Musica per l’apocalisse: quattro dischi per quattro incisioni di Albrecht Dürer.

Poche cose si adattano alla Nuova era oscura (James Bridle, 2019) che stiamo vivendo come le incisioni dell’artista tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), probabilmente uno dei più rilevanti della sua epoca, certamente uno dei più conosciuti. Le sue xilografie dedicate a temi biblici, terrificanti e visionarie, sono figlie di un’epoca di inquietudine in cui ci si aspettava da un momento all’altro la fine del mondo, mentre in Germania si iniziava a mettere seriamente in dubbio l’autorità della chiesa di Roma. Altre opere, come Melancholia I, sono diventate famosissime grazie a riferimenti enigmatici ed esoterici: se le interpretazioni degli studiosi hanno riempito innumerevoli tomi, romanzieri da centinaia di milioni di copie tipo Dan Brown l’hanno riproposta al grande pubblico in chiave furbescamente suggestiva.

A questo proposito, ritengo che né il buon Albrecht, che viaggiò molto e fu incline al godersi la vita, né i suoi contemporanei, si aspettavano che le sue opere, giunte fino a noi in quella che Walter Benjamin (1936) avrebbe definito come “l’epoca della riproduzione tecnica”, potessero essere utilizzate per fini anche piuttosto improbabili.

Siccome – ammettiamolo – in questi giorni non ho molto da fare, ho deciso di presentarvi, senza alcun intento di completezza, una micro selezione di incisioni di Dürer. Ognuna è stata utilizzata come copertina per dischi più o meno assurdi.

“Il sogno del dotto” (o “tentazione dell’ozioso) (c. 1498)

Questa incisione rappresenta un uomo, identificato come uno studioso, addormentato accanto ad una bella stufa di ceramica. Un diavoletto, attraverso un soffione, gli trasmette malvagità e pensieri impuri. Ciò ci suggerisce che essere pigri, sfaccendati, inattivi, o semplicemente propensi all’ozio, dovrebbe essere l’anticamera di tutti i vizi. La donna a destra, una Venere, che sembra indicare la stufa (e che in effetti potrebbe aver freddo, essendo nuda) è stata interpretata come una materializzazione dei pensieri, senza dubbio impuri, dell’uomo. Da notare il putto in basso a sinistra (Cupido?), che prova a camminare sui trampoli: ciò simboleggia l’instabilità dell’amore, probabilmente anche per via dell’età avanzata dell’uomo – quello del vecchio libidinoso, in effetti, è un luogo comune almeno dai tempi di Plauto.

Long Fin Killie –  Valentino (1996)

Band anni ‘90 uscita per l’etichetta post rock Too Pure (Stereolab, Laika, Mouse on Mars), i Long Fin Killie, originari della contea di Perth, erano uno di quegli strani gruppi anni ‘90 non facilissimi da definire al giorno d’oggi: ritmi articolati, complessi e ripetitivi (a volte salta fuori a caso un certo sentore drum’n’bass), voce lussureggiante, e persino una certa esibizione di bravura tecnica.

A parziale spiegazione di tale prolissità, sembra che i Long Fin Killie si riunissero per ore a provare autisticamente negli antichi locali, un tempo adibiti a lavanderia, di un castello di proprietà di una nobildonna scozzese: il fatto che i pezzi siano per lo più nati da jam è abbastanza evidente. I testi sono incentrati su questioni di genere, sessualità, identità, e stereotipi maschili (machismo, sessismo), talvolta violenza.

Consiglio in particolare “Cop”, un pezzo con violini improbabili e una batteria incredibile, dedicato, mi pare di capire, ad una relazione abusiva con un poliziotto, nonché al fatto che le guide ai programmi tv costituirebbero un materiale molto più adatto alla masturbazione rispetto ai tabloid, in particolare grazie alla presenza di pin-up.

Il bagno pubblico (c. 1496)

In questa incisione piuttosto prosaica, non priva di riferimenti espliciti (il rubinetto della pompa), Dürer raffigura alcuni avventori in un bagno per soli uomini, intenti ad ascoltare due musicisti, trincare birra, scambiarsi sguardi languidi. Non manca un autoritratto dello stesso artista teutonico (l’uomo appoggiato alla pompa in posa leziosa). Nel 1496, peraltro, i bagni pubblici di Norimberga erano stati chiusi: si trattava di una misura di salute pubblica (suona familiare) volta a prevenire il dilagare della sifilide. Dürer per il sociale.

Pentangle – Cruel Sister (1970)

Cruel Sister è il terzo album dei Pentangle, tra i migliori gruppi di un certo folk-rock britannico che giocava con la musica popolare inglese tentando di mescolarla al blues e al nuovo cantautorato americano (consiglio anche, come minimo, gli Incredible String Band). Talentuosi, autoindulgenti (il lato b è composto da un’unica traccia da 19 minuti), a tratti molto vicini al jazz, per i Pentangle Cruel Sister fu un tentativo di tornare alle proprie “origini” folk. Sfortunatamente per loro, si trattò anche di un flop commerciale.

