Ascolti pandemici per noi, novelli “angeli di solitudine”: dal Telaio Magnetico all’Albergo Intergalattico Spaziale.

Erano i primi di marzo, anzi la prima domenica del mese. Ancora ci era tutto estraneo, ancora pensavamo fosse qualcosa di passeggero e che non intaccasse le nostre vite, il nostro vissuto, e infatti mi recavo come di consueto al Mercatino dell’usato del Comune di Latina, sito in Piazza del Popolo, ove decine di bancarelle di dischi, e relativi “banchettari” avevano già disposto le loro ceste piene di vinili d’epoca sin dalle prime ore dell’alba. Dopo circa un’ora di digging frenetico, mi trovo di fronte un disco dalla cover suggestiva, che mi attrae in maniera irreparabile come fosse un magnete. Una foto sgranata in bianco e nero, quasi fumettistica, con al centro un uomo mascherato di un teschio che, durante una protesta sociale in Francia (“Combat pour L’Homme” recitano gli striscioni dei manifestanti) esibisce un altro cartello sulle braccia con scritto: “Ne m’approchez pas! Je suis radioactif!”. Impressionato dalla contemporaneità dell’immagine, o quanto meno della sua adattabilità ai nostri giorni , decido di dargli un’occhiata e mi accorgo che si tratta della ristampa del primo raro disco ufficiale e omonimo dell’Albergo Intergalattico Spaziale, un gruppo che conoscevo grazie ai miei amici romani, fan di Battiato e dei suoi compagni di avventure sonore. Ma avendo avuto solo il formato digitale, ero del tutto ignaro della cover art. Una volta acquistato e tornato a casa, lo metto subito sul piatto, pensando di ricordarlo in gran parte. Con enorme sorpresa, come accade spesso quando non riascolti qualcosa per diverso tempo o come quando preferisci non ascoltare troppo qualcosa che poi speri di trovare su supporto fisico, vengo assalito da una valanga di suoni. Sin dal primo brano, LIVE PISTOIA, una spirale cosmica tra cascate di organo e synth, sfarfallate di piatti di batteria, voci provenienti da un’altra dimensione che invita al trasporto dei sensi, si determina una rottura totale tra ciò che era e ciò che accadrà e penso subito che non ci sia niente di più contemporaneo da ascoltare al momento, in cui immergersi con corpo e mente, in cui perdersi.

Il gruppo, formato dalla coppia Mino Di Martino e Terra di Benedetto, non ha bisogno di presentazioni, in quanto partecipi nello stesso lasso temporale (metà anni ’70) del progetto LIVE di Battiato, Mazza, Camisasca e Vaccina, denominato Telaio Magnetico. Ecco proprio la dimensione LIVE estemporanea, è il trait d’union tra le due formazioni. La recente (2016) ristampa extended di Live ‘75 ad opera della Black Sweat di Milano aggiunge un brano inedito a mio avviso fondamentale che non è altro che il prodromo dell’Albergo stesso. Ma procedendo con ordine basti ricordare che l’album del Telaio venne creato sulla base di due diverse registrazioni dal vivo provenienti da due concerti fatti dalla band nel sud della penisola (Reggio Calabria e Gela), sessions che appunto occupano le due facciate del disco, il quale stranamente non uscì all’epoca ma venne stampato per la prima volta solo 20 anni dopo. A differenza di A.I.S, Live ‘75 ha un inizio molto diverso, anzi a dir poco kosmische kraut classicheggiante con organo, synth e vocalizzi (sembrano i Between pre-Dharana). Ambient da sessioni di yoga e meditazione, rilassante e orientaleggiante. Niente lascerebbe presagire che il caos si cela dietro l’angolo, poiché da lì a pochi minuti parte il secondo brano: il sintagma sonoro si trasforma gradualmente, guidato dai fiabeschi vocalizzi di Terra Di Benedetto che dapprima ti cullano in un clima rasserenante, poi ti proiettano in uno spoken word poetico, con piccole frasi, parole sparse, sussurri, sortilegi, cui fa da contraltare la tribalità mai invasiva delle percussioni di Lino Capra Vaccina che ci trasporta in un landscape sonoro onirico e non rassicurante, come dentro una foresta con riti tribali in lontananza, ed echi orientali provocati dall’oboe di Roberto Mazza. La terza parte è ancora più mistica: entra in scena Juri Camisasca, e i suoi vocalizzi sembrano quasi sfidare l’organo e il vibrafono, in un crescente fluido di coscienza che avvolge l’ascoltatore come anni prima ci aveva abituato la Nico di Desertshore, ma poi arriva Terra e le voci effettate magistralmente si sovrappongono come echi lontani dissonanti.

