Iperdenti. Episodio 3. Er picchetto.

Romanzo suddiviso in tre parti: AltroveHuper Vision e Iperdenti.

Genere: Fantascienza di Borgata

Il romanzo, ambientato a Roma Est, all’interno di un centro di scommesse sportive in prossimità di borgate periferiche, e scritto in prevalente accento romanesco, nel titolo allude a un gioco virtuale, nel quale vengono risucchiati i personaggi. Tean, Aida, Juri e Tim non sanno tuttavia di essere intrappolati all’interno di quel gioco, in cui accadono eventi incomprensibili. Nel gioco si sviluppa infatti la misura stessa della tridimensionalità, che gli è connaturata, per abbracciare altre dimensioni: mondi filiformi, in grado di generare altre realtà, tutte distorte. Così, nei pensieri e nelle azioni i personaggi saltano da uno stato all’altro, senza rispetto delle regole temporali. L’incomprensibilità delle azioni è frutto della logica del gioco, che invade la loro coscienza; e proietta il presente, che i personaggi vivono o credono di vivere, verso una deriva onirica e ferocemente surreale. Si tratta di un romanzo ciclico che nella sua struttura riproduce le gabbie virtuali che sono parte della condizione odierna.

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Immagini da: (H)earth di Sante Simone, collage digitale, 2020 

X3

In attesa dei risultati, i ragazzi si sono raccolti in gruppo fuori dal Bar Portico. Gustando una bella fumata, si fanno trascinare dalla nebbia di un nuovo viaggio, terre lontane, sabbie mobili, venti tropicali, soli di maggio, freschezza aerea, trombe d’aria, sirene bagnate, stelle cadenti. La luce pallida del lampione rotto taglia i loro occhi rigirati in su, alla ricerca di una battaglia da vincere, o magari anche solo sognando un “Altrove”. A quell’ora non si sentono voci, giusto le scie delle macchine che attraversano l’Alessandrino in cerca di una sosta sulla Togliatti. Di là passa anche Michelle, a mostrare i suoi gioielli sgargianti di materiale cartoccio, intonati con la camicia blu, le ciglia blu, ombretto giallo, rossetto e matita sbrilluccicoso.

– Ragazzi, su, passatemi questa canna!

– Anvedì chi c’è, er frocio!

– Certo, demente! E voi sai chi siete? Siete i miei serpenti di gomma che tengo dietro la porta della mia stanza, appesi e immobili, in attesa di essere vibrati. Senza di me quei serpenti non respirano! Inutili esseri umani, vi rovesciate addosso inutili spasmi! Io sono un artista, amo la parola, amo l’arte del corpo, l’amore universale, il piacere dell’eruzione, l’inondazione della cascata sul mio pene.

– Ah ah ah ah… eccolo, è partito pe’ ’a tangente, regà. A Michè, succhiame sto cazzo!

– Mi chiamo Michelle! E quello che ti trovi tra le tue cosce pelose si chiama pene, ignorante! Come diventi volgare con quest’aria da galeotto depresso. Che c’è, la tua ragazza non te l’ha succhiato bene, eh? Non ti preoccupare che ci penserà tua sorella a finire l’opera.

– Sei un porco, t’ammazzo! Viè qua, frocio de merda, te spacco er cervello viè, viè qua, tu a mi’ sorella non la devi nominà che t’ammazzo, porco de merda, sei ‘n fijo de ‘na porcona.

– Porcona sarà tua madre.

In cerchio, tutti i ragazzi hanno cominciato a danzare uno strano ballo primitivo intrappolando Michelle. Sembravano posseduti da spiriti ignoti. Michelle, spaventato da questa trasformazione improvvisa, cerca di fuggire ma viene catturato al volo sulla vita, per poi essere fatto saltare per aria.

