WWW.ROMANIA.ORG – La rivolta violenta del cinema rumeno.

“Vaffa-N-cu-LO da Romania un souvenir 
Questo è un altro motto famolio sentì!”

Negli ultimi tempi, il popolo rumeno ha raccontato in modo così magistrale quanto detesti il suo paese da arrivare a produrre opere d’arte lodate dalla critica e vincitori di premi importanti; in particolare, due registi rumeni, con due film a dir poco straordinari sono riusciti a ricevere più di una candidatura agli oscar e a conquistare l’Orso d’oro, il premio più ambito della Berlinale, all’ultima edizione del festival tedesco. In qualche modo, il documentario Collective di Alexander Nanau e Bad luck banging or loony porn di Radu Jude hanno qualcosa in comune, che non è solo il paese di produzione; entrambi smascherano i rapporti di potere, sociali o politici, e disvelano l’ipocrisia di un paese che, diventato da soli 30 anni un paese democratico dopo la caduta del partito comunista cerca di mascherare a tutti i costi le profondissime falle che lo rendono un paese bigotto, corrotto e in cui non sembra avvenire nessun progresso. L’espediente narrativo a tratti bizzarro del film di Jude, o l’espediente derivato da fatti realmente accaduti come l’incendio al club Colectiv del film di Nanau, permettono, con toni diversi ma ugualmente aspri, di rivelare le motivazioni storiche che hanno causato per la Romania, nel tempo, un malfunzionamento profondamente insediato e stratificato da cui sembra impossibile riprendersi se non pensando di fare tabula rasa e ripartire da capo. I due film, che fanno parte dei titoli più discussi ed apprezzati del momento a livello mondiale, hanno non solo permesso di dare luce all’urgenza e alla gravità della situazione che ha già mietuto vittime nel paese mitteleuropeo (e che sta continuando, inevitabilmente, a farlo) ma possono vantare di essere due opere d’arte di altissimo livello, che per un motivo o per un altro, andrebbero visionate anche solo per comprendere una fetta di storia che di certo non ci sembrerà così distante da quella degli altri paesi europei, e senza dubbio ricorderà tematiche e contraddizioni comuni alle popolazioni, le società e i governi di tutto il pianeta.

COLLECTIVE (2019) ALEXANDER NANAU 

Il 30 ottobre del 2015 in un nightclub di Bucarest di nome Colectiv, durante un concerto e a seguito di uno spettacolo pirotecnico, un incidente ha causato un incendio violentissimo in cui 64 persone hanno perso la vita, e altre 153 sono rimaste ferite. Il numero così alto di vittime avrebbe potuto assolutamente essere evitato: non solo le uscite di sicurezza del locale non erano a norma, così da aver costretto un sovraffollamento intorno all’unica porta d’uscita da cui molti non sono sopravvissuti, ma è negli ospedali che è avvenuta la parte più inquietante, dove 37 persone sono morte a causa della pessima situazione sanitaria rumena governata dalla corruzione. Perché in questa storia si parla così tanto di corruzione? L’elemento angosciante del film di Alexander Nanau, che ha seguito le indagini dal punto di vista del reporter sportivo (la gazzetta “Sporturilor”) Catalin Tolontan, è che non è solo una parte limitata dell’apparato sanitario (e governativo) a nascondere orribili segreti, ma il sistema intero. Ogni rivelazione ne nasconde altre che fanno da protezione per quelle che giacciono nascoste ancora più in profondità, che pur apparendo saldissime e ben protette da organizzazioni precise, finiscono per sgretolarsi una dopo l’altra  a causa di confessioni e ricerche che ne svelano i contorni. L’effetto domino a cui si assiste durante il film fa crollare così un intero sistema corrotto interamente fatto di bugie, tutto a causa di un singolo avvenimento traumatico; sembra quasi di assistere alla corrispondenza concreta di alcuni dei versi di una canzone della band “Goodbye to Gravity”, quella che il 30 ottobre teneva un concerto al Colectiv prima dello scoppio dell’incendio. A causa di un insolito scherzo del destino, o di una crudele profezia, il cantante del gruppo, unico ad essere sopravvissuto all’incidente, pronunciava le parole del testo del loro brano “The Day We Die” pochi minuti prima della tragedia: 

“Fuck all your wicked corruption
It’s been there since our inception, but we couldn’t see
All the times we’ve felt so hollow 
As our hopes were hanged in gallows
All this time we’ve been locked away
And there was nothing left to say 
Until today”

(<<Fanculo tutta la vostra malvagia corruzione, è stata qui sin dall’inizio, ma non riuscivamo a vederla. Tutte le volte che si siamo sentiti vuoti, mentre le nostre speranze erano impiccate al patibolo. Tutto questo tempo in cui siamo stati rinchiusi, e non c’era nient’altro da dire. Fino ad oggi.>>)  

