Il sorriso.

Mi ha lasciato sul più bello. Proprio quando stavo per dichiararle tutto il mio folle amore, come la canzone di Modugno. E invece, ciò che resta lo soffia il cielo, così. Mi affaccio alla finestra, sollevo gli occhi dal telefono, trattengo gli sguardi dei passanti di fronte mentre percorrono il viale dispiegando fisionomie multicolori, e provo a immaginare le loro vite quando scompariranno per sempre dal mio spettro visivo. Mia madre me lo diceva sempre: «Sei un sognatore!», di fronte a una tazza di caffè. Il punto che mi preoccupa è un altro: spesso mi ritrovo a soffrire per quegli sconosciuti, come se fossero i portatori di un dolore assopito, nascosto tra le pieghe e i solchi che disegnano i loro volti. Mi aggrappo alle immagini che scorrono di fronte a me, mentre sto seduto qui sul mio balcone e stappo un’altra sessantasei ghiacciata. «Non è periodo guarda, niente di personale, scusami», disse, congedandomi per sempre (forse) con un messaggio di quelli secchi, telegrafici, ma taglienti come le schegge di un blocco di ghiaccio piovuto dal cielo. Ci stavamo frequentando, non da tantissimo, e qualcosa dentro di me è scattato. Non si possono controllare certe cose, o meglio, non si può controllare niente a conti fatti: siamo tutti governati da un Grande Manovratore invisibile che guarda il mondo attraverso la serratura dei nostri occhi rivolti all’interno. Aspirante scrittrice, mi raccontava di aver frequentato alcuni corsi con personalità del settore che le avevano instillato una idea performativa della scrittura: il ritmo, l’incipit, la storia, il profilo dei personaggi, la struttura, e via discorrendo. Incuriosito, un giorno, le chiesi: «Ah!, ti piace scrivere? Bene. Quali sono i tuoi autori preferiti?», e mi rispose: «Ho un debole per Banana Yoshimoto!», e mentre cercavo i miei occhiali da sole per nascondere l’imbarazzo calato tra noi come un gelo istantaneo, simulai il mio interesse. Non avevo nulla contro la scrittrice giapponese, ma avevo la mia dispensa di pregiudizi trainati al rimorchio in qualsiasi occasione mi interfacciassi con qualcuno, al di là delle solite quattro battute convenzionali e di rito.

Ci eravamo conosciuti a Bologna, una sera di aprile, quando il via vai incessante degli studenti fuori sede si fa più contenuto e l’anima stessa della città sembra perdere vita. In uno dei tanti ritrovi in via Mascarella, tra una birra e un giro di amari, una amica, che frequentava il corso di Glottologia con me, mi presentò questa sua collega venuta dalla Sicilia per studiare. Aveva i capelli biondi, molto lunghi, gli occhi ambrati tendenti al verde, una spruzzata di efelidi disseminate sul viso, nelle spalle, nelle braccia e sul seno. La sua pelle era abbronzata, magnetica, mi attirava a sé come un fuoco acceso nella notte. «Ti posso offrire da bere?», le dissi, tradendo una posa da Tony Manero, compiaciuto della mia spavalderia. «Sì, va bene», rispose, lanciandomi un sorriso interrogativo e dischiudendo già dal principio la sequenza infinita di dubbi e ossessioni che da lì in poi mi avrebbero accompagnato fino a questo momento. Bevemmo in piedi due birre, la mia amica scelse un Negroni Sbagliato, mentre noi ci defilavamo sempre di più chiudendoci in un dialogo a due che escludeva gli altri e si soffermava soltanto sul contenuto dei nostri sguardi, come racchiudessero un codice decifrabile attingendo a un linguaggio dei gesti. «Mi ha detto Sara che sei sua collega, strano non ti ho mai vista!», dissi, fingendo superiore distacco, come se l’unico mondo a cui fossi veramente interessato fosse il mio, quello interiore. «Non ci vedi bene, ci sono sempre in aula», e mi fermai, sospeso come i giudizi. Era la prova che le categorie della logica non potevano imbrigliare i sentimenti: mi aveva spiazzato. Parlammo tutta la notte continuando a bere, di scrittura, università, arte, lavoro, famiglia. Sembrava un sogno. Non avevo mai conosciuto una persona che, a partire dalla prima volta, mi disarmasse così, ampliando la mia curiosità senza fine in un moto perpetuo, che prevedeva alla fine di ogni scambio di battute un nuovo inizio imprevisto senza calcoli o schemi di pensiero prefissati. La prima cosa che ho considerato è stata questa: mi ucciderà. A fine serata mi feci dare il numero, ci scambiammo i contatti e incominciammo a seguirci subito sui social, reciprocamente.

