La ferocia. Intervista a Aurelio Picca.

La cosa bella di Aurelio Picca è che oltre a essere uno scrittore incredibilmente colto e raffinato è anche una persona che sa riconoscere e mettere in risalto il lato più aggressivo e violento delle cose. Per questo egli parla spesso di ferocia.

Benché la ferocia sia una parola piuttosto comune nel lessico italiano, attraverso i suoi libri (in particolar modo gli ultimi due: Arsenale di Roma distrutta e Il più grande criminale di Roma è stato amico mio) sembra divenire una vera e propria categoria filosofica. Picca costruisce intorno a questo elemento l’ossatura delle micro-storie di Arsenale, così come quella, decisamente più compatta, della sua ultima fatica, incentrata sul criminale romano degli anni Settanta, realmente esistito, Laudovino De Sanctis. Roma infatti non è solo il teatro delle avventure che racconta, ma a tutti gli effetti l’ingrediente principale della sua ricetta.

Così, mentre gli scrittori contemporanei sono costretti a seguire le mode – talvolta addirittura a inventarle – e a dire solo ciò che non risulti scomodo, Picca se ne sbatte di tutto questo e procede per la sua strada, da foscoliano esistenzialista quale è, e parla di morti, paganesimo, criminali, sesso, vita notturna e ferocia, tanta ferocia.

Perché un libro che parla di Laudovino De Sanctis, detto Lallo?

Lallo per me nasce come esempio di rivolta assoluta, di rivolta contro il mondo che supera qualsiasi rivolta politica. Rimasi affascinato dalle sue gesta fin da ragazzo. Quando venni a sapere di questo tipo che riuscì a evadere da Regina Coeli buttandosi direttamente dalla sua cella, aiutandosi unicamente con un lenzuolo mentre il compagno che lo aspettava fuori intratteneva i poliziotti con le bombe a mano: pensai che non poteva esserci rivoluzione più grande.

Ero affascinato da Lallo, quindi mi incuriosivano anche alcuni elementi del genere crime – benché io non possa certo definirmi uno scrittore crime. Quegli elementi che poi ritrovavo anche in alcuni scrittori francesi come Maupassant, e che erano più che altro legati alla ferocia. Ferocia non della società, ma della vita. Quella ferocia descritta dagli scrittori astorici, legati al corpo e al combattimento e che quindi erano al di fuori della Storia.

Pensavo continuamente a Lallo, al di là delle immagini ricorrenti che riaffioravano dalla mia giovinezza, quindi dopo aver scritto Addio mi capitò di scrivere un articolo per Il Giornale dove ricostruivo degli itinerari che lo riguardavano. Il particolare è che nell’articolo lo chiamavo “Lalletto”…

Come, tra le altre cose, fai anche nel libro…

Esattamente. Il fatto è che a un certo punto, si mette sulle mie tracce Monique, la figlia di Lallo, una bravissima cameraman che lavora nel cinema. Mi trova e mi dice che nessuno poteva permettersi di chiamarlo “Lalletto”, eccetto quelle due o tre persone nell’assoluta intimità. Non lo permetteva a nessuno. Alle spalle potevano chiamarlo “Zoppo”, “Belva”, “Lallo”, ma faccia a faccia “Lalletto” non poteva chiamarcelo nessuno. Quindi mi ha contattato credendo che lo conoscessi, così gli ho raccontato la mia ossessione per lui.

Ti confesso che dopo aver letto il libro si è congratulata con me per la descrizione fedele che ne avevo fatto. Questo non per vantarmi, ma per dire che nel periodo in cui ho scritto il libro mi sono completamente calato nella parte. Mi sono trasferito all’hotel Miralago ad Albano, dove potevo ammirare il lago e i Castelli Romani. Lallo era accanto a me, parlava con me.

Eppure il romanzo parla attraverso le parole di Alfredo Braschi, un personaggio esistenziale.