Le circostanze sono più complesse di quello che ci si può aspettare: dalle bugie del dispotico manager dell’ospedale di Bucarest Florin Secureanu, volte a coprire le enormi quantità di denaro rubate al sistema sanitario per soddisfare piaceri personali, alle decisioni politiche di non spendere altri soldi per trasferire i pazienti in altri centri specializzati a causa dell’impreparazione del personale negli ospedali rumeni, alle numerosi morti causate dalle infezioni da Pyocyanin Bacteria a seguito delle ustioni, che hanno distrutto i corpi delle vittime dell’incendio al Colectiv come risultato di disinfettanti di bassa qualità distribuiti all’ospedale di Bucarest; disinfettanti diluiti più di quanto fosse raccomandato e che si sono rivelati dunque inutili a salvaguardare le vite delle vittime. Eventi scioccanti, che sembrano passaggi di una sceneggiatura da film thriller, continuano a susseguirsi nel documentario: la morte-suicidio di Dan Condrea, proprietario dell’azienda farmaceutica distributrice dei disinfettanti diluiti “Hexi Pharma”, le dimissioni volontarie di alcuni coinvolti a causa del rimorso, la caduta del governo guidato dal primo ministro Victor Ponta, avvenuta dopo le manifestazioni di piazza contro la corruzione, che riempivano le strade nei giorni successivi all’incidente al Colectiv, e soprattutto l’elezione a ministro della salute del giovane attivista per i diritti del paziente Vlad Voiculescu, completamente solo dinnanzi alle bugie del sistema divulgate dalla rivista di Tolontan, e speranzoso di poter rianimare il sistema sanitario rumeno dalle condizioni disastrose che lo hanno devastato nel tempo.

E’ tra riprese negli ambienti dove si svolgono le indagini, perlopiù ospedali e sedi di redazioni giornalistiche che prende forma la struttura di “Collective”, che tiene incollati allo schermo a causa di un susseguirsi di notizie che lasciano lo spettatore sempre più sorpreso, sconvolto, e in uno stato di tensione costante. Quello che rende così coinvolgente il film di Nanau, però, è senza dubbio la tridimensionalità dei personaggi che la compongono, così ben raccontati da sembrare scritti e frutto dell’immaginazione del regista. 

In più parti, infatti, Collective sembra un film di finzione che ricostruisce una storia realmente accaduta, seguendo i passi di Il caso Spotlight e di altri thriller investigativi dello stesso genere; si fa fatica ad accettare che quelli che si sta vedendo ed ascoltando siano i veri protagonisti della storia, tanta la bravura di Alexander Nanau nel mettere insieme momenti significativi dell’intero avvenimento. Scene come le confessioni delle infermiere che non riescono più a vivere con i sensi di colpa e che decidono di raccontare la verità, sono così forti da sembrare inverosimili. La conversazione tra l’infermiera che fornisce a Tolontan i video che documentano la situazione nell’ospedale di Bucarest successiva all’incidente, e il ministro Voiculescu, è uno dei momenti più drammatici di tutto il film: <<Coprivano le teste dei pazienti con dei lenzuoli anche se non erano morti>> dice l’infermiera tra le altre testimonianze relative alle conseguenze di uno degli episodi più tristi della storia rumena contemporanea. Dalle parole dei testimoni apprendiamo che alcuni pazienti sono deceduti in ospedale anche se le ustioni si trovavano solo sul 10% dei loro corpi, a causa di infezioni dovute al malfunzionamento dei disinfettanti e all’incapacità del personale ospedaliero: il sistema sanitario rumeno è visto come un assoluto inferno, qualcosa di cui i cittadini dovrebbero essere seriamente terrorizzati. Non è un caso che il ministro della cultura rumeno non abbia supportato il film e la sua distribuzione, tanto che quando, successivamente alle nomination agli oscar, lo stesso ministro ha cambiato idea e pensato di offrire a Nanau la medaglia al merito culturale, il regista ha prontamente rifiutato: <<Ritengo che sarebbe ipocrita accettare questo onore poiché il cinema e le sue strutture istituzionali sono cerebralmente morte. Da marzo 2020 ad oggi, le autorità non solo si sono rifiutate di affrontare questo argomento, ma per di più l’hanno aggravato per incuria e mancanza di iniziativa>> ha scritto A. Nanau riguardo l’avvenimento. 

