Progetto #5.

CAPITOLO III

Fermo davanti al passaggio a livello, in aperta campagna, aspettava che passasse il treno per vedere la sbarra sollevarsi. Il campanello suonava ripetitivo e uguale in loop, ma del treno neppure l’ombra. Decise che il suono arrivava da un’altra dimensione e così si svegliò. Il cucchiaino nella tazzina emetteva un suono simile e  realizzò che An­toinette, la sua coinquilina, stava facendo cola­zione in cucina. Scese dal letto a soppalco che oc­cupava tut­ta la stanza e si rifugiò  sotto di esso, dove aveva  il computer portatile. Lo accese e cazzeggiò un po’ su inter­net, in attesa che lei andasse in bagno, per non incont­rarla men­tre si preparava il caffè. Non avevano  mai nien­te da dir­si, se non le quotidia riguardanti la casa, tipo il pagamento del condominio o qual­che bollet­ta e, se rimanevano  nello stesso spazio un po’ di più, lei passava tutto il tempo a sbadigliare ipocritamente. Da due anni ripetevano la stessa panto­mima tutte le mat­tine. Poi lei usciva per andare al lavoro e lui si riap­propriava della sua dimora, anche se in parte, perché di là, nella stanza di lei, dormiva il suo uomo. O meglio, il suo ex amico Giu­liano. Si era but­tato a peso morto in quella casa, nono­stante le  raccomandazioni di Lorenzo in fase di contrat­to con Antoinet­te. Stavano già insie­me, anche se lui non lo voleva far sa­pere a nessuno e Lorenzo disse ad An­toinette, che non era per Giulia­no, ma lui in casa con una coppia non avrebbe mai abita­to. Le coppie, diceva, si appropriano di metri quadrati in modo vorace, ne sono assetate, hanno una sor­ta di horror vacui per gli spazi comuni. Ovvio, Giuliano poteva venire ogni volta che avesse voluto, ma parcheggiar­si in casa, quello no, ed era un punto irrinunciabile per lui. Neanche a dir­lo, Giuliano si piazzò lì dal primo gior­no. Prima con la scusa di do­ver fare lavoretti di arreda­mento  nella stanza di Antoinette, che nel frattem­po, felice perché il suo uomo rimane­va accanto a lei, continuava a comprare mo­duli di Ikea, poi perché con la scusa che abita­va fuori Roma e aveva soltanto lo scooter per venire a trovarla, smuoveva in Lorenzo quel  senso di compren­sione che si accorda volentieri agli amici. La madre di Antoinett­e, intanto, aveva venduto un rudere in campagna, la casa dei propri genitori, e non voleva buttare il vecchio mobilio. Valore affettivo, le dis­se An­toinette, mentre sua madre fece la proposta di pagare un terzo dell’ affitto, in cambio dell’ ac­coglienza di quell’antiquame. Non era proprio convinto di diventare il magazziniere della madre di Antoinette, ma la cosa era già fatta. Arrivò per pri­ma la cu­cina, anche carina per certi versi. Il tavolo col piano di marmo e la credenza verde pastello, degli anni cinquanta, che cozzava terri­bilmente con gli utensili svedesi. Antoinette, pen­sò bene di comprare un set di bicchieri a calice color vinaccio, ricamati  a rilievo con fo­glie di acanto e pampini di uva. Quando Lorenzo invitò i suoi amici a vede­re la nuo­va abitazione era ter­rorizzato all’ idea che po­tessero chiedergli un bic­chiere d’acqua. Così, per l’e­ventualità, si era comprato un bel pacco di bic­chieri di carta. Si sentiva tranquillo. Ma Antoi­nette, approfittando del ripiano con vetri scorre­voli, che la cre­denza possedeva, vi aveva posizionato in bella mostra la sua fantastica stoviglieria.