Pura elegia sonora non rassicurante, ma immersiva, che connota una dimensione altra, sempre più psichedelica e surreale, “Che Ore sono?” chiede Terra,  “è ora di dormire, è ora di dormire, è ora di morire, di vivere, 11:15 fine”, risponde Juri.  Il secondo lato del disco, quello del concerto di Gela, è ancora più spinto sul versante kosmische-ambient dissonante, tribale e quasi cacofonico, con Camisasca sempre più incisivo, ritmico, versatile, laddove Terra si frappone tra lirismo e teatralità ancestrale, come fosse catturata da una nuvola, e posseduta da una strega. Il connubio tra i due è incredibile, come se cantassero assieme da una vita, coadiuvati da una quantità di effetti sulla voce (delay, riverbero, echo) che ne fanno lo strumento principe del disco. Il VCS-3 di Battiato crea un tappeto ritmico su due varianti di basso, sopra i quali Capra Vaccina espande tutta la sua visione di riempimento di spazi sonori, e Mino dà libero sfogo ad assoli di organo del tutto spettrali, quasi horrorifici, in contrappunto al flusso sonoro onniscente, cui contribuisce l’oboe e il sax soprano di Mazza. La dinamicità, caratteristica fondamentale del progetto, fa sì che subito dopo si ritorna al fiabesco, nella foresta dei suoni edulcorati del brano successivo, come se tutto fosse svuotato per essere riempito gradualmente di voci, effetti, rumori campionati, versi di animali, vocalizzi sempre più dissonanti e dai timbri opposti che sfociano in urla e lamenti estremi, come l’apice di un rito pagano incessante. Il brano aggiunto di recente è notevole perché in un certo senso anticipa alcuni temi sonori cari al progetto a venire: Parte VI è un breve excursus ritmico guidato dalle tablas di Lino e dalla voce di Terra, che inizia il suo spoken word scandendo le parole in maniera sempre più decisa tra il confidenziale (il recitato interiore) e il subliminale, laddove Mazza introduce una melodia arabeggiante in dissolvenza, che conclude magicamente il disco.

Senza soluzione di continuità quindi consiglierei di passare subito all’ascolto del primo brano del disco dell’Albergo Intergalattico Spaziale, che doveva uscire per Emi e che invece venne stampato nel 1978 in un numero di copie limitato dall’etichetta Luglio di proprietà degli stessi autori. La ristampa della Markuee del 2011 riproduce fedele l’artwork originale (anche se intitola il disco Luglio 1978) comprensivo di poster (una immagine struggente di un uomo in tuta antiradiazioni che abbraccia un passante, come per consolarlo dalla perdita di una persona cara) e di opuscolo apribile in 2, contenente niente di meno che una lunga intervista al Comitato Politico dei tecnici Enel in cui vengono esposte le reali cause del mancato sfruttamento di fonti energetiche alternative. Come si evince dall’immagine di copertina, il contenuto sonoro non può infatti essere scisso dal discorso antinuclearista di opposizione al Piano energetico nazionale del 1975, portato avanti dalla controcultura e dalla sinistra rivoluzionaria extraparlamentare. Come recita la inner sleeve “il Viaggio Attraverso il Suono è Genetico Inconscio Collettivo, il teatro è il momento in cui si realizzerà il rito necessario a creare il linguaggio comune”, come dire sta a noi riappropriarci del nostro inconscio attraverso una apertura alle arti e a universi altri per capire la nostra storia e comunicare. La voce di Terra si alterna tra un parlato intimista e lunghe aperture liriche melodiche a cui fa da sfondo un organo ora possente ora rarefatto, come il suono di una navicella spaziale. Con Phasing invece siamo nei pressi di una sequenza ambient psichedelica da manuale, quasi una comunanza con il Giardino Magnetico di Curran e Sonanze di Cacciapaglia, ma esposta con più drammaticità e meno estasi, per concludersi verso una riconciliazione dei sensi solo apparente. Subito dopo infatti ci ritroviamo assaliti da sommersi tappeti di synth, quelli che introducono il pezzo successivo (Tastiera solo), una versione strumentale iconoclasta e straniante dell’Inno All Gioia di Beethoven in cui Mino Di Marino dimostra tutta la sua versatilità nella scelta delle scale armoniche dell’organo. Giriamo lato e scopriamo che lo stesso segmento sonoro di matrice classica è ripetuto in “4 tracce”, apice lirico del disco, in cui duettano Mino e Terra, la cui voce/strumento dimostra ancora una volta delicatezza e dinamicità, che ti culla e poi ti accoltella: anziché enfatizzarne la melodia la sminuisce, opera un lavoro di sottrazione di elementi emotivi, li sussurra e poi li grida, ci trasporta nel suo flusso interiore ma allo stesso tempo collettivo, aperto a tutti. Vocalizzi che parlano un idioma alieno misto di termini che sembrano arabi, ma anche balcanici, mitteleuropei, quasi alla Hosianna Mantra, una performance che raggiunge il climax con un acuto finale da far accapponare la pelle.