Il problema di struttura era quello di legare una storia emotivamente conosciuta (come quella di Laudovino De Sanctis) a una di finzione. Quindi la questione era questa: non fare una biografia di Laudovino De Sanctis, ma riuscire comunque a trovare un aggancio possibile tra un personaggio esistenzialista, pronto a uccidere e a morire, e il suo specchio maturo e adatto con il quale confrontarsi.

La loro amicizia nasce infatti nella maniera più naturale e perfetta per quegli anni: fuori da un ristorante in seguito a uno scambio di battute sulle loro macchine.

Perché vedi, negli anni Settanta potevi trovare in un ristorante di Trastevere uno come Gianni Agnelli, ma anche una bestia di uomo come quello che diceva: “Noi ci andiamo a fare due ville sull’Appia Antica. Venite?” E questa empatia, questo colpo di fulmine, erano innescati da una gestualità tutta corporea che la virtualità di oggi tende sempre più a far scomparire.

Senza dubbio, quella di quei tempi era una criminalità completamente diversa da quella di oggi.

Certamente. Ovvio, non ho minimamente intenzione di fare un’apologia del criminale, ma il fatto che siano due modi diversi di intendere la criminalità è una cosa evidente, e quelli erano gli ultimi esempi di quella ferocia. Uno era criminale, faceva una rapina e otteneva 400 milioni, ma il primo pensiero non era quello di comprare una casa o di metterli in banca. Anzi, quel pensiero non subentrava proprio: si pensava al Ferrari e a bruciarli subito in locali e divertimenti. La casa portava pure sfortuna, i soldi andavano immediatamente dissipati perché se uno era criminale finiva morto ammazzato o nel migliore dei casi in galera. Mentre oggi nessuno pensa a questo. Il criminale di oggi pensa al suo futuro come qualsiasi altra persona e ha a disposizione moltissimi mezzi per assicurarsi coperture e insabbiamenti che gli garantiscano sicurezza.

Inoltre, Lallo era molto amico di Schifano, ma non per questioni di droga, perché lui non era un criminale da droga. Schifano gli vendette una scultura – una di quelle poche sculture grigie che fece Schifano – e Lallo non la rivendette mai. Per capirci, egli vendette una scultura a Laudovino De Sanctis, il celebre criminale romano, ma non volle mai vendere nulla a Franco Califano. E considerando il personaggio Schifano, uno che se gli stavi simpatico e andavi lì con un quadro falso te lo firmava e “autenticava” senza alcun problema…

Era una criminalità diversa anche perché questa era gente da una donna sola. Lallo ha amato una donna per tutta la sua vita, solo da un certo punto in poi si è affiancato a una donna di mala, ma era in tutto e per tutto una complice per i suoi affari, non un’amante.

Volevo arrivare proprio a questo. C’è quella bellissima poesia che Lallo dedica a sua moglie, ma tutto il libro è pervaso da quest’atmosfera a cavallo tra realtà e finzione: l’ha scritta Lallo o tu?

Quella mica me la sono inventata io, quella l’ha scritta proprio Lallo.

Non ci credo.

Cazzo, quella l’ha scritta Lallo! Me l’ha fornita sua figlia Monique.

Bellissimo! Facendo un discorso più generale, mi verrebbe da dire che, come in Arsenale di Roma distrutta, anche in Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, la storia di Laudovino De Sanctis è perlopiù un pretesto per parlare dei feticci di un’epoca che oggi non c’è più.

Più che un pretesto io direi che è una chiave. Moravia – in un suo barlume di razionalità, perché poi per il resto era un eccentrico – diceva di usare la chiave del sesso per aprire la realtà. Allo stesso modo io vorrei dire di usare la criminalità, tramite quest’uomo estremo, per parlare di un’epoca che non c’è più, ma anche dell’età contemporanea e della Roma di adesso che non è affatto bella.

Anche se, ancora una volta, non stiamo parlando di una critica sociale mirata.

