“Il film lo fa Morricone”.

Nella sterminata discografia del Maestro occorre notare che mancano all’appello svariati titoli, vale a dire esistono molte colonne sonore mai pubblicate né ristampate, spesso molto interessanti e ricche di spunti, e non di rado riflettenti un flusso sperimentale che è connaturato nell’anima del compositore romano. Non pochi sono infatti le occasioni in cui si è cimentato, soprattutto nei film “minori”, in vere e proprie partiture contenenti brani di natura contemporanea e/o rumoristica per accentuare la potenza espressiva di alcune sequenze. È proprio questo “valore aggiunto” totale che dà corpo e sostanza a pellicole che senza la colonna sonora del Maestro, sarebbero poco significative o del tutto superflue: insomma, citando Stefano Di Trapani – con cui ho avuto modo di visionare questa pellicola rippata da una vecchia vhs (anche se da poco riedito da RaroVideo in dvd) – : “il film lo fa Morricone”, esclamò a metà visione.

È il caso di questo film del 1975, diretto dal romano Giulio Petroni, uno psicodramma familiare dal taglio erotico/perturbante con tematiche legate al gender, bisessualità, tradimenti, istinti suicidi e omicidi. Il solito “sensazionalismo” anni 70 con pretese intellettuali e riferimenti poetici. Il titolo è infatti un verso tratto da uno scritto del poeta britannico Percy Bysshe Shelley, in particolare il verso “with lips of lurid blue”: “…Vorrei dormire, solo dormire, non pensare o sognare ma solo dormire. Com’è meravigliosa morte, morte e suo fratello sonno. Una pallida come lassù è pallida e arcuata la luna. Con labbra di lurido blu…”, citato esplicitamente nel film in una scena intima di dialogo tra i due coprotagonisti maschili ed ex amanti Corrado Pani e Jeremy Kemp. Il tema dell’omosessualità è trattato così superficialmente nel film da far rabbrividire, a differenza di quello relativo alla ninfomania della protagonista ovviamente, una superba Lisa Gastoni, moglie di un omosessuale pentito (sigh.). La colonna sonora mai stampata (pare che neppure Ennio abbia mai avuto i nastri del master, che risulta disperso) unisce magistralmente musica atonale, onirica ed elettronica ad un paio di temi romantici e folk. L’unico modo per poterla ascoltare è appunto visionare e revisionare il film, stando attenti a tutte le sfumature della musica del Maestro presente nei pochi segmenti narrativi. Come a voler riprodurre uno schema infatti assistiamo al ripetersi pedissequo di “scene madri” incessanti: la protagonista e i suoi ricordi, moglie e marito sul divano o a cena, marito e amante nell’albergo di lui, paese in festa, campagna circostante e relativi personaggi, scena d’amore e di pianto.

La sequenza iniziale dello stupro di gruppo dissimulato e interrotto in breve tempo, viene musicata facendo riferimento all’ampio bagaglio orchestrale a disposizione: musica atonale con staffilate di archi e fiati in dissonanza sottolineano un taglio horrorifico e spettrale, qualche rintocco di piano stile Un tranquillo posto di Campagna e i primi dischi del G.I.N.C – stridori proto industrial, pedale di archi, percussioni in lontananza, riverberi di fiati, delay continuo – sono perfetti nel descrivere un’atmosfera plumbea, irreale, fatiscente, di continuo conflitto sociale (e in questo non dissimile da alcune parti de La Classe Operaia va in Paradiso). Gli avventori infatti, motociclisti in black leather truccati e parruccati in stile Rocky Horror (non a caso sempre del ’75), non sono altro che dei pupazzi mandati solo a spaventare la donna dall’ex amante del marito tornato alla carica, convinto di poter separare la coppia.

Nelle sequenze di interno giorno, ambientate nella lussuosa villa della coppia “scoppiata”, i lunghi dialoghi pieni zeppi di luoghi comuni tra i protagonisti (la domestica alla Gastoni: “E così siamo arrivati all’anniversario di matrimonio? E un bel bambino quando lo porta la cicogna?” Lei: “Io odio i bambini” Domestica: “Buonasera”; oppure l’amante a Corrado Pani: “Ti sei incastrato in un matrimonio senza senso e insensato, avevi per caso bisogno della Mamma?”) sono commentati dal tipico marchio sonoro morriconiano funzionale alla trasmissione di  tensione verso lo spettatore, topos  già presente, con svolgimenti diversi,  in altre pellicole. Un ostinato di piano in fade in che, nel suo progressivo incedere dinamico si accompagna ad archi sempre più intensi, fino a sfumare con un breve fade out e alternandosi a silenzi improvvisi, per poi ricominciare come prima: un loop praticamente, come una frase campionata, una allucinazione sonora che viene e va, un archetipo delle partiture per le musiche dei gialli italiani degli anni precedenti.

Anche le scene d’amore, seppur introdotte da un tema romantico e malinconico che sembra introdurre una melodia serena e distensiva, sono disattese e non giungono mai al climax, difatti di lì a poco vengono commentate in maniera impeccabile dal maestro. Proprio perché raffigura un coitus interruptus, ecco che pian piano la melodia principale viene interrotta bruscamente da rumori atroci e stranianti dissonanze di synth. Lo strumento cardine di questa colonna sonora seppur non principale. Sappiamo dell’idiosincrasia storica del maestro verso il VCS-3 (presente in alcune colonne sonore italiane sin dai primi anni 1970), interrotta solo negli anni successivi a partire dalla colonna sonora de L’Umanoide (1979), interamente composta da suoni sintetici.