L’ambient di scuola rileyana ma anche debitrice del primo Klaus Schulze ritorna nella prima parte di Variazioni per Angeli di Solitudine, 7 minuti di viaggio interstellare, cosmico ma allo stesso tempo terreno, cluster di synth in crescendo che si incastrano con l’organo: sembra davvero di viaggiare nello spazio, per approdare nella ipotetica hall dell’Albergo Intergalattico dove troviamo gli angeli di solitudine, chiaramente una metafora della collettività moderna, costretta all’isolazionismo, all’oscurità, al chiudersi in spazi altri per esprimere la propria creatività ma che al tempo stesso combatte una battaglia contro chi vuole farci sentire “radioattivi”, potenziali portatori di virus, da tenere a debita distanza. I versi degli angeli ci accompagnano all’interno, cullandoci con tremolii, silenzi, respiri, e via via segni più marcati, ritmici, quasi un botta e risposta. Angeli e pianeti di solitudine, testo di una poesia della stessa Terra…”l’uomo si racconta l’universo e lo ricorda…”, resta solo lei, la sua voce nell’atmosfera spaziale, sparisce tutto il resto, sound poetry criptico, totale e totalizzante da esperienza plurisensoriale (mi sono venute in mente le più recenti sperimentazioni degli Acchiappashpirt di Stefano Di Trapani e Jonida Prifti) fatta di parole accennate, apparentemente sconnesse ma pregne di profondità, dal significato aperto, intercambiabile. Sabbie Vergini è invece un duetto minimal ambient per voce e tastiere, cantato in una lingua incomprensibile, quasi aliena, che ti entra dentro, ti prende alle viscere e ti trasporta in una dimensione altra, di relax definitivo. Dopo l’ascolto intensivo di questo disco, al di là di alcune asperità proto-industrial in anticipo sui tempi, non riesco ancora a ricordarmi bene tutti i passaggi, ad ogni approccio scopro suoni diversi, dettagli sonori, dinamiche armoniche che non avrei mai immaginato, tutti pregi assoluti di un’opera ancora da riscoprire. Esperienza dell’ascolto che ogni volta si rinnova, nelle sensazioni, ma anche nella riflessione. Hymalaya, aggiunta come bonus track di un singolo uscito postumo, conclude il disco aggiungendo canti tibetani ad un pattern ritmico elettronico reiterato tra elegie del Farfisa e tappeto di synth avvolgente, prodromo della fase successiva dell’Albergo, sintetizzata nella raccolta Angeli Di Solitudine, la compila di tracce inedite dal ’74 al ’96 uscita solo in cd anni fa, che ci auguriamo venga presto stampata in vinile.

Il viaggio sonoro è terminato e noi, angeli di solitudine, chiusi nei nostri piccoli spazi, impossibilitati a relazionarci col mondo esterno se non per tramite delle nuove (ma già vecchie) tecnologie, per un attimo abbandoniamoci al flusso di questi due dischi, usciamo della realtà mistificante per poi ritornarci diversi, arricchiti da questa esperienza acustica aliena a tutto il panorama musicale del periodo. Ringraziamo Terra e Mino per averci regalato questa follia magica eterna, adatta a contrastare l’amarezza a cui siamo costretti.


GILPSYCH: divoratore di dischi e film in maniera onnivora, truce batterista e percussionista all’occasione, selezionatore musicale e sperimentatore sensoriale… Nonché tifoso della magica AS Roma.