Nuovo Cinema Horror. Dialogo con Emanuele Di Nicola

L’horror, com’è noto, è un genere che si fonda sulle paura e sull’angoscia. Nel corso degli anni questi sentimenti sono mutati nel tempo, ma soprattutto sono cambiati gli oggetti sui quali questi brividi si indirizzano. Allo stesso modo, anche l’horror è cambiato. Nel giro di appena due decenni sono successe molte cose fuori dalle nostre finestre; era scontato che prima o poi ce le saremmo ritrovate dentro agli schermi. E infatti così è stato.
Tassello iniziale è It Follows, di quel David Robert Mitchell che speriamo faccia presto tante altre cose. Dopo di lui possiamo trovare registi che disegnano da un po’ i nostri incubi, su tutti l’immenso M. Night Shyamalan o Cronenberg, ma anche molte nuove leve come Ari Aster, Jordan Peele, Julia Ducournau, Robert Eggers.

A mio parere si è gridato al miracolo molte volte, troppe, negli ultimi anni. C’è però da dire che il genere horror è fortemente attivo. Quindi senza restare schiacciati nella dicotomia esaltazione/detrazione, è un fenomeno che va osservato e che offre molti spunti sul cinema in generale e sul contemporaneo.
Film horror ne escono in continuazione, da tante diverse parti del mondo. Se si ci si vuole orientare con più sicurezza, per costruirsi la propria opinione su questo fenomeno, è molto utile il libro snello e pieno di informazioni di Emanuele Di Nicola, affezionato redattore di Nocturno, che aveva già scritto un ottimo libro su Abdellatif Kechiche. Nuovo Cinema Horror è appena uscito in libreria, sempre per Mimesis, e io ho deciso di fare qualche domanda a Emanuele.
Trovate tutto di seguito: buona lettura e buona visione.

Come definiresti il nuovo horror contemporaneo?

Impossibile definirlo. Trovare un’espressione, una frase, un’incisione lapidea al momento non è fattibile: lo vediamo ogni giorno nel lavoro su Nocturno, escono talmente tanti titoli che si confondono, bisogna studiare a fondo per trovare la roba veramente buona che rischia di perdersi. Per il libro ho fatto una piccola indagine su quanti film horror sono usciti quest’anno nel mondo: il numero è ignoto, non se ne conosce neanche la quantità. L’horror di oggi è come l’Acheronte, il fiume dell’inferno, un magma indistinto da cui a volte (spesso) spunta qualcosa. E’ certo che negli ultimi anni i registi stanno portando molto liquido.

Mi faresti una top five, spiegandomi ogni singola scelta?

Ci vorrebbe un altro libro… Ma mi piacciono i giochi e ci provo. Il primo è It Follows di David Robert Michell, capolavoro fondativo del nuovo horror Duemiladieci, racconto di straordinaria intelligenza che va ancora studiato: per esempio sin dal titolo anticipa i followers, quelli che ti seguono. Lo so che oggi avere i followers è molto figo, ma se invece fosse un film dell’orrore?
A seguire ci metto Midsommar perché è l’esplosione definitiva dell’autore Ari Aster; Noi – Us perché mi pare ancora il picco del nuovo black horror, spiega bene cos’è l’orrore nero e dà le stimmate di ciò che chiamo il “peeleverse”. E ancora Titane della Ducornau, troppo importante, troppo innovativo, troppo “pesante” una regista che vince il Festival di Cannes con un horror. Infine The Witch di Robert Eggers, perché segna il ritorno archetipico della Strega e la riversa nel presente. Ci metto un bonus: l’horror più importante di questi giorni, queste ore, è The Substance.

Ho visto che Terrifier 3 ha avuto un successo incredibile. Già confermato il quarto, ha incassato finora 84 milioni di dollari, con un budget di 2. Come è possibile tutto ciò? Parliamo di una saga, a mio parere, inguardabile.

