Il trapano.

Sto pensando di farla finita qui. Sì, come il film. Non sopporto più il tedio spirituale di cui sono vittima da troppo tempo. La vita interiore è stata ridotta a quella di un acaro fluttuante tra i granelli di polvere che gravitano nell’atmosfera. I rumori intorno mi infastidiscono. Non c’è mai pace. Ogni volta che provo a coricarmi, appoggio la testa nel cuscino, sento il rombo di una moto sportiva (di quelle da competizione) salirmi fino al cervello e ridurlo a pezzetti. I miei timpani non reggono più il rumore di fondo del mondo: perenne, persistente, perpetuo. Il vociare, o il chiacchiericcio, delle persone che attraversano la strada sotto la mia finestra. L’altra notte, mentre provavo a leggere qualche pagina dei Principi della filosofia di Descartes, una coppia si è accostata con la macchina sotto la mia finestra: e parlavano, parlavano, parlavano… si sentiva tutto quello che usciva dalle loro bocche. Mi sono accorto di non riuscire più a tenere gli occhi sulla pagina, ad ogni riga le parole del volume si sovrapponevano a quelle pronunciate dalle persone in macchina (gli sentivo perché ovviamente avevano i finestrini abbassati, non sia mai!). Erano le due e mezza del mattino. Ho sollevato la serranda rompendo quella calma apparente, e con uno scatto istantaneo, quei due hanno alzato i loro sguardi su di me, impietosi, come se fossero consapevoli di stare disturbando la quiete degli altri. Non curanti dell’accaduto hanno ripreso come se niente fosse. Ho provato con i tappi. Sono andato dai cinesi, gli ho spiegato il mio problema (– Io avele tappi pel te!), così mi sono coricato felice quel pomeriggio. La speranza venne infranta presto. Purtroppo, non mi entravano nei buchi delle orecchie: avevo sbagliato misura, o forse non avevano capito un cazzo di quello che gli avevo chiesto. Una mattina, pochi giorni fa, sono stato scaraventato dal letto per via di un trapano. Sì, un trapano che nel piano di sotto stava aprendo tutto quello che c’era da aprire di quegli uffici abbandonati, per farci chissà cosa. Sono sceso in mutande e ciabatte. Nella testa mi frullavano pensieri di omicidio selvaggio, corpi decapitati, sangue a fiotti, occhi recisi e svuotati delle loro orbite. Avrei brandito una spada per spaccarli in due se ce l’avessi avuta. C’è un limite a tutto, no?, e allora mi sono affacciato e ho chiesto: – Scusate, ma vi sembra normale alle sette del mattino di venerdì, essere svegliati da un fracasso simile?, vi piacerebbe se venissi a casa vostra, quando siete in ferie magari, trapanando all’impazzata fino a farvi uscire il sangue dalle orecchie? Ve lo dico io, no che non vi piacerebbe – dissi, nella mia testa. Perché ovviamente non feci nulla. Tutto accadeva tra le pareti della mia mente scassata e ferita. Così i lavori sono andati avanti tutto il giorno. Non hanno mai smesso. Ogni volta che provavo a sedermi sulla scrivania (che poi manco ce l’ho una vera scrivania, è più simile a una cassa da morto su cui appoggio i miei gomiti sbucciati) ripartivano con quell’orgia timbrica che mi pareva di ascoltare l’ensemble di John Coltrane in Ascension. Trapanavano e martellavano. Martellavano e trapanavano. Così, ad aeternum. Nel quartiere dove vivo tutto sembra tranquillo, all’inizio. È un posto in cui la calma regna sovrana, mantiene la parvenza di un rispettabile quartiere piccolo medio borghese di una città che per giunta è un capoluogo. Il condominio dove abito è composto da cinque piani. Ci vivono delle persone tranquille, due signore anziane (da sole), tre famiglie unipersonali, io con mia madre, e negli ultimi due piani invece un gruppo eterogeneo di emigranti, o transfughi, che non sono mai gli stessi. Non ho mai capito veramente chi ci abiti davvero, o se ci sia qualcuno