Juri si sveglia con in faccia il cane che gli lecca la guancia. (Ma perché devo sognare sempre sto Michelle!). Guarda l’orologio. Tean non risponde al telefono. Esce di casa. Sono le cinque passate. (L’handicap del Benfica me lo sono perso. Loro mi aspettano. Sicuramente anche lei è lì. Oggi vorrei essere dolce. Ieri sono stato brutale. Con la scusa di aver vinto, le chiedo di uscire!)

– Aò, eccolo Juri, bada!

– Badedas a te.

– Tim ndo’ sta?

– Boh… starà a casa a giocà.

– Mmh… Devo andare da lui!

– Ansèèè, ormai stai qua. Chiamamolo ar telefono.

– Lo chiami tu? Io ‘n c’ho soldi.

– Sì sì, tranqui, fratè, lo chiamo io.

Altezzosa, Tean si ferma davanti a Juri. L’orlo del suo vestito viola accecante sfiora l’indice sinistro di lui, che si trattiene per non creare disagi. I loro occhi di opposti colori, nero e blu, lanciano laser rossi, prima che le bocche emettano suoni, fermano il reale.

– Ciao, Ju’!

– Ciao, Te’. Come stai?

– Oggi siamo dolci? Mmh,strano.

– Eh eh eh… Famme ‘n picchetto da venti.

– Ao, che stai a fa’, fratè, ce stai a provà co’ Tea? Ansèèèè…

– Ammazza, ao, ‘n se po’ parlà.

– Forse n’hai capito che l’amicizia tra omo e donna nun esiste.

– See… Piuttosto ’o sai che ho vinto? Tean m’ha fatto vince’!

– Aaaaa e quanno ’o dici?

– Mo.

– Davero, Ju’?

– Sì. Te’, ricordi quella giocata che t’ho lasciato ieri? Eh, quella è vincente.

– Oddio, davero? Ma proprio quella?! Ma io… non la trovo più!

– Cosa?!

– Sì… L’avevo lasciata nel cassetto, ma oggi non l’ho più trovata.

– Porc…!

– Ma sei sicuro de avé vinto?

– Te dico de sì! Mortacci tua, Te’, e de chi t’ha messo ar monno!

– Come te permetti, brutto stronzo che ‘n sei artro. A mi’ madre nu’ la devi nominà! Vattene! Con me hai chiuso!

– Ma che cazzo, pe’ ’na volta che vinco, eddai… Ndo vai? Esci fori!

– Dai, Ju’, lassa perde’, ’nnamo via.

Prendendo a calci le sedie, Juri esce dalla sala, bestemmiando. Tean si rifugia nel bagno freddo quanto le sue mani. Dopo un respiro di sollievo, beve l’acqua dal rubinetto, si bagna le guance pallide, fa un respiro profondo ed esce. Nessuno le chiede come sta, tranne Franz.

– A Te’, ma c’hai fatto oh? Me p-ppari tutta p-ppallida p-ppeggio daa luna. Ma secondo te ’a m-mmagica che fa?

– Che ne so, Franz!

– So’ tutti f-ffondamentali, p-ppuò darsi che ’a Roma sta m-mmejo e vince, ma av-vvendo molto v-vvantaggio stanno pari, levandomi questi c-ccinque gioc-ccatori stanno mejo.

– Sì, Fraa’, capisco, ma ora mi devi dettare la giocata sennò la fila che c’hai dietro mi mangia viva.

– ’O sai che oggi invece io ho m-mmangiato du p-ppanini grossi così oh, co’ dentro du’ r-rranocchie vive ah ah ah aaah.

– Oddio, ranocchie?

– Scherzo! Uno co’ v-vverdura e m-mmzzarella e uno m-mmozzarella e v-vverdura.

– Interessante. Ma detta, Fra’, detta!

– Allora, due s-ssegna goal os-sspite s-ssignorì. O m-mmio d-ddio no! So’ d-ddistrutto! M-mmi m-mmanca un go’ ’n-nnaggia!