No, assolutamente. Il libro rivela in generale un disprezzo fortissimo per il mondo. Mentre scrivevo Il più grande criminale di Roma è stato amico mio avevo inconsapevolmente adottato il seguente monito: solo il disprezzo può deviare il destino di un uomo. Solo in seguito mi accorsi che era una frase di Camus, un altro che in quanto a disprezzo non aveva nulla da invidiare a nessuno.
Da lì mi sono venute in mente anche delle chiavi per procedere nella stesura del romanzo, per scardinare alcuni topoi letterari che riconducono direttamente al genere, il crime ad esempio. In alcune parti del libro questo disprezzo diviene talmente lampante da far passare in secondo piano gli altri livelli sentimentali di cui è composto il romanzo. Ad esempio, il libro è incentrato su questa vendetta che il protagonista vorrebbe consumare nei confronti dell’uomo che ha violato e ucciso sua figlia, ma il disprezzo nei confronti del mondo è talmente più forte da mettere in secondo piano anche questo fuoco, facendolo apparire come una volgare regolamentazione di conti unilaterale, piccolo-borghese.

Forse si riesce a intravvedere anche uno sfondo politico in effetti…

Il protagonista ha fatto di tutto nella sua vita, ma a un certo punto gli comincia ad andare stretta anche la libertà dell’uccidere. La sua vita è andata in un certo modo, sua figlia non c’è più, il mondo è una merda: chi deve ammazzare? Perché farlo? Chiunque è già morto. Voi siete tutti morti. Non ti uccido neanche, perché sei già morto. Non sparo due volte su di un cadavere. Nonostante questo ricerca l’assassino.

Questo è un attacco ideologico al mondo. È un manifesto politico.

Un manifesto politico votato all’astratto…

Più che all’astratto, il problema è che credo che uno scrittore, uno che crea, deve sempre pensare all’Assoluto. Si deve sempre confrontare con le posizioni straordinarie. I politici non possono essere degli individui che si sovraespongono, devono essere al di sotto e si devono occupare della ordinaria amministrazione.

Non credi che questo libro sia in qualche modo anche un libro sull’amicizia?

Sì, perché se nell’amore uno metteva in preventivo cose come la fine del rapporto o il tradimento, nell’amicizia si poteva consumare e alimentare un sentimento che ancora una volta andava oltre il tempo e la Storia. Questo sentimento così potente nasceva da un guizzo: la persona più grande vedeva in quella più piccola una sorta di erede, e viceversa quest’ultimo poteva intravedere nell’altro una guida. Non è un discorso di opportunismo, è un qualcosa di inerente all’empatia animale tra due animali.

Torna di nuovo il tema della ferocia.

Certo. Quando parlo di ferocia, faccio riferimento alla selvaggeria, a quella ferocia pagana che è natura pura. D’altronde la trama del libro si svolge in un’ambientazione dei Castelli pre-Romani, e quindi poi, Romani, che è fortemente pagana e intrisa di sacrifici di uomini e di animali. Sono luoghi pieni di significati simbolici.

C’era questo video che precedeva Arsenale di Roma distrutta in cui parlavi di come il romanesco fosse una lingua inventata…

Ma certo. Quella è una cosa fondamentale, eppure nessuno lo sa. È assurdo! Il Belli inventa il romanesco prendendo spunto dalle diverse parlate e dai diversi modi di dire presenti nei paesi intorno a Roma. Il romanesco non è una lingua storica, ma una lingua inventata.

