“7G” è il “White Album” dell’estetica PC Music.

I Beatles erano star planetarie. Uno come John Lennon poteva dire di essere diventato più famoso di Gesù riuscendo in qualche modo a farsi prendere sul serio e senza per questo essere considerato un pollo, come ad esempio Achille Lauro. Ma oggi non esistono star planetarie come i Beatles, o comunque le poche che si avvicinano a quel grado di popolarità fanno generalmente musica di merda, credo che questo sia un fatto. Per questo motivo parlare dei Beatles è sempre difficile, in primo luogo perché è stato scritto praticamente tutto, e poi perché si ha come l’impressione di non riuscire mai a raggiungere quel grado di attendibilità che consenta a chi scrive di non essere ucciso dai fan beatlesiani.

Nonostante questo, il fatto che i Beatles abbiano fatto diversi dischi iconici nel corso della loro breve carriera di band mette d’accordo chiunque. Tra questi vi era certamente il celeberrimo White Album. Un disco che per la prima volta si era fatto attendere, con un’interruzione nel bel mezzo della solida prolificità cui avevano abituato i fan (un anno e mezzo dall’altro album ufficiale, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) – facendo crescere a dismisura l’hype – e che ovviamente vendette in maniera strabiliante, decretando una volta per tutte la “superiorità” del 33 giri sul 45 giri. I Beatles, che soprattutto con Rubber Soul avevano già contribuito fortemente alla concezione secondo cui l’album era una raccolta di brani caratterizzati da una tematica o un’atmosfera comune, se ne escono con il White Album: un doppio album lunghissimo – andando anche contro la volontà del loro fidato George Martin che era contrario all’idea di un doppio disco – pieno di canzoni melodiche, ma anche di trovate sperimentali e coraggiose apparse per la prima volta su un disco pop.

Se tutte queste cose hanno un accettabile grado di obiettività, il fatto che l’ultimo album di A.G. Cook, 7G, faccia pensare al famoso “doppio bianco” beatlesiano, fa scendere vertiginosamente l’asticella della credibilità. Eppure i punti di contatto sono diversi.

Si può partire dalla caratteristica che salta immediatamente all’occhio, ovvero la sua durata. A.G. Cook fa un album che dura quasi 3 ore, contenente 49 tracce e suddiviso in 7 parti. Un album monumentale, quantomeno nella sua durata, anche questo atteso, dal momento che fu preannunciato ormai due anni sul suo profilo Instagram.

Ma oltre a questo, naturalmente, c’è di più. A.G Cook è stato il fondatore di PC Music, sorta di etichetta alla quale questo nome va strettissimo. Se è vero che dal suo nucleo sono uscite alcune tra le proposte musicali più innovative dell’ultimo decennio, va detto pure che PC Music non è stato soltanto un ritrovo di musicisti amanti del pop, specie quello degli anni Novanta, ma anche un nome di riferimento per le arti visive. Ogni loro uscita è accompagnata da copertine e videoclip curatissimi che hanno contribuito, assieme naturalmente a una musica super digitale, condita da suoni laccati e fluidi, a creare a una vera e propria estetica, immediatamente riconoscibile, che è stata omaggiata o saccheggiata anche dal pop più mainstream. Non è un caso che artisti come Madonna o Carly Ray Jepsen si siano ritrovati a flirtare direttamente con questi suoni, o che Bradley & Pablo, la coppia di videomaker che ha fatto i video di “Hey QT”, di “Super Natural” e di “Vroom Vroom” siano finiti a collaborare con Rosalía e Nicki Minaj. Quando si parla di PC Music sembra infatti più corretto parlare della sua estetica in generale, anziché considerare unicamente l’aspetto musicale – che resta comunque indubbiamente quello più rilevante.