Poi arrivarono con un furgoncino stracolmo tutti i mobili del salotto, che avrebbe dovuto essere lo spazio in comune. Quel vano vuoto era occupato per tutta una parete dalle chitarre di Lorenzo e amplificatori d’epoca e c’era sol­tanto un divano, con uno straccio verde buttato sopra a coprire la sua vetustà. Un posto bellissi­mo per lui. Il paradiso per chi vuole rilassarsi e in­contrare pochi amici alla volta. L’unica cosa che avrebbe voluto mettere lì dentro era il suo tappeto kilim verde muschio.

Non fece in tempo. Una serie di mobili e sedie color noce scuro, lu­cidi e privi di stile, in una sola giornata trasfor­marono quell’open space in una sagrestia. Anche una sua amica simpatica, vedendo le quattro se­die di legno scuro, allineate contro la parete anti­stante alla libreria, disse:

«Ma che fate la sera qui? Recitate il rosario?»

Cominciò a subodorare che qualcosa non andava, quando vide apparire il famoso porta televisore con rotelle, il classico suppellettile che si trovava a quei tempi nelle case di tutti gli studenti fuori sede. Ma lui, in fondo, non era mai in casa e anche se avesse voluto con­trastare quell’ abominio, non avrebbe potuto: orari diversi. La prima volta che incontrò Laura dormì fuori casa per tre giorni. Al suo ritorno, aprì la porta d’in­gresso e nel salone, – or­rore!- la coppietta ab­bracciata che guardava la tiv­ù.

Furono accoglienti e carini come se fosse il loro figlio adottivo. Volevano con­versare con lui, gli offrirono del vino. Lui filò dritto dritto a chiu­dersi nella propria camera, adducendo un forte mal di testa come scusa. Il suo bel salotto era fottuto per sem­pre. Decise che il dialogo con loro sarebbe stato ridotto a pochissime frasi di servizio.

Passò qualche giorno, non voleva parlare con Giu­liano, non voleva riconoscer­gli alcun ruolo in quel­la casa, così aspettò la prima occasione di beccare Antoi­nette. La colse una mattina che faceva colazione con indosso i suoi occhiali spessi, per­si nel vuoto, e le pre­sentò le sue ri­mostranze: quel televisore, per fa­vore, fuo­ri dal salotto. Lei rispose candidamente e anche pesantem­ente sor­presa:

«Ma Giuliano di notte non dorme e fuma il siga­ro… L’odore è insopportabile…»

Lorenzo  rimase senza parole, inarcò le sopracciglia e allungò il mento annuen­do sconsolato. Mollò lì la faccenda, anche perché a casa non c’era mai  e quindi pensava fosse  normale che chi la vive occupi più spazio possibile. I gior­ni passavano e Giuliano lo tro­vava sdraiato sul divano a tutte le ore. Rientrava a mezzanott­e, ciao Lore’; alle due di notte, ciao Lore’; alle sei di mattina, ciao Lore’. La casa puz­zava terribilm­ente di calzini e sigaro, ma andò avanti e con­tinuò a fare il bravo figlio adottivo, ripro­mettendosi ogni giorno di parlargli.