Questo synthnoize totale, caustico e dalle forte tinte industrial è protagonista dei commenti sonori in relazione alle scene di flashback della protagonista, ritratta da bambina che osserva la madre negli accoppiamenti perversi e violenti con il padre e/o altri avventori – da ciò si spiegherebbe, secondo il regista, la ninfomania della donna, e ritornano i luoghi comuni della psicologia più spicciola).  Sequenze oniriche caratterizzate dalla fotografia languida di Gabor Pogany, virata sul giallo seppiato, ed in cui le stortissime e totalmente disturbanti note di synth si adattano perfettamente, quasi a voler rendere il colore in suono. Questa perfetta unità d’intenti tra direttore della fotografia e compositore raggiunge il culmine nell’unica sequenza degna di nota del lungometraggio. Una delle scene cult più estreme dell’intero panorama malsano di certo cinema anni ’70, di un perturbante da acido andato a male. Lisa Gastoni, una volta scoperto che il marito continua a vedersi con l’ex amante, sentendosi inappagata, si rifugia di notte in un bar tabacchi della periferia perugina. Al suo interno, oltre al barista, tre avventori avvinazzati seduti tra i tavoli del biliardo osservano la protagonista alla cassa e cominciano a cantare un motivetto idiota (Din din din, quanto è buona l’uva passerin…) in maniera molto insistente e allusiva (uno comincia persino a masturbarsi), allorché la Gastoni se ne ravvede e accetta la sfida esclamando “Cantate, su cantate, fate vedere chi siete!”. Di lì a poco si accende un’improvvisa gang bang sul tavolo da biliardo, con la complicità iniziale della donna. Luci al neon acidissime sullo stile giallo baviano si alternano ai primi piani degli astanti, dai volti dai tratti maligni, viscidi, stravolti. Ecco che tornano i synth dissonanti delle sequenze oniriche ma stavolta portati al parossismo, con un  volume assurdo, che pare sventrare lo schermo. Le note dapprima sospese e allungate con l’echo, si alternano alle dissonanze orchestrali fornite da bordoni di archi in crescendo. La descrizione perfetta di un girone infernale, con la Gastoni maestosa nell’esprimere dapprima scherno, sfida, compiacimento per poi trasfigurarsi in un volto sofferente, dall’espressione corrucciata e angosciante, per finire sfinita, affranta e scoppiare in lacrime mentre i quattro (si è aggiunto anche il barista) si alternano sopra di lei. Per rendere musicalmente questa trasformazione del personaggio, Ennio utilizza le stesse tracce di solo sintetizzatore proprio perché durante lo stupro la protagonista non riesce a non pensare alla sua adolescenza turbata (montaggio alternato tra la gang bang del presente e la madre “violentata” nel passato) moltiplicando la successione delle note atonali in un vortice ritmico sempre più accelerato, per poi interrompersi bruscamente. Un colpo da Maestro, non credo che riuscirò mai a dimenticarmene. Scena fondamentale nella sua crudezza visiva e sonora, seconda forse solo a quella dello stupro operato da Flavio Bucci ai danni delle due studentesse austriache nel monumentale L’Ultimo Treno Della Notte, non a caso musicato dallo stesso Morricone, e sempre del 1975.

Altri segmenti musicati del film riguardano le sequenze lunghissime di esterno giorno, sia in paese, dove una banda locale cammina lungo le vie (qui il tema da banda è tipico morriconiano/mediterraneo), sia nella campagna circostante la villa, dove procede il corteggiamento di una coppia di contadinotti, contraddistinto da un tema folkloristico con flauto e chitarra acustica (reminiscenze del periodo pasoliniano).

Non appagata delle sue avventure extra coniugali, la Gastoni incontra persino uno scrittore solitario ex galeotto, cacciatore e intellettuale (interpretato dal mitico Silvano Tranquilli), personaggio del tutto introdotto “a caso” nel film come a voler accendere un barlume di speranza nell’amore vero (quello tra un uomo ed una donna, sembra volerci dire il regista), tema rassicurante posto a chiusura del film. Il Maestro qui decide di concederci un tema d’amore di rara bellezza: un crescendo armonico dai toni romantici con aperture melodiche sempre più solari, i magnetici vocalizzi di Edda Dell’Orso all’unisono col pianoforte a cui si aggiungono archi in stile C’era Una volta il West. Finale ovviamente tragico col suicidio del protagonista maschile che poco prima aveva ucciso in preda ad un raptus inspiegabile una sua vecchia fiamma molto più giovane di lui. Morricone decide di tornare sull’ostinato piano/archi in maniera più dinamica e crescente rispetto alle scene di interno giorno, pian piano la musica si scurisce così come la fotografia del frame che accompagna i titoli di coda. Ennesima dimostrazione della classe incontrastata del Maestro, capace di trasformare in oro tutto quello che tocca. E sarà sempre così. I film invecchiano, le musiche del Maestro no, sono sempre contemporanee. Il film lo fa Morricone (cit.)


GILPSYCH: divoratore di dischi e film in maniera onnivora, truce batterista e percussionista all’occasione, selezionatore musicale e sperimentatore sensoriale… Nonché tifoso della magica AS Roma.