Puoi prendere anche la famiglia romana più autentica, non c’è nessuno che non abbia almeno un antenato che proveniva da questi luoghi. Roma e i Castelli Romani sono fortemente legati, si potrebbe dire che sono una cosa sola. Stiamo parlando di luoghi con un’importanza storica, e quindi simbolica, fondamentale. Ci sarà un motivo se Francis Ford Coppola mette Il ramo d’oro di Frazer sul comodino del colonnello Kurtz (Marlon Brando), che si trovava in Vietnam, dove lavorava proprio come un sacerdote pagano che alla fine accetta di essere ucciso. Il capitano Willard (Martin Sheen) non lo uccide perché è abile, ma è Kurtz che si fa uccidere, si mette in sacrificio perché stanco di vedere la morte. Uno che ha cercato i sacrifici umani, si offre poi in sacrificio: questa è la legge del sacerdote del bosco sacro.

Il passaggio dal paganesimo al cristianesimo è cruciale, e teatro di buona parte di quel pezzo di storia è stato il suolo dei Castelli Romani.

Cosa pensi invece dell’attualità, del procedere storico degli avvenimenti?

Io credo più nella leggenda che nella Storia. La Storia è riscritta sempre. Dicevano i vecchi antropologi, si può fare la Storia dalla parte di Luigi XVI e dalla parte dei giacobini, quindi qual è la verità? Invece la leggenda, è orale, come l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia, che sono state tramandate da generazioni fino a quando qualcuno l’ha trascritta per arrivare fino a noi. Quindi la leggenda è apparentemente più vulnerabile, ma è superiore alla Storia perché resta più autentica, in qualche modo. È come la musica foscoliana che vince di mille anni il silenzio.

Parliamo invece del sesso e di quanto è presente nel libro.

Il protagonista, Alfredo Braschi, è un uomo maturo, ma un uomo di molte giovinezze. Lui trasferisce la sua sessualità nella pistola che porta sempre con sé. La pistola diviene quindi il sesso, ma anche l’amore che lo può ricongiungere in qualche modo a sua figlia. Paradossalmente, reprimendo il sesso, spinge la sua carica sessuale sulla pistola per essere più aggressivo e trovare l’uccisore, quindi ritrovare sua figlia. Lui non fa l’amore perché ha un amore vasto e straziante dentro al cuore, che è quello di sua figlia. C’è però un delirio sessuale. Lui non usa internet e altri mezzi, se non il telefono, però è continuamente ricercato da donne che gli mandano biglietti presso l’hotel dove alloggia. Lo cercano perché era un gran fico. Quindi, la cosa che ha divertito anche me – lo confesso – è questo delirio sessuale trattenuto che diventa più esclusivo che non effettivamente consumato. Un procedimento che apparentemente sembra depotenziare la sessualità, ma che invece è in atto.

Alfredo Braschi nel mentre accumula le tante giovinezze e gli dice addio, nello stesso tempo cerca di trovare l’escamotage per viverne una, un’altra definitiva.

Nei vari articoli che ho letto sul libro, mi sono reso conto che invece questa potenza in atto è interpretata in maniera non sempre corretta, spesso è invece considerata come una sorta di invecchiamento della sessualità. Questa conclusione arriva seguendo la strada della psicanalisi.

Purtroppo infatti qui la vecchiaia non c’entra nulla. Si può parlare di antichità, di arcaicità, di paganesimo, e ancora una volta di ferocia, ma non di vecchiaia. Sebbene mi interessi e diverta molto leggere Freud e Jung, il mio punto di vista è diverso. A me interessa il gesto, la visione o la sintesi che contiene già in esso il pensiero, non mi interessa svilupparlo ulteriormente attraverso lo stile e il ragionamento. Non me ne frega niente di raccontare di uno che mentre prende il caffè pensa ed elucubra chissà cosa per lungo tempo: o pensa una cosa potente che ha senso essere raccontata oppure prende il caffè e lo beve.

Tornando alla vecchiaia, questa non c’entra niente anche perché quello che descrivo è il desiderio più puro in fondo se ci pensiamo. Quando si parla di Dionisio uno pensa subito all’orgia di Eliogabalo, ma non è vero nulla. Questo perché non si considera l’aspetto simbolico. Il puro eros è anche quello di Teresa d’Avila.


Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.