Il documentario in corsa agli Oscar si svolge così come un climax ascendente, con eventi che ne dettano l’azione e contribuiscono alla crescita progressiva di uno stato d’ansia che termina nel peggiore dei modi. Non c’è alcuna speranza – ci dice il regista – dopo che, in una delle ultime scene, anche Voiculescu, uno dei pochi buon intenzionati, perde l’incarico di ministro della salute in seguito alle nuove elezioni, facendo sì che insieme a lui muoia l’ottimismo verso un futuro diverso per le sorti della Romania. Dopo aver appreso questa demoralizzante notizia, il regista ci colpisce ulteriormente e ci accompagna in un finale ancora più amaro: quando, avendo seguito attentamente tutte le fasi delle indagini a discapito dello stato corrotto, siamo quasi sul punto di perdere di vista le reali conseguenze dell’incidente al club Collectiv, Nanau ci ricorda chi sono le reali vittime della storia; ci fa prendere parte al pellegrinaggio della famiglia di una delle vittime presso la tomba del loro figlio, martire innocente di bugie e ricatti tenuti a lungo ben protetti da coloro che detengono il potere, e che hanno deciso di rinunciare al compito di tutelare la popolazione al contrario di come un governo dovrebbe fare. Dopo tutto l’incessante parlare durante il film, il silenzio assordante del dolore insopportabile inflitto alle famiglie delle vittime, coloro che sono i concreti reduci degli errori della storia, poiché dietro ogni comportamento smascherato e avvenimento narrato attraverso parole o immagini, c’è qualcuno che è condannato a riviverne il dolore in eterno.

BAD LUCK BANGING OR LOONY PORN (2021) RADU JUDE

Se Collective smaschera l’ipocrisia di un paese attraverso fatti realmente accaduti raccontati così bene da sembrare romanzati o scritti appositamente per il film, il vincitore dell’Orso d’oro Bad luck banging or loony porn (tradotto in Sesso sfortunato o follie porno) del regista Radu Jude parte da uno spunto inventato (che in realtà ricorda un episodio avvenuto pochissimo tempo fa proprio in Italia) per parlare di un contesto culturale generale tanto da prendere le sembianze, soprattutto nella sezione centrale del film, di un film-saggio à la Chris Marker. Ci troviamo dalle parti di John Waters e di Rainer Werner Fassbinder, del cinema camp e d’exploitation, della cinematografia estrema mescolata alle celebri riflessioni di Benjamin sullo statuto dell’”opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, al porno e alle recenti ricerche sulla Memestetica dell’autrice e curatrice Valentina Tanni.

La protagonista, Emi, è una maestra competente e rispettata dai suoi giovani alunni, che viene catapultata in un’imbarazzante situazione ai limiti del grottesco quando un sex-tape con protagonisti lei e il suo fidanzato viene divulgato sul web. C’è tanto materiale da indagare per provare ad analizzare un film come quello di Jude: le riprese quasi documentaristiche delle strade di Bucarest che riprendono il mondo in piena pandemia (uno dei primi film ad integrare questa scelta narrativa) come immagini voyeuristiche di google street view, il riutilizzo di immagini d’archivio slegate l’una dall’altra e indipendenti dalla trama principale, e il ritratto della capitale rumena come un calderone di cose contrastanti tra loro che coesistono in maniera controversa e ossimorica in un ambiente in cui i luoghi destinati ai bambini si trovano a pochi metri da sexy shops, e in cui nelle stesse vetrine vengono esposti libri d’infanzia e testi politici o religiosi uno di fianco all’altro. Tra parchi giochi ed altri luoghi ricreativi fanno capolino dei vecchi manifesti sgualciti con il viso di Vlad Voiculescu, lo stesso ministro della salute che veniva sconfitto negli ultimi minuti di Collective e che dopo una secondo periodo in governo è stato, come la prima volta, rimosso per cause che possiamo immaginare. L’accozzaglia di questi elementi in un singolo frame che ritrae un angolo della città è così dissonante da essere estremo, a dir poco pornografico, ed è qui che risiede la riflessione di Jude: cosa è davvero considerabile un atto estremo? Un filmino pornografico è davvero da condannare fingendo che l’estremismo non sia più frequente di quel che crediamo? È davvero il sesso consensuale ciò che rischia di traumatizzare i ragazzini? O in questo contesto culturale avvengono atti ben più estremi di quelli considerati tali dai genitori degli alunni della protagonista? 