Il bar sotto casa era uno dei posti più frequentati di San Lorenzo, l’ ape­ritivo co­stava pochissimo e i prezzi degli alcolici erano talmente bassi da attira­re orde di studenti vo­gliosi di sballo. Tutta quella gente era già di per sé, non fosse altro che per quantità, un serio problema di ordine pubblico. Ma nessu­no voleva la poli­zia a San Lorenzo e chi la chiamava era un in­fame, il giorno dopo chiunque lo avrebbe guardato con disprezzo. Era un retaggio degli anni passati, un mi­sto di pensiero coatto ed extraparlamentari­smo di si­nistra. E così, nonostante le manifesta­zioni e peti­zioni dei residenti, nonostante le scu­se e le chiusu­re notturne a norma di legge da par­te degli esercen­ti, la situazione era totalmente sfug­gita di mano a tutti. Era, all’inizio, un quartiere di sinistra, un quartiere operaio, dove il sonno era sacro o perlomeno rispet­tato, ma ora era di massa e, tra gli studenti e sballoni vari che ingolfavano  le strade, non mancavano i gruppi di violenti fasci­stoidi che nel bel mezzo della notte intonavano inni e cori di dubbia pro­venienza politica. Tutto que­sto con il silenzio tota­le dei residenti, che un po’ per cattiva volontà, un po’ per paura, riman­evano a letto in attesa che quella gente si sfogasse al più presto. Chi si ribel­lava a tutto ciò era condannato a passare la notte in bianco,  scam­biadosi insulti con questi tipi e a rischiare di farsi prendere la mano e scendere, ritrovandosi la testa fracassata da dieci ubriachi. Oppure, in al­ternativa,  chiamare la polizia  rischiando il pubblico ludibrio. Il motto che serpeggiava a San Lorenzo era: se vuoi dormire vattene ad abitare in campagna. In realtà non si poteva dargli torto, i fondo bastava spostarsi di un chilometro e non avresti avuto  tutti quei problemi,. ma faceva “fico” abitare a Sanlollo, come dicevano i più. Per fortuna c’era un’ altra chance, i tappi di cera nelle orecchie. Era la scelta per la quale aveva optato Lorenzo. Ovviamente fun­zionano quando le voci sono lontane, ma se qual­cuno urla a poca distanza e hai il sonno leggero, ti svegli.

Una notte fu svegliato da Antoinette:

«Adesso basta!» poi aprì la persiana di ferro che era sul terrazzino comune, si affacciò e disse a quattro tizi con chitarra giù in strada:

«Qui c’è gente che lavora!»

Scarmigliata e con indosso una sottoveste con fronzoli, celestina e semitrasparente  sembrava una cocotte da operetta. E così, di rimando, una di quelle be­stie le ri­spose:

«E be’, continua a lavura’! »

Una fragorosa risata echeggiò per tutta la strada. Rise pure lui, nonostante la tensione salisse e qual­cosa gli dicesse che avrebbe passato la notte in bianco. Infat­ti, senza farselo dire due volte, Giuliano la rag­giunse con sol­tanto gli slip in­dosso e, facendo una voce coatta da maschio alfa, ribattè:

«Ahò, guarda che io mica chiamo la polizia, io scen­do!»

«Mettiti qualcosa addosso, ché pigli freddo!» disse di rimando uno di loro. Una ragazza, con la voce roca di alcol aggiunse indignata:

«Ma che t’ affacci in mutande? Qui ci sono delle donne!»

«Vuoi che mi metta lo smoking?» ringhiò lui, con la voce talmente incazzata da trasformarsi in falset­to.

«Io dormivo, stronza!» aggiunse e rientrò sbat­tendo le per­siane violentemente. Intanto da sotto partì il coro.

«Sce-mo! Sce-mo!» mentre lui corse in cu­cina a cerca­re un secchio da riempire d’acqua. A quel punto Lorenzo aprì anche lui le imposte e disse :

«Uè,  e mo basta, però…» le voci si calmarono, for­se per ef­fetto sorpresa. Ne approfittò e continuò:

«State in torto marcio, sono le quattro…»

Gli rispose uno con la barba:

«Eh, però quello esa­gera…»

«Forse, ma pure voi non potete fa’ tutto ‘sto bur­dell’… Se parlate, va pure bene, ma se cantate a squarciagola  cambia tutto…»

«Ma tu non sei il cantante dei Novokomponova­na?» chiese un tizio coi dreadlocks e le tempie ra­sate.

«Sì…»

Si parlarono tra loro, Lorenzo non sentiva cosa si dicessero, poi fi­nalmente:

«Vabbuò, frate’. Ce ne jamm’. Tranguill’.»

Infat­ti si zittirono, o meglio le voci si fecero più som­messe. Intanto, dall’interno, arrivò la voce isteri­ca di Giu­liano:

«Non ci parlare! Mo je tiro un secchio d’ac­qua…»

Lo raggiunse in cucina e gli svuotò il secchio nel la­vello.