Uscimmo diverse volte, andammo anche a un concerto al Locomotiv dove suonavano i C’mon Tigre: «Ho una passione per la world music!», mi diceva, e ci divertimmo moltissimo. Senza neanche rendercene conto finimmo a casa sua, e scopammo tutta la notte. Ricordo la sua pelle calda, mentre le mie mani circumnavigavano i suoi glutei e le cosce come continenti mai scoperti prima, e poi riprendevamo a baciarci voracemente, seguendo con la lingua le pulsazioni e i battiti delle rispettive tachicardie. Quando si voltava, inarcando il culo tondo e gonfio, le rifilavo dei sonori schiaffi che si ripercuotevano nel vuoto della stanza illuminata da una luce soffusa posata sulla scrivania, di fianco al letto. Le grida di piacere erano moti peristaltici, colpi sferrati sui nostri timpani arrossati, che squarciavano il silenzio in cui la città crollava in quelle notti selvagge. E poi ci distendemmo sul letto, dopo esserci guardati dritti negli occhi (i suoi occhi grandi, abbacinanti) e incominciammo a parlare, riempendo le ore che ci dividevano dalla separazione. «Claudia, devo farti una domanda: ma tu riesci a scrivere e vivere, nello stesso tempo? Lo so che può suonare assurda detta così… Quando scrivi, non entri in uno stato di quasi possessione in cui non esiste più il mondo fuori? Voglio dire, riesci ad accumulare esperienze, relazioni, coinvolgimenti emotivi tali da non influenzare il tuo lavoro da scrittrice? Te lo chiedo perché io non ci riesco. Non so separare il privato dal pubblico e, di conseguenza, inevitabilmente i due stati finiscono per sovrapporsi creando un cortocircuito mentale che ti assicuro non è gestibile. Quando creo, quando compongo le mie canzoni, preferisco non buttarmi mai a capofitto in storie, innamoramenti vari e simili. Mi spiego?», dissi, imbarazzandomi io stesso per le domande e i ragionamenti che facevo, alle quattro di mattina, dopo aver scopato. Raccolse le energie, guardò in su verso il soffitto, come se fosse alla ricerca della presenza del divino nel reale, e mi rispose: «Per me il problema non si pone, per il semplice motivo che la scrittura non è separata dalla vita, capisci? E oggi, quando vivo e mi brucio, magari per un amore non corrisposto e simili, in ogni sfumatura che rende la mia vita quello che è effettivamente, la mia scrittura ne trae vantaggio, aprendomi infinite possibilità che a volte non trovo nemmeno nei libri», disse Claudia, raggelandomi per quelle certezze così consolidate. Ora ho capito che cosa volesse dire: lei leggeva poco, anzi, pochissimo… per lasciare tutto lo spazio della sua esistenza alla ricerca di esperienze vitali che la lacerassero dal profondo. La cosa aveva un senso, ma io non ci ero mai arrivato prima: quando avevo deciso che sarei diventato un musicista, un batterista in un gruppo grindcore, e poi mi ero iscritto all’università perché si sa, bisogna pararsi il culo e cercarsi un lavoro serio prima o poi…, ogni volta che avevo un esame, o un concerto (o un disco!) da preparare, il mio impegno, la mia concentrazione, la mia mente era tutta indirizzata a quei risultati. E basta. Tutto ciò che non rientrava in questi ambiti era in eccesso, grasso da tagliare con il coltello e allontanare dal piatto. La differenza è semplice: per scrivere bisogna vivere, fare esperienza. «Senza le tue storie, la tua scrittura, non avrà valore, risulterà piatta, artificiosa e affettata. Quando invece vivi, intensamente, le cose cambiano, e puoi trasfigurarle come le emozioni che hai provato, nel fiume delle parole che si compongono da sole», disse Claudia, mentre cercavo anche io di aggrapparmi a qualcosa nel soffitto, invisibile ai sensi, ma percepito dal cuore.