Non sono d’accordo. Ma qui si apre un discorso lungo. Sulla saga Terrifier ci sono molti equivoci: è vero che è “inguardabile”, ma non come giudizio di valore, l’inguardabilità è proprio la sua proposta. E’ ciò che vuole fare. Il gore non è un incidente dell’horror ma un elemento costitutivo del genere, è sempre stato praticato, è opportuno che qualcuno lo porti avanti; in tal senso Terrifier è una delle cose più estreme viste nell’horror commerciale. Poi Damien Leone fa il furbo, ovvio, nel terzo fa vestire il cattivo come Babbo Natale con l’obiettivo sfacciato di scavallare le feste, ma ci sta, fa parte del gioco e resta la “estremità”.
Il progetto ha una genesi particolare: il primo Terrifier non se l’è filato nessuno, peraltro Art the Clown appariva in un film a episodi, il secondo negli Usa ha fatto il botto, il terzo è il primo ad arrivare in sala in Italia. E sta andando come dici, anche col VM18 puntualmente – e giustamente – aggirato dai cassieri complici. Perché? Ti do tre motivi possibili: da una parte perché sposta oltre il limite dell’asticella del visibile, quindi i ragazzi e ragazze pensano “riuscirò a sopportarlo?” mentre pagano i popcorn. In Terrifier 2 c’è una scena diventata culto, la famosa sequenza in camera da letto (non dico altro), che è una grande atrocity exhibition e ha settato un nuovo standard; i giovani vogliono ritrovare quella e andare oltre. Lo statuto di cult lo attesta anche un meme di Art che gira su TikTok ed è viralissimo: ma questo non c’entra col cinema, penserai, vero però conta. Poi c’è un motivo per così dire più sociologico, scusa il brutto termine: nell’epoca dei corpi perfetti che dominano i social, a colpi di filtri e pozioni, lo smembramento di Art the Clow arriva come una boccata d’aria fresca. Infine c’è l’assenza di significato: Terrifer non vuol dire niente, non significa nulla, è solo un bagno di sangue. Al tempo delle interpretazioni e sovra-interpretazioni, quando l’horror deve per forza dire “qualcosa” (sociale, politico ecc.), la gratuità assoluta di Art viene premiata dal pubblico. E il pubblico non sbaglia mai: sennò facciamo lo stesso discorso di quando vince Trump, gli elettori hanno sbagliato a votare… Ma le persone non sbagliano, forse è sbagliata la nostra idea di critici con una sovrastruttura troppo intellettuale. Cerchiamo di capire perché Terrifer ha successo, allora, invece di limitarsi a stroncarlo e dire quanto è brutto.

Se dovessi puntare su un regista che a tuo parere potrebbe trainare il genere, su chi punteresti? Escludendo Shyamalan, che è di un’altra generazione.

Torno sempre a David Robert Mitchell e aspetto il prossimo They Follow. Non sto nella pelle per verificare se dieci anni dopo è riuscito a dare una nuova lettura del presente. Poi ci sono le registe che saranno imprescindibili per il genere domani: Julia Ducournau, Coralie Fargeat che ha appena firmato il suo capolavoro.

Se invece dovessi puntare su un genere all’interno di questa nuova ondata horror, quale sceglieresti? Folk horror, body horror, etc…

Non so, perché non è un sottogenere a decretare la potenza del film, tutti possono essere usati bene o male, in profondità o superficie. Certo, va rilevato che adesso il body horror sembra una delle forme principali per entrare nel contemporaneo attraverso le immagini.

Sono dell’idea che, sebbene siano usciti film memorabili in questi ultimi anni, mi suona strano parlare di un nuovo movimento vero e proprio. Credo che l’ultimo grande passaggio, in questo genere, sia stato quello francese degli anni Duemila. Convincimi a pensarla diversamente.

La New French Extremity fu un movimento molto breve, limitato nel tempo a pochissimi anni, poi quei registi (Bustillo e Maury, Pascal Laugier, Xavier Gens…) furono rigettati dal sistema produttivo che non sosteneva la proposta e inglobati all’interno del sistema. Basti vedere l’ultimo Genx, Under Paris su Netflix, che ti parla di uno squalo che nuota nella Senna col messaggione ambientalista… E pochi mesi fa, parlando con Fabrice du Welz, quando ho rinvangato Calvaire mi ha detto perfino che lui rifiuta quell’etichetta, che è una roba solo giornalistica. Insomma fu una stagione intensa, straordinaria ma breve. Non è paragonabile con l’Acheronte di oggi che, sono d’accordo, non è un movimento: è una primavera dell’horror in tempi da paura, ma come detto è variegata, tentacolare, non ha estetica e pensiero comune, i registi mica si mettono d’accordo.

Cosa pensi dell’elevated horror (o art horror)?

Penso che sia un tentacolo del genere, non tutto. Ha prodotto piccoli capolavori come grandi disastri, o titoli narcotici che mentre li guardi pensi: “Ma cosa mi vuole dire? Perché non si limita all’horror?”. Io a tratti adoro l’elevated, lo reputo importante e ne parlo molto nel libro, basta non fare l’errore di pensare che sia l’unica ipotesi possibile per il genere: c’è anche l’horror puro, che va coltivato e preservato, quello che basta a se stesso senza portare un significato “alto”. Quello, insomma, che ha capito la storica lezione del cinema di genere italiano: Argento, Bava, Fulci… Gente che ti apriva le porte dell’inferno con la regia, la dinamica, la coreografia, non col messaggio. E qui torniamo al successo di Terrifier 3: il pubblico vuole il sangue. Quindi guardiamo l’art horror come una parte, non come il tutto.


Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui FilmTV, Il Tascabile, Not, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.