che ci viva in pianta stabile. Sì, qualche volta riconosco le facce, ma il giorno dopo sono già cambiate. Bene, da qualche tempo hanno incominciato anche loro a organizzare dei ritrovi, anche se non ho ben capito di cosa. Ogni sera, dopo che i muratori degli uffici abbandonati al piano terra hanno smesso di lavorare (per dedicarsi nelle poche ore che gli separano dal turno del giorno dopo per mangiare e poi andare a dormire!), puntualmente una musica incalzante, ossessiva, composta, da quello che sono riuscito a distinguere, di percussioni insopportabili come bonghetti insulsi, batterie e piatti, cori di voci strazianti e inascoltabili, accompagnano le ore che mi restano fino alla cena. Ma non è finita!, un giorno, mentre preparavo un concorso per entrare nella scuola, sono riuscito a ritagliarmi finalmente un momento seduto al balconcino di casa per studiare… dopo pochi minuti: eccoli che incominciano a tamburellare come degli indemoniati, sembravano posseduti da uno spirito del Voodoo di Haiti. Figuravo le loro danze intorno a un fuoco, con un pollo spennato appeso e un agnello sacrificato per l’occasione, mentre l’incedere dei battiti aumentava progressivamente alimentando una spirale di visioni primitive e paradossali. Leggevo una pagina e subito dopo mi distraevo. “La prossemica è l’insieme degli studi che rivela i significati delle distanze materiali poste dall’uomo tra sé e gli…”, e giù di bonghi uno dietro l’altro!: bum, bum, bum, bum, bum!, così via in una folle rincorsa di ritmiche afro beat malriuscite e scadenti. Un altro giorno, al posto dei classici strumenti, hanno sparato delle musiche simili a quella dei Blink 182, altre volte sembrava Bill Evans: ma che cazzo fanno questi? Una notte, mentre non riuscivo a prendere sonno, e continuavano a suonare le loro stronzate, ho indossato le mie pantofole celesti (sempre le stesse), sono salito all’ultimo piano e ho bussato insistentemente. Non mi ha aperto nessuno. La cosa ancora più grave è che mentre guardavo un film sul pc, in mutande, ho sentito chiaramente che lanciavano dei bicchieri sulla strada, proprio dove era parcheggiata l’auto di mia madre (una Fiat Panda bianca come il latte), sfiorandola e frantumando schegge di vetro lungo il perimetro che delimitava lo spazio occupato. Intanto la loro musica continuava a essere sparata all’inverosimile: credevo di impazzire, avrei voluto uccidere. Sì, non ho paura di affermarlo: ho pensato di uccidere, e non è stata la prima né l’unica volta in cui l’ho fatto.

Qualche giorno fa, dopo aver preparato il pranzo (una magra fettina di pollo del supermercato e qualche foglia di lattuga sparuta e giallastra) faccio per distendermi e provare a chiudere gli occhi un’oretta (era questo il mio proposito), ma appena serro come serrande abbassate sul mondo le mie palpebre stanche sento la voce di uno speaker, come quello di una radio o di uno stabilimento per le auto scontro, declamare al microfono amplificato ed esteso per tutta la zona, per via del suo riverbero assordante (accompagnato dai clamori degli spettatori accorsi per l’occasione), fare la cronaca di una gara sportiva di cui ancora non ho capito di che cazzo di manifestazione si trattasse. E così, avanti per ore. Non ho dormito neanche di pomeriggio. Puntualmente, ogni volta che provo a concentrarmi sul silenzio, sui rumori, sui suoni, le voci che accompagnano il dispiegarsi dei fatti del cosmo, mi accorgo che il silenzio non esiste più (con buona pace di John Cage e delle sue composizioni!). O meglio, esisterebbe anche: ma a pagamento. È un lusso alla pari di una Lamborghini, o di una seduta a base di Ayahuasca da diecimila euro guidati da qualche santone nella foresta Amazzonica (o di quello che ne resta!). Ogni interstizio della