OBSEQUIAE – The Palms of Sorrowed Kings.

Under a Funeral Moon è uno spazio transdimensionale, un limbo in cui contemplare il nero e annerire la contemplazione, disperdendosi tra i meandri di un labirinto sonico.



Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world.

W.B. Yeats, The Second Coming (1920)


Così Yeats, dinanzi alla mortificazione post-bellica della vita umana, descriveva il doppio movimento che intreccia disfacimento e generazione, nascita e morte, ascesa e caduta ‒ paventando, rovesciamento dopo rovesciamento, l’alba di una nuova Età dell’Oro: “Gira e rigira la spira crescente […] Una qualche rivelazione di certo ci attende, si avvicina la Seconda Venuta”. Ciò che giunse, tuttavia ‒ dopo meno di due decenni ‒ fu una Seconda Grande Guerra, sporofondando il mondo ancora più in basso, in un vortice di depravazione. La Tradizione, questa speranza di rinascita e resurrezione, si nutre di sogni e d’attese, di sospiri e sussulti ‒ ed è proprio per questo motivo che essa non può non affascinare. Nel suo languido sguardo, fisso su un’orizzonte di rovine, prende forma una dimensione onirica ‒ non la storia, ma un raddoppiamento della storia nel mito, una duplicazione, una clonazione della verità storica. Questa pseudo-storia o quasi-storia, filtrata dal mito, è un tripudio di appagamenti estetici immaginari, distorti e, fondamentalmente, corrotti, ma capaci, al tempo stesso, di corrompere lo spirito con il germe della decadenza ‒ o, meglio, del sentimento della decadenza.  

The Palms of Sorrowed Kings, degli statunitensi Obsequiae si offre all’ascoltatore come un dono della Tradizione. Da rovine immerse in un’arcadia incontaminata, si innalzano gli echi di antichi arpeggi e ‒ simile allo sferzare del vento ‒ un’ondata di black metal remoto e primordiale; nero-non-nero, metal-non-metal: uno spettro totalmente negativo, o un fantasmatico “terzo incluso”.  

In the outstretched hands of stone
Crowns and thrones
Crumbling cold to dust.

The Palms of Sorrowed Kings

Gira e rigira la spira crescente, irradiando sul mondo anarchia e malinconia. Questa tristezza, questo nero sentore di rovina (percepita o attesa), è come un aroma sfuggente o un rumore di fondo ‒ non appartiene al percipiente, ma alla propria misteriosa sorgente originaria. La Tradizione è un fenomeno tanto culturale quanto climatologico: promane dall’abbandono, dalla desolazione, dal gelo, dall’umidità e dalla fatiscenza, dalle imponenti navate e dai languidi villaggi di campagna.  Ruota la spira e, ruotando, instilla nello spirito una speranza: che gli Dei che furono possano un giorno tornare, prendendoci per mano e conducendoci fuori dall’Inferno nel quale siamo precipitati. La terra, il cielo, l’essere umano e gli dei: una composizione che costantemente, come accade per i lembi di un origami, si tocca e si distanzia, si attrae e si respinge ‒ in un eterno alternarsi di seduzioni e abbandoni. Al cuore di tale danza, il giardino ‒ il luogo spirituale, ma anche materiale, in cui tali elementi si incontrano, il nodo in cui la Tradizione si rivela, risuonando nell’animo umano. Prestando ascolto, tendendo l’orecchio a tale sommessa risonanza, ci poniamo in religioso raccoglimento ‒ predisponendoci a raccogliere, a ri-accogliere, ad accogliere ancora una volta, come fosse la prima; e, di fatto, della prima volta si tratta. È in questo isolamento interiore che la memoria climatologica, “non originaria” (giacché falsa e distorta), si manifesta in quanto tale: un oggetto sonico e affettivo proveniente da un’altra dimensione, da un luogo e da un tempo altri. Gli Dei non giungeranno né dal passato né dal futuro ‒ il loro avvento segnerà l’ingresso in una nuova era parallela.

Gira e rigira la spira crescente, divorando il tempo, divorando il cosmo.

Do you remember when Gods were still here?
Not lost in the depths of the brackens green
Or the sorrows of yesteryear
In the gardens of their hyacinths
We still find them near.

In the Garden of Hyacinths


Claudio Kulesko è un filosofo ronin e traduttore. Collabora con Not, L’Indiscreto e Liberazioni-Rivista di critica antispecista.