Consiglio in particolare la canzone che dà il nome all’album, “Cruel Sister”: una ballata tradizionale che parla di due sorelle e di un cavaliere. La sorella cattiva (bruna e intraprendente) annega la sorella buona (bionda e sognatrice) allo scopo di ottenere, più o meno, il cavaliere in sposo. Il corpo della malcapitata viene trovato da due menestrelli, i quali, a partire dalle sue ossa, ricavano un’arpa magica. Suonando e cantando da sé una canzone, la prodigiosa arpa denuncerà la sorella bruna, rovinandone presumibilmente il matrimonio (e la vita). La versione dei Pentangle è resa particolarmente memorabile da un sitar, suonato da John Renbourn, che rispecchia come poche cose al mondo lo Zeitgeist di certo hippismo britannico.

I quattro cavalieri (dall’Apocalisse 1498)

Tra le più celebri incisioni di Dürer, i “quattro cavalieri” fanno parte di un intero ciclo, notoriamente tetro, visionario, e inquietante, dedicato appunto all’Apocalisse di Giovanni. Sono certo che un pubblico avvezzo alla bibbia come quello di Droga conosca benissimo questo testo altamente evocativo, carico di simbologia arcana, perfettamente incomprensibile, che si trova alla fine del Nuovo Testamento.

Ebbene, qui si fa riferimento al brano (6:2-8) in cui l’Agnello (ma si tratta di Gesù) apre i primi quattro sigilli (in tutto ce ne sono sette, e racchiudono una pergamena). Ogni apertura è seguita dall’apparizione di “esseri viventi” che, “con voce di tuono”, esclamano: “vieni”. Da destra a sinistra: il cavaliere con arco, corona e cavallo bianco (identificato con la Peste); quello con la spada gigante e il cavallo “rosso fuoco” (identificato con la Guerra); quello con la bilancia e il cavallo nero (Carestia); ed infine “Morte”, l’unico ad essere chiamato per nome nel testo biblico, su un cavallo verde, con gli occhi da pazzo. Particolare pregiato: la bocca dell’Inferno (in basso a sinistra) che fagocita vittime.

Apocalipsis – Aguaviva (1971)

Formatisi in Spagna alla fine degli anni ‘60, gli Aguaviva sono un buon esempio di come le buone vibrazioni della Summer of Love raggiunsero in qualche modo anche la Spagna franchista, con risultati abbastanza curiosi. Nel 1971, dopo essersi esibiti al Festival di Sanremo con Al Bano, registrano “Apocalipsis”. Si tratta del loro secondo album.

Il peculiare miscuglio, incline alla prolissità, di spoken word, teatro, e musica degli Apocalipsis potrebbe non essere invecchiato benissimo, ma mantiene un suo fascino. Nel corso del disco, una voce altisonante proclama l’arrivo dei quattro cavalieri dell’apocalisse, e ad ognuno è dedicata una canzone. Sebbene la versione originale dell’album (Discos Acción, 1971) abbia tutt’altra copertina, ne sono uscite varie versioni in vari paesi: quella olandese (Omega International, 1971), presenta i quattro cavalieri düreriani.

Consiglio in particolare “La Niña de Hiroshima”: un angosciante susseguirsi di voci sinistre e rumorismo schizzato. Curiosità: i versi sono la traduzione di una nota poesia del turco Nâzım Hikmet, dedicata ai bambini di Hiroshima (1955). La stessa poesia, tradotta in inglese, costituisce il testo della ben più nota, nonché più rassicurante, “I Come and Stand at Every Door” di Pete Seeger (ne esiste anche una versione meravigliosa eseguita dai Byrds su Fifth Dimension).

I quattro Angeli vendicatori dell’Eufrate (sempre dall’apocalisse, 1498)

Dallo stesso ciclo, si tratta di un’altra raffigurazione di un brano dell’Apocalisse (9:13-19): la liberazione, segnalata dallo squillare della sesta tromba, dei “quattro angeli incatenati” sul noto corso d’acqua dell’Asia occidentale. Tali angeli avrebbero il compito, non semplice, di sterminare “un terzo dell’umanità”, accompagnati però da duecento milioni di “truppe di cavalleria” (visibili sullo sfondo, anche se in numero molto minore). Nonostante mi reputi una persona abbastanza seria, mi piace fantasticare sul fatto che tali soldati, equipaggiati con corazze di fuoco, giacinto, e zolfo, sopra a cavalli con teste di leone da cui scaturiscono fuoco, fumo, e zolfo, siano direttamente provenienti da un qualche scenario in stile Mad Max che Giovanni è riuscito in qualche modo a visualizzare dal passato (tipo Siria, o striscia di Gaza).

Internal Void – Standing On the Sun (1993)

Fatto innegabile: il doom metal si adatta piuttosto bene alle incisioni apocalittiche di Dürer. In questo caso abbiamo a che fare con esponenti di punta di una delle scene più prolifiche di questo sottogenere notoriamente basato su pesantezza, ansia, cannabis e Black Sabbath: la scena del Maryland (di cui i Pentagram sono probabilmente i più noti). Gli Internal Void per molti versi sono da manuale per la loro pura, a tratti ottusa, fedeltà al Riff.

Consiglio l’ascolto di Line on the Sand, in particolare per il sano riffaggio desertico. Il brano è dedicato