Estetiche dell’estinzione, allusività del resto umano, je ne sais quoi del diplodoco.

L’essere umano è la creatura più tragica, giacché esso conosce abbastanza la Terra, da sapere che essa sarebbe migliore senza la sua presenza.

P.W. Zapffe

Spesso, vengo profondamente colpito dalle cover art di certi album; alcune immagini mi tormentano per giorni, altre per mesi e altre ancora per anni. È il caso di Tahoma (2011), degli Alda, e del poco conosciuto demo dei Foothill Roots, Rural (2018). Le due copertine condividono la medesima impostazione grafica e concettuale, una sorta di “formalismo” che potremmo definire “estetica dell’estinzione” ‒ espresso attraverso il concatenamento animale-ambiente-resti-umani. Nel primo esempio, quello degli Alda, un gruppo di salmoni rossi in un fiume si affolla verso l’osservatore; su di essi, svetta un incontaminato orizzonte di boschi e vette montane; sotto di essi, confuso tra le rocce del fondale, giace un teschio umano. Nel secondo, quello dei Foothill Roots, vediamo un tasso vagare indisturbato in un bosco; dinanzi all’animale incuriosito, i resti di uno scheletro umano ‒ un mucchio d’ossa disordinato, scurito dal tempo e dalle intemperie. In entrambi gli esempi, non si può fare a meno di pensare che, in quegli specifici mondi immaginari, l’essere umano ‒ esemplificato dalle sue spoglie minerali ‒ sia del tutto scomparso dalla faccia della Terra: l’indifferenza o, all’inverso, la curiosità degli animali sembra alludere a una totale assenza di familiarità; il cielo limpido e terso, emerge timidamente dalle indomite fronde degli alberi.

Nel black metal di ispirazione econichilista e misantropica, l’estinzione viene intuita attraverso quel che resta del cadavere umano ‒ la “cosa”, un tempo “persona”, che segnala l’ingresso dell’immaginazione in un’era radicalmente post-umana, dominata dalla wilderness. Qualcosa di simile accade anche in un genere per certi versi adiacente al black metal (e per altri, da esso derivato): il dungeon synth. Sebbene la parentela che lega dungeon synth e black metal sia più che appurata ‒ e in un certo senso evidente ‒ il legame sonico, estetico e immaginario che rende il primo un potenziale sottogenere del secondo è ampiamente materia di dibattito. Dal punto di vista musicale, il dungeon synth sembra aver compiuto un ulteriore passo verso l’espugnazione dell’umano dal territorio sonico: in esso, la freddezza macchinica si fonde con l’annichilimento della voce umana. Ciò avviene, tuttavia, solo a costo di una violenta torsione del paradigma ambient: né new age, né elettronica, né sperimentale, né drone. Il solo obiettivo del dungeon synth consiste nell’erigere una simulazione sonica, nel ricostruire paesaggi fatati, oscuri sotterranei, castelli dimenticati, mondi fantasy. Ogni strumento, ogni mezzo, ogni stratagemma viene impiegato a quest’unico scopo ‒ senza alcuna cura per la sua provenienza o per la sua specificità. Da questo processo quasi-metabolico, da questa sorta di patchwork, scaturiscono una serie di melodie soffuse ed evocative ‒ un tratto fondamentale nella definizione del genere. Si tratta di composizioni scarne, di ampio minutaggio, spesso estremamente banali o stereotipiche; ciò tuttavia, non ha alcuna importanza, giacché esse sono ‒ come già accennato ‒ solo un mezzo per un fine (e non un fine in sé).

Questo genere, essenzialmente underground, sembra raccogliere in tutto e per tutto la sfida lanciata dal black metal, sfodernando un apparato tecnico ancor più scarno di quest’ultimo, e compiendo un vero e proprio “voto di dilettantismo”; ma anche facendo mostra di una particolare attenzione per gli ambienti non umani, nonché per gli aspetti più spettrali del passato.

Tra i sottogeneri che il dungeon synth ha, a sua volta, prodotto nel corso di quasi tre decenni, ve ne è uno di recentissima aggiunta. Il comfy synth sembra esser nato quasi per gioco o per scherzo ‒ dalla subdola mossa di un trickster, che ha goduto nell’accellerare repentinamente la proliferazione dei sottogeneri della musica estrema. L’interrogativo posto dal comfy synth è semplice: cosa accadrebbe se, anziché trattare di antichi mondi umani, demoni, oscuri labirinti, caverne infestate da troll e goblin e regni dominati dal male, il dungen synth trattasse di mondi minuti, topolini, tane, placidi orsi antropomorfi e villaggi di gnomi? Ecco che il piano si popola, d’un tratto, di gnomi ‒ con tanto di pipe e cappelli a punta ‒ orsi cantastorie e topi dalla vita meravigliosa. È in questa transizione dimensionale, apparentemente innocua e priva di minaccia, che l’essere umano, ancor più che nel black metal, viene totalmente spazzato via. Il dilettantismo è così marcato che le melodie sembrano essere spontaneamente scaturite da uno squarcio nella realtà ‒ la stessa artigianalità delle opere comfy appare, in un certo senso, post-umana; gli animali conducono vite migliori di qualsiasi individuo umano; le avventure sono si spaventose, ma sempre coronate da un inevitabile lieto fine; il piccolo popolo conduce la propria vita in armonia con la natura, turbato, di tanto in tanto, dai suoi problemi altrettanto piccini. Si tratta di una wilderness onirica e liminale, dai tratti mitici ma perfettamente sovrapponibile a quella immaginata dall’eco-black metal. In brevissimo tempo, questo sottogenere è proliferato al punto da innescare, a sua volta, la generazione di ulteriori sottogeneri, e finendo col rinvigorire lo stesso dungeon synth tradizionale.

Gli aspetti più nostalgici e sognanti del dungeon synth, infine, giungono al loro apice nella spettrologia estrema del dino synth ‒ l’ultimo arrivato. In esso, scopriamo il rimpianto per un epoca che non è meramente “remota”, ma persino arcifossile. A discapito del tema, l’immaginario grafico e sonico del dino synth rinuncia a qualsiasi sottiglieza paleontologica, abbandonandosi a fantasticherie infantili, melodie da vecchia colonna sonora, campionamenti casuali e ricostruzioni più che datate degli ecosistemi preistorici. In esso, l’estetica dell’estinzione pare compiere una sorta di moto circolare, fondendo e confondendo ambiguamente reincanto e disincanto ‒ proiettandosi verso un’era che è di per sé emblema dei fenomeni di estinzione di massa e, al tempo stesso, tentando di reimmaginare positivamente tale wilderness radicale, ormai posta al di là o, meglio, al confine di quella concreta dell’eco-black metal e di quella mitica del comfy synth. Tra queste strutture audiovisive disordinate o a malapena abbozzate, la catastrofe sembra incombere costantemente su un mondo al tempo stesso brutale e innocente ‒ così come essa incombe su questo mondo “umano, troppo umano”.

Con il dino synth, si chiude la nostra ideale triade, formata da mondi-sonici post-umani, alter-umani e pre-umani: tre linee spaziotemporali allusivamente dischiuse dalle estetiche dell’estinzione.


Claudio Kulesko è un filosofo ronin e traduttore. Collabora con Not, L’Indiscreto e Liberazioni-Rivista di critica antispecista.