«Dai, sta’ calmo. Se ne stanno andando…»

Ma quello era fuori di testa e non voleva sentire ragioni, pretendeva la sua vendetta. Allora Lorenzo gli fece notare che stava in casa sua e non in quella di Giuliano e avere problemi per le sue ripicche, o semplicemente perché non voleva mettere i tappi nelle orecchie, era una cosa che a lui non stava bene. Anche perché le voci non avrebbero cessato mai, di lì a poco, probabilmente sarebbe arrivato un altro gruppo di ubriachi a far ca­sino e si sarebbe dovuto rialzare per se­dare una nuova gazzarra. Insomm­a, restarono svegli per an­cora mezzora a discutere ani­matamente su cosa biso­gnava o non bisognava fare, finché qualcuno dal piano di sopra bussò sul pavi­mento: volevano dormi­re.

Decisero che ne avrebbero riparlato.

La mattina dopo Lorenzo uscì di casa con gli occhi gonfi per la not­tataccia. Arrivò alla sua bicicletta che era legata ad un palo:  totalmente distrutta. Mancava il selli­no, la ruo­ta era stata deformata a forza di calci e le gom­me erano entrambe buca­te. Gli avevano fatto pa­gare imme­diatamente la ribellione alla loro ditta­tura. Si trattava, in questi casi, di scendere a patti, loro sapevano dove abitasse e chi fosse e lui di loro non sapeva niente. Insomm­a, il problema non erano soltanto gli ubria­chi stronzi ma anche i Giuliani.

 Quella sera uscì per andare al Fanfulla. Appena entrato vide Carlo seduto al bancone. Era il momento migliore per chiedergli il prestito. Si salutarono e notò che c’erano due bicchieri.

«C’è Claudia, sta in bagno…»

Non sapeva se esserne contento oppure no, in ogni caso non poteva certo parlare di soldi. Carlo sorrise alludendo.

«Ho detto che c’è Claudia…»

Lorenzo fece il pesce in barile, tentò di protestare una difesa qualsiasi, quando alle sue spalle Claudia esordì:

«Ohi, guarda chi si vede!»

Lui balbettò un Bonzuar, vergognandoseneimmediatamente,  e per la pessima pronuncia francese, e per una scioltezza che non sentiva propria.

Tuttavìa Claudia era di buonumore e lo mise subito a suo agio offrendo un giro di pastis per tutti. Si ritrovarono al biliardino, lui si sentiva un giovane cavaliere mediev­ale, quando, sfi­dando il più forte, lei sottolineava con grido­lini da cheerleader ogni suo punto. Ti­fava per lui. Poi giocarono in­sieme e sta­vano quasi per vince­re, ad ogni goal che faceva, lei gli stringeva forte il braccio. Mancava solo un punto, sembrava la donna più felice del mondo ma gli avversari rimontarono e così persero. Ep­pure nulla spezzò l’armonia della se­rata. C’era Laura, un po’ distante da loro, con un tipo, forse il suo succes­sore. Si salutarono e basta. Senza acrimonia. Ritornò da Carlo e Claudia, percependo un forte legame che li univa e forse qualcosa di più fra loro due. Carlo, nel frattempo, aveva comin­ciato a fare le fusa in direzione di un bel ragazzo con gli occhi da bam­bola. Dopo un po’ li abbandonò con una scusa e si mise a cincischiare con lui. Loro due rimasero a chiacchierare di nulla per molto tempo. Le confezio­nava sigaret­te ed era così intimo, qua­si eccitante, che Claudia mettesse la bocca dove Lorenzo aveva leccato la cartina. Addi­rittura sembrò farglielo nota­re, dicendo­gli ca­rognescamente:

«È sbavata…» ma la mise in bocca e fumò.

E poi anco­ra un pastis dietro l’altro sempre nel­lo stesso bic­chiere per tutti e due. Si salutarono garbata­mente, come buoni amici, perché quello erano ormai, lui pensò un’ occasione manca­ta.  Ma cosa contava? Era un amore rimandat­o ma sicu­ro.


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.