Quando ero bambino mi innamorai di una ragazzina dai capelli neri e gli occhi verdi: era bellissima. Avrò avuto sette anni. La vedevo ovunque, confondevo i lineamenti dei passanti sovrapponendoli a quelli della sua figura. Uscii fuori di testa…, ora ho capito che i sentimenti, le passioni come si dice, mi avrebbero sempre tenuto al guinzaglio. Per svincolarmi dal loro peso non esisteva alternativa: avrei dovuto soffocare ogni moto interiore e sentimentale dal principio. Appena sentivo crescere qualcosa, distendendo le pieghe della mia anima fino a farla singhiozzare, arrossandomi gli occhi feriti e straripanti di dolore, bene, avrei dovuto darci un taglio. E per diversi anni è andata così. Me la sono cavata bene!, senza relazioni, storie, sesso o amori impossibili. Certo, poi arrivi verso i trenta, e ti rendi conto che il tempo scorre inesorabile: indifferente come la natura nei nostri confronti, che tesse e disfa l’ordine che lei stessa si è imposto, per travolgerci con tutta la sua carica quando ci mettiamo di traverso ai suoi piani imperscrutabili. Allo stesso modo è avvenuto con Claudia: mi sono distratto un attimo a vivere, e neanche il tempo di accorgermene che mi aveva già carbonizzato. Mutilato, come un freak deforme che claudica tra le sponde della sua mente solitaria. Dopo quella notte in camera tua, cara Claudia, trascorsa nel silenzio spettrale di una città morta come la Zona, avevi cambiato atteggiamento. Non rispondevi più con la stessa frequenza, soffocavi la spontaneità con la riflessione, cedendo al ricatto della ragione: tu stessa, che mi avevi insegnato ad apprezzare la vita, a ritornare tra i miei simili, a sentirne gli odori, io che volevo starmene in disparte, relegato tra i piatti e la batteria, con la mia musica e i miei dischi…, è che invece mi avevi rigettato nella mischia, come quando nasciamo senza averlo chiesto a nessuno. Mi avevi avvertito, e su questo non potevo farci niente, ma in fondo c’è sempre una componente di imprevedibilità nelle relazioni umane: ecco, forse quella variabile non l’avevo calcolata, e ora rimango con il tuo sorriso appiccicato sulla mente, agonizzante come Eros in questi tempi virali, ossessionati dal consumo onnivoro, comprese quello delle persone stesse. Ti risposi, provai a riannodare i fili che ci attorcigliavano, ingarbugliando i pensieri in pungiglioni acuminati e dolorosi, mi ferii anche io scavando con le mani dentro di te, dentro di noi. Mi avevi parlato del trauma della separazione, del senso di inadeguatezza, della volontà di potenza, della creazione come reazione alla dispersione. Partivamo dallo stesso sfondo comune, perché anche io, come te, ero ossessionato dalle stesse cose, ma tu impugnavi l’arma, io ero la tua vittima: mi avevi trafitto, e ora languivo a terra invadendo il pavimento della mia camera del sangue dei miei organi lacerati. Non ho ancora capito se avessi qualcun altro, se tenessi insieme più storie contemporaneamente, se percorrendo gli stessi binari per brevi attimi, il tuo treno avesse subito una deviazione improvvisa e, nello stesso momento, mi fossi girato… perdendoti per sempre. Ora sono qui, davanti alla mia birra già diventata tiepida, che osservo i passanti fare avanti e indietro, senza meta. Voglio vivere. E tu mi hai insegnato questo, anche se ci siamo frequentati per così poco tempo: vivere potrebbe salvarci, e il dolore della sofferenza, in qualsiasi forma essa si declini, è sempre migliore della anestesia della mente e del cuore. Quando tornerò a suonare, a preparare un esame all’università, a cercarmi un cazzo di posto di lavoro, ti prometto, Claudia, che al costo di non dormire più, di ammalarmi di qualcosa, cercherò di continuare ad accumulare esperienze, fuori dalla mia stanza asfittica e stagnante. Continuerò a provare a sorridere al ladro, mentre mi deruba. Non piangerò, perché se lo facessi sarebbe come se rubassi qualcosa a me stesso. E non c’è molto altro da sapere. Pace.


Omar Suboh, è laureato in Filosofia e teorie della comunicazione. Ha scritto per Poetarum Silva, il manifesto, pangea.news, Sul Romanzo, il manifesto sardo, Diari di cineclub e altre. Ha pubblicato una fanzine dal titolo “Leggenda urbana. Fotogrammi di Minerva” (Kirby Edizioni, 2019), e due mixtape, “Aporia” ed “Apolide”, col nome diem.dedalus. Cura un blog dal nome “Homo non intelligendo fit omnia”.