– Franz! Mi devi dettareeeeeee!

– M-mma perché te la p-pprendi così? Che c’è, hai litigato cor  tu’ r-rragazzo, eh? P-pperché qui ’a gente n-nnon se la deve prende’… Il f-ffatto è che l’umanità s-ssfoga er m-mmale è un f-ffattore che dipende da lui s-sstesso. P-pperché s-ssecondo te a cinquant’anni s-sse comincia a accusà er m-mmale?! Cioè, tutto quello che s-ssentiamo da una d-ddelusione d’amore, tutta l’esistenza ci pesa addosso, capito?

– Risparmia la componente filosofica, Fra’. Mi devi dettare!

– P-pposso f-ffa’ p-ppallavolo? D-ddue ics, tre 1, s-ssette 1, s-ssei 2, d-ddieci unoics…

Voce dalla fila: ao’ ‘a voi finì, Fra’! Io devo anna’ via, c’ho da fa’, famme passa’ va!

– E m-mmamma m-mmia, n-nnon se po’ giocà in p-ppace. E v-vva b-bbe, v-vva, ci p-pprovo p-ppiù tardi.

Rassegnato, Franz si siede davanti al monitor dei risultati in sequenza reale. Abbassa le sopracciglia bagnate di parole non dette ma scolpite nello scanner numerico del cervello. È un uomo pieno di tic verbali, nasconde morsi slabbrati, tremolìo di gamba, sospensione d’ali in mani plateali: eroico, il suo occhio sospende il corso. Tean un po’ gli vuole bene e si preoccupa quando si oscura e non dice più una parola.

– Come va,Fra’?

– M-mme m-mmanca un go’. S-sso’ d-ddistrutto!

– Mi dispiace. Dai su, non perdere la speranza, può darsi che si riprende, la Roma.

– B-bbugiarda! D-ddite tutte un s-ssacco di bugie, p-pper questo m-mmi f-ffaccio r-rregalare i libri s-ssul s-ssesso anale, così d-ddivento f-ffrocio..

– Ma dai, non fare così, mica sono tutti uguali. Dai! Ti voglio dedicare ’na canzone.

– Te la canto io la canzone, Te’. Er trenooo dei d-ddesideri v-vvaaaaaaaaa…E p-ppoi te s-ssposo s-ssull’altare.

– Eh ma noi siamo vite singole. Che cognome fai, Fra’?

– N-nnobile, ho un cognome n-nnobile.

– Come fa?

– Te l’ho appena d-ddetto! N-nnobile, discendenze n-nnobili. P-ppeccato che ’a catena s-ss’è s-sspezzata. Ormai ho f-ffatto la mia f-ffase.

Voce dalla sala: IO SPERO CHE UNA SCOSSA DI TERREMOTO SBRAGA BERGAMO.

Juri si calma, fumando la sigaretta piano. Guarda da fuori Tean che ondeggia nello spazio facendo finta di niente. È ritornata a sorridere come nulla fosse. Si diverte lanciando battute a Franz.

– Ao, hai visto che ha fatto?

– Chi?

– Franz.

– Che ha fatto?

– Ha perso per la Roma.

– Pure io, ma per colpa di Tean.

– E va be’.

– Bada!

– Badedas.

Jonida Prifti, poeta/performer e traduttrice dall’albanese all’italiano e viceversa, nata a Berat (Albania) nel 1982, è emigrata in Italia (Roma) nel 2001. Tra le pubblicazioni: Non voglio partorire…(Alfabeta2);  Ajenk (Transeuropa); il saggio Patrizia Vicinelli. La poesia e l’azione (Onyx); Rivestrane (Selva) etc. Nel 2008, con Stefano Di Trapani ha fondato il duo di poetronica “Acchiappashpirt”. Insieme organizzano, dal 2010, il festival annuale romano di poesia sonora “Poesia Carnosa”.  www.jonidaprifti.com