realtà è occupato dal suono, così come il vuoto non esiste perché anche là dove pensiamo esserci il nulla, quel nulla è un tutto dentro Tutto riempito da microparticelle invisibili a occhio nudo che fluttuano nella biosfera come la mia mente, alla pari di una centrifuga, che frulla i suoi pensieri macinando cattive meditazioni (altro che trascendentali orizzonti: Lynch mi fai una sega!). L’horror vacui dell’esistenza è il rumore di fondo onnicomprensivo del mondo. Non c’è più scampo. Dovremmo emigrare tutti. Andare in campagna, fingerci amanti della natura e della sua fauna multiforme. E se a me non fregasse nulla di tutto questo?, se volessi semplicemente continuare a farmi i cazzi miei in camera mia, cercando sollievo in qualche vecchio pensatore sepolto?, niente. Come quando sono andato, per fuggire dal mio quartiere caotico, verso il mare, all’ombra riparato da alcune palme altissime. Mi siedo in una panchina, prendo il mio libro dalla borsa, e dopo neanche due minuti si avvicina un vecchio di merda che tira fuori il cellulare e cosa fa: si mette a guardare video su Youtube a volumi inconcepibili, senza gli auricolari, ovviamente. Così la mia fragile attenzione viene orientata sul suono che fuoriesce da quel dispositivo che vorrei, in quel momento, strappargli dalle mani rattrappite e spaccarglielo seduta stante schiacciandoglielo davanti al suo sguardo perso e vuoto. Mi alzai e me ne andai, come se niente fosse. Parlando da solo, inveendo contro l’umanità tutta: sì perché questo è il risultato di una nevrosi isterica: parlo da solo e sono pieno di tic che eseguo ritualisticamente ogni giorno, come un fedele di una qualche religione della mente. In pullman, in spiaggia, nei locali: in qualunque posto vada mi imbatto sempre in giovanissimi, adulti, vecchi ecc., che si pompano le loro stronzate sparate dai telefoni senza cuffiette. Perché?, quando è avvenuto il momento in cui l’evoluzione ha interrotto il suo corso?, il progresso tecnologico non avrebbe dovuto coincidere con il pieno sviluppo dell’intelligenza umana?, il dispiegamento del suo spirito. Avevo letto di uno scrittore che parlava di un ritorno allo stato di barbarie, ma il punto è che non siamo ricaduti nelle barbarie perché c’è chiasso in giro: il punto è come viene fatto questo casino infernale. Che tipo di rumore produciamo involontariamente o con consapevolezza. Il silenzio è un lusso come qualsiasi altra cosa. Rimpiango i rave in cui mi portavano i miei amici da ragazzino, in spiaggia, lontani da tutto e tutti, ci calavamo qualche pastiglia (un po’ di MD, niente di che), e poi via con la mente fuori da me. Vorrei ritornare a quei momenti, guardarmi da fuori mentre osservo dall’alto le fiamme di questo posto inutile, fondermi con il Tutto senza provare più rancore, odio, e repellenza verso le cose che mi circondano. In questo stato di lucidità indotta le mie percezioni si acuiscono, amplificando ogni minima variazione intorno. Anche adesso, mentre scrivo, sento una chitarra acustica (o una specie di arpa) che strimpella qualcosa dal piano di sopra. Dall’altra parte, nella casa di fronte, un rumore simile a quello di una aspirapolvere che viene passato su una lamina di metallo che sfregandosi al contatto genera schegge infuocate, mi assale distogliendomi dal mio unico proposito. Sto pensando di farla finita qui, come il film.


Omar Suboh, è laureato in Filosofia e teorie della comunicazione. Ha scritto per Poetarum Silva, il manifesto, pangea.news, Sul Romanzo, il manifesto sardo, Diari di cineclub e altre. Ha pubblicato una fanzine dal titolo “Leggenda urbana. Fotogrammi di Minerva” (Kirby Edizioni, 2019), e due mixtape, “Aporia” ed “Apolide”, col nome diem.dedalus. Cura un blog dal nome “Homo non intelligendo fit omnia”.