E io che pensavo fosse la fine di tutto.

ho inseguito il nonno per una stagione intera e due metà

l’ho inseguito cercando di raggiungerlo, standogli dietro e guardando le sue gambe secche nel fango e la sua testa canuta tra i pomodori piantina, poi pianta, poi acerbi e poi maturi

ho dovuto alzarmi al canto del gallo fuori fase dei cinesi

ho dovuto affrontare una routine tutta da scoprire, senza nessuno a calendarizzare o a sventagliare comunicati stampa con dentro il dove il come il quando delle cose

ho dovuto imparare ad ascoltare i suoni: quello della terra sollevata dalla vanga, quello del nemico, quello della sistola nuova – dolce – che spruzza acqua, quello diverso e preciso dell’annaffiatoio, quello delle canne di bambù e dei vasetti di plastica, quello delle urla dopo la grandine e delle foglie che cadono d’estate

ho dovuto ammaestrare il tatto – per sentire – per categorizzare le diverse durezze del suolo duro e secco

ho dovuto allenare la vista, per apprendere dal taciuto o dall’accennato, i minimi accorgimenti, le sopracciglia irsute, le nuvole d’acqua sulle colline a nord, le previsioni meteo al tg regionale prima di cena

ho dovuto acuire l’olfatto – nel bene e nel male – per ricongiungermi al rurale odore del marcio e della merda, alle radici

ho dovuto prendere il gusto e farne un obelisco da adorare, perché è sempre con me, sulla lingua e dentro il cervello, perché mi fa godere e perdere i sensi nel tenere in bocca un pomodoro che non sa d’acqua come quei troiai olandesi e i fagiolini e la rucola vestita di terra, senza la busta

ma soprattutto ho dovuto imparare il tempo

il nonno è nell’orto

ancora non riesco a vederlo ma posso sentire l’andare incessante delle forbici, del metallo su altro metallo

ora lo vedo e mi avvicino

«che fai nonno», chiedo io

«è l’ora di levare tutto, si fa festa», dice il nonno

le cesoie si aprono e si chiudono ad un ritmo infernale – zac zac zac – tranciando tutti i piccoli ramoscelli delle piante di pomodoro

cadono a terra gli ultimi frutti rimasti, quelli nati e già morti, come il cuore di bue abortito ancora attaccato al cordone ombelicale

è come la camiciola del nonno – a costine – impermeabile al tempo e alle stagioni

cade tutto a terra, non rimane niente

«vedi», dice il nonno, «qui non c’è niente che si spreca

io butto in terra questi rami e questi pomodorini qui» – li afferra, li taglia e li butta a terra – «ma alla fine che succede
marcisce tutto e si fertilizza
e poi l’anno prossimo si ricomincia da capo»

e io che pensavo fosse la fine di tutto

ma come ho potuto anche solo pensare di mettere un punto

quasi quasi torno indietro e li tolgo tutti.


Niccolò Protti non dimostra l’età che ha. Gli piace scrivere e cucinare. Suo nonno fa l’orto.