Ad ogni buona estetica è legata anche una weltanschauung che permetta a questa estetica di essere pensata e immaginata, ma anche di essere in qualche modo legittimata e addirittura giustificata. C’è una sorta di filosofia che sorregge questa impalcatura concettuale, che si esprime attraverso la finta bevanda energizzante simil-Red Bull, QT, e le griffe Hannah Diamond. Una filosofia ovviamente ambigua, che si pone sul crinale tra enfatizzazione e critica del rito consumistico, con una certa inclinazione verso la prima, e che, come noto, ha inevitabilmente ricevuto critiche, analogamente a quanto successe al James Ferraro di Far Side Virtual.

Se è vero che di questa filosofia ha partecipato ogni membro di PC Music, apportando ogni volta qualcosa di personale, sin dalla sua nascita, allora si può forse dire che 7G è anche il manifesto di questo pensiero, proprio come il White Album lo fu per la sua epoca.

Il White Album uscì nel 1968, l’anno delle rivolte studentesche, e questo fece sì che nel tempo si sedimentasse su di esso un intenso valore culturale, fortemente connotato (e al tempo stesso caratterizzante) da un punto di vista generazionale. Volendo essere romantici, 7G esce nel 2020, un periodo in cui il Covid-19 ha modificato i costumi, le abitudini e la vita umana in generale, in un momento storico in cui i concerti sono vietati, i padroni trovano nello smart working un ulteriore strumento di controllo e sfruttamento, e la semplice compresenza dei corpi sembra essere un atto ancor più rivoluzionario. Un disco come 7G sembra essere perfetto per questo momento, e potrebbe parimenti diventare col tempo un disco in qualche modo epocale. A partire dal suo titolo assolutamente ambiguo – almeno come White Album  (che, come tutti sanno, era semplicemente chiamato The Beatles) – 7G potrebbe essere il nome di un disco trap e fare riferimento alla grammatura di qualche sostanza stupefacente, ma contestualizzando il tutto nell’ottica PC Music sembra più che altro rivolgersi a un ipotetico e coattissimo superamento della tanto chiacchierata rete 5G; questo con tutto il bagaglio tecnologico, comunicativo e ironico/complottista che si porta dietro. Il disco di Cook infatti, con i suoi energici anthem HD dal retrogusto anni Novanta, sembra fatto apposta per ballare da soli in cameretta con la musica che fuoriesce da qualche costosa mini cassa bluetooth, magari in diretta su Zoom da qualche zona rossa. Ma 7G, pur essendo pieno di questi momenti, resta perlopiù un album tutto sommato intimista, in cui a farla da padrone sono le canzoni. Non a caso – almeno per quanto mi riguarda – il disco meno riuscito tra i 7 che compongono l’album, ognuno dedicato a uno strumento musicale, è proprio il primo, uno tra i più sperimentali.

Quando uscì il White Album i Beatles avevano in attivo già diversi album strapopolari, e benché il “doppio bianco” abbia goduto a posteriori del successo che tutti conoscono, fu inizialmente tacciato da alcuni di manierismo. Ascoltando 7G ci accorgiamo presto di trovarci di fronte a un disco senza dubbio audace, ma che non si discosta troppo dalla precedente produzione PC Music. Sembrerebbe essere più che altro una specie di totem, eretto in onore alla setta fondata dallo stesso Cook, un monumento composto perlopiù da quelle che sono le caratteristiche fondamentali di questo progetto: internet, musica elettronica e cultura pop. In questa summa è possibile trovare infatti brani pop à la Paul Mccartney (sì!) con una produzione perfetta, cover di vari feticci della sua personale storia del pop (Smashing Pumpkins, Blur, Strokes, Charli XCX, Taylor Swift e altri), autocitazionismi non dichiarati del passato (“Idyll” e “Dj Every Night” fungono in qualche modo da leitmotiv, riprendendo i temi di “Track 10” e di “Every Night”) e poi gli acidi virtuosismi circolari in bilico tra il french touch dei Daft Punk e il massimalismo pop degli Aqua. Proprio a quest’ultima categoria appartiene “Life Speed”, un brano che nella sua dirompente semplicità potrebbe essere considerato come tra i più rappresentativi di 7G. Un motivetto acuto non lontano da alcune trashate ibizenche, che evocano immagini di spiagge colme di gente ubriaca intente nell’esercizio del saluto al sole: un immaginario probabilmente respingente per la gran parte di noi, ma che diviene d’un colpo rimaterializzato in altro. Questo brano senza testo, di sola musica che inneggia a una fantomatica vita veloce sembra rispondere alle accuse dei sociologi mainstream che fanno appello alla perdita della spiritualità nella contemporaneità. D’altronde, come insegnano i Depeche Mode con la loro moda veloce, nel pop la velocità è un topos che ricorre.

