”. Quando ho esaminato i file, con il supporto prezioso di un antiquario esperto in codici binari, saltai di gioia per una settimana. I file cui ero entrato in possesso riguardavano  Lurex!. Chi non conosce almeno una delle sue canzoni? Eppure della sua vita, così oscura e riservata, al limite dell’anonimato, chi può narrarne anche una sola parte? Perché ha scelto di morire tre anni fa? Inutile cercarlo sperando di scovarlo sotto mentite spoglie in qualche mondo parallelo. Qui ci sono le prove concrete del suo trapasso. Chiaramente feci gli accertamenti del caso e grazie alle informazioni contenute nei file, riuscii ad entrare in contatto con la sua ex moglie, una donna che morì corporalmente nel 2028 e si fece uploadare in Second Second Life. Gli proposi i file da leggere e annuì: si trattava proprio del suo Lorenzo. La donna si disse disponibile al confronto per testimoniare la veridicità dei file e chiunque può contattarla su SSL, risponde al nickname di Claudia 6.5.78.

Questa sorta di biografia, per metà ricostruita da me cercando di ricalcare lo stile del suo relatore, per metà documentale, non vuole essere la parola definitiva sulla grande popstar ma l’occasione per far scaturire uno studio più approfondito sul tema, affinché la parte creata da me possa sparire del tutto ed essere sostituita dalle certezze oggettive che eventualmente salteranno fuori.

Giunto alla bellissima età di 108 anni, grazie ai rigeneratori cellulari, spero di viverne altrettanti prima di uploadarmi e venire a conoscenza di tutta la vita di Lurex, che chissà, se non avesse voluto esercitare quel suo folle diritto di scelta quante altre splendide canzoni avrebbe potuto donarci.

Questa storia è un invito ai più giovani ad esplorare quel mondo orrendo della prima decade del secolo,  prima che Progetto # diventasse una realtà. Che il loro viaggio possa stimolare e tenere vivo questo spirito di libertà che noi umani abbiamo dovuto guadagnare. La vicenda che state leggendo è stata scritta da me, un novecentesco, un individuo che ha provato sulla propria pelle cosa significasse vivere in uno stato, non appartenersi perché il proprio corpo e la propria mente appartenevano alla comunità; pagare a dei mascalzoni i frutti del proprio lavoro, del proprio ingegno e del proprio sudore senza ricevere in cambio nient’altro che una scheda su cui mettere una croce, affidando così  il proprio presente e il proprio futuro a degli sconosciuti.

Se non capite alcuni passaggi non vi sarà difficile uploadarvi in History World e respirare quell’atmosfera penosa della Roma dell’inizio millennio. Ve lo sconsiglio, sarà una bruttissima esperienza. Meglio usare la buona vecchia Wikipedia per i termini che non riuscite a capire e un po’ di immaginazione. Per i più anziani , invece, lo consiglio soltanto se non si sentono soddisfatti del presente (cosa assurda, lo so), perché quel mondo, finalmente scomparso, possa ritornare alla loro memoria con tutta la carica d’orrore di cui è pregno. Per quel che mi concerne spero rimanga per sempre nel passato. Che vi sia di monito questo mio scritto e possa farvi levare alto il grido:

Viva Progetto #! Viva la Libertà!

21 gennaio 2040


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.