Nella prima parte del film, seguiamo Emi percorrere la strada verso l’abitazione del suo capo, la preside della scuola dove lavora; il giudizio è sospeso, si attende un vero e proprio processo che avverrà nelle scene finali del film. Appeso ad una parete dell’appartamento della preside, una <<riproduzione>> della “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt, che ritrae la dissezione del corpo di un giustiziato, con tendini e muscoli ben in vista; niente di dissimile da un video gore alla portata di click che è possibile trovare su uno shock site come Best Gore o il vecchio Rotten: un’immagine molto più che estrema ma con un rigore formale che lo rende una decorazione per interni. La seconda parte del film, ovvero quella composta da un susseguirsi d’immagini d’archivio che raccontano la storia della Romania, è forse quella più interessante, e non fa che ricalcare la riflessione postmoderna introdotta precedentemente: come fossero icone, si fa riferimento a concetti e informazioni sulla cultura rumena e quella generale; si narrano le origini della pornografia (che vuol dire letteralmente <<ritratto di una prostituta>>) facendole risalire al pittore Parrasio intorno al 410 a.C.; viene mostrato un video musicale di Romeo Fantastick, cantante rumeno appartenente al (cattivo) gusto trash che nei testi mescola squallido, scabroso e cafone, e che vanta più di 5 milioni di visualizzazioni su YouTube; si cita la letteratura sovietica come quella di Isaak Babel’, e si parla di Pier Paolo Pasolini (che con Salò è entrato nel podio dei padri del cinema estremo) e dell’evento secondo cui l’intellettuale italiano scelse dei membri del partito comunista per interpretare i farisei in Il Vangelo secondo Matteo poiché per quei personaggi voleva delle “facce ottuse, da fascista”. La riflessione di Pasolini sull’ipocrisia degli apolitici e sul “fascismo degli antifascisti” non è di certo casuale quando si parla di un paese con una storia politica come quella della Romania, il cui retaggio culturale rimane indissolubilmente legato a un’eredità bigotta, razzista, antisemita e governata proprio dall’ipocrisia. È nella terza ed ultima parte del film che avviene la vera resa dei conti, la sintesi di tutti gli argomenti introdotti dalle due sezioni precedenti e lo scontro Progresso vs. Arretramento simboleggiati rispettivamente dalla maestra Emi e dai genitori in platea, pronti a giudicare e decidere le sorti della protagonista. I genitori condannano il comportamento della maestra e non si preoccupano affatto di come i loro figli, in tenera età, abbiano accesso a qualsiasi tipo di contenuto sul web, senza che nessuno li controlli o guidi nell’uso del mezzo; temono che possano vedere immagini di rapporti sessuali consensuali ma non hanno paura dell’esposizione alla violenza (secondo il sociologo Sebastian Toc, l’insegnamento stesso è <<un atto di violenza>>) che proviene, nella maggior parte dei casi, proprio dallo stesso nucleo familiare in cui si professano ideologie retrograde, razziste e truculente. E i concetti di riproducibilità, di archivio, di cultura mediatica e di abolizione della linea tra “cultura alta” e “cultura bassa” è rimarcata dalle citazioni letterarie e filosofiche che la maestra legge per consolidare la sua tesi e la sua difesa,  ricercate e lette dal suo cellulare e pronunciate dinnanzi alla platea di genitori, che rendono ben presto la discussione un solo scambio di citazioni altrui che più che a una conversazione somiglia alla lettura ad alta voce di una cronologia della home di un social network o di una bacheca di Pinterest. 

Cosa ne esce fuori? Ne esce fuori che non c’è una soluzione ben precisa, perché nell’era contemporanea nulla ha più dei contorni ben definiti; che forse pensare di fare una distinzione tra cos’è arte e cosa non lo è, è oramai un’idea obsoleta; che i concetti di ”amatoriale” e ”istituzionale” possono capovolgersi da un momento all’altro; che non è possibile stabilire quale sia la attuale condizione delle immagini cinematografiche poiché, nonostante le formulazioni di Benjamin sullo statuto dell’arte, nell’epoca contemporanea opere antiche, meme, selfie di instagram, post su Facebook, grandi composizioni letterarie, siti pornografici e video di YouTube coesistono tutte insieme e viaggiano alla velocità della luce, e per analizzarli e comprendere l’influenza che esercitano su ognuno di noi, vanno ristabiliti nuovi criteri che non hanno nulla a che fare con il passato. L’ipocrisia e la tendenza all’atteggiamento falsamente ottimista dell’ “andrà-tutto-bene” molto in voga nell’ultimo periodo, fornisce a Radu Jude gli elementi per smascherare le radici disonorevoli del suo popolo, in cui il modus operandi di nascondere i problemi di corruzione e degrado con una facciata positiva sembra essere il comportamento privilegiato. La realtà, però, è che tutto viene sempre a galla, e che arriverà un momento in cui, per un motivo o per un altro, sarà oramai diventato impossibile nascondersi. 

“Mother Father, Puoi dirlo forte Samir!”




Arianna Caserta è nata a Roma nel 2001. Si occupa di critica cinematografica, si interessa di cinema indipendente e sperimentale, e di musica elettronica. È spesso utilizzata per Character Development. Perfetta interprete delle suggestioni dei cari Death Grips, continua a dare <<buona idee alle persone sbagliate>>.