Se l’animo di PC Music era inevitabilmente legato ai consumi e al loro brillante apparire, A.G. Cook trascende questi valori così brutalmente mondani – più tipicamente legati a personaggi come Girlfriend Of The Year e Hannah Diamond – tratteggiando un immaginario emozionale che cerca continuamente di svincolarsi dal feticcio della merce per riappropriarsi di una dimensione più pacatamente intersoggettiva. Simmetricamente, accadde l’esatto opposto quando, proprio pochi mesi prima dell’uscita del White Album, i Beatles misero su la loro Apple Corporation e si tuffarono nel mondo dell’imprenditoria – chiaramente in un modo particolare. Quello che poteva sembrare a tutti gli effetti un investimento commerciale quasi unicamente basato sul profitto, riservava paradossalmente delle potenzialità liberatorie. Intanto ribadiva il ruolo di una Londra che aveva a tutti gli effetti scardinato il monopolio controculturale americano di città come San Francisco, ma soprattutto confermava il ruolo che i giovani si erano ritagliati dall’avvento del rock’n’roll: finalmente avevano voce in capitolo. Da questo punto di vista, come scritto dalla gran parte dei sociologi, i consumi si fanno veicolo di libertà, in special modo quel tipo di consumi beatlesiani che potrebbero essere definiti “creativi”. Oggi vengono creati prima gli oggetti di merchandising e poi i gruppi musicali attraverso i quali vendere tali oggetti, ma nel 1968 la situazione era decisamente diversa, e forse vale la pena fare lo sforzo di credere che quella di Apple non era solo un’operazione commerciale.

Ma se il White Album vendette milioni di copie, a voler essere puntigliosi probabilmente 7G non ne venderà nemmeno una, dal momento che ne esiste soltanto la versione digitale. La filosofia PC Music si concretizza in tutta la sua essenza nella sua pagina Bandcamp, dove poteva essere preordinato in un’edizione “Deluxe Box Set”, sempre rigorosamente digitale. Forse un modo per dire che, nel bene o nel male, cose come il White Album, come Thriller, come Nevermind, ecc… probabilmente non accadranno mai più perché tutto è cambiato. Eppure Cook è qui con i suoi sette dischi.

Il video del suo ultimo singolo, “Oh Yeah”, che anticipa un disco che uscirà a settembre, ce lo ricorda: si tratta di un brano acustico con una voce sporcata di autotune. Un ritorno all’essenza. Un brano pop che più pop non si può, in alcuni momenti fastidiosamente orecchiabile, con lui solo in una stanza bianca che canta con la sua chitarra evocando per qualche fotogramma la copertina di Bryter Layter. Una canzone che sarebbe potuta uscire dal repertorio degli Hanson, quelli di “MMMBop”, e che non credo sia stata scelta casualmente: optare per quel brano come singolo è una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un singolo del genere dichiara questa frase: “faccio musica pop”. Probabilmente sarà un caso, ma il primo oggetto che entra nel video oltre a A.G. Cook è una mela. Lo stesso frutto a cui pensarono i Beatles quando idearono Apple Corporation. D’altronde il disco si chiamerà proprio Apple.


Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.