Under a Funeral Moon

NONE – Damp Chill of Life, Hypnotic Dirge Records, 2019

 

Ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso

Kafka, "Il Ponte"

Tiro un lungo sospiro, fino a sentire i polmoni totalmente svuotati. Non è la prima volta che ascolto – sin assegnato – Il freddo umido della vita, ma è ancora la mia prima reazione dinanzi al riff che, lentamente e sinuosamente, emerge dai sommessi arpeggi iniziali. Fa maschio, in particolare quando penetra nelle ferite ancora aperte – ma anche quando sembra inciderne di nuove, suscitando nell’animo una malinconia e un’angoscia immotivata, apparentemente prive di oggetto. Non è forse questa la funzione estetica dell ‘“arte triste” – mi domando: una sorta di godimento perverso, masochista, capace di alludere al nulla? Non è questo il fine ultimo, il criterio di efficacia del depressivo black metal? Mi torna alla mente come, molti anni fa, la terapista me ne aveva sconsigliato (quasi vietato) l’ascolto. Ogni volta che passa alcuni secondi a scrutare la copertina dell’album. Pur essendo estremamente anonima e tutto sommato banale (anche per un contesto stilisticamente omogeneo come quello depressivo), non riesco a levarmela dalla testa: il limitato di un bosco, sprofondato tra le guglie di un peasaggio immoto e glaciale. La fisso, come se mi aspettassi che, da un momento accaduto, qualcuno o qualcosa uscisse dal bosco. Non vi è dubbio che nella copertina, nel nome della band, nel titolo dell’album, regni una straordinaria immediatezza comunicativa; tutto risulta essere estremamente laconico, e comunque profondamente espressivo. Mi sovviene un’espressione tedesca – spesso impiegata in ambito fenomenologico: da un momento all’altro, qualcuno o qualcosa uscisse dal bosco. Non vi è dubbio che nella copertina, nel nome della band, nel titolo dell’album, regni una straordinaria immediatezza comunicativa; tutto risulta essere estremamente laconico, e comunque profondamente espressivo. Mi sovviene un’espressione tedesca – spesso impiegata in ambito fenomenologico: da un momento all’altro, qualcuno o qualcosa uscisse dal bosco. Non vi è dubbio che nella copertina, nel nome della band, nel titolo dell’album, regni una straordinaria immediatezza comunicativa; tutto risulta essere estremamente laconico, e comunque profondamente espressivo. Mi sovviene un’espressione tedesca – spesso impiegata in ambito fenomenologico:stimmung, “Disposizione d’animo” o, più radicalmente, “accordo di voci”, un’astermine che indica una sovrapposizione tra il mondo interno di un soggetto e il mondo esterno ad esso; il prodotto di tale intreccio sarebbe uno stato umorale non direttamente appartenente al soggetto asserire che il mondo sia oggettivamente triste, felice o euforico). L’incedere maestoso e al tempo stesso “insicuro” dei brani sembra quasi inciampare e caracollare nella neve, fermarsi a prendere respiro sprofondando nel semi-silenzio dei passaggi atmosferici, agonizzando in un crescendo paradossale di abiezione e bassezza. È la storia di una caduta – “È indolore lasciarsi andare”, recita la traccia numero cinque. Realizzo solo ora che il paesaggio della copertina è lo scenario, la chiave dellastimolare la musica dell’album: il freddo che sento nelle ossa, l’abbandono nel quale sto scivolando da due giorni … è lì che va andando, verso il bosco, verso l’attrattore spettrale, il Grande Freddo, l’ambiente sonico da cui promana questa maledizione.

Claudio Kulesko è un filosofo ronin e traduttore. Collabora con Not, L’Indiscreto e Liberazioni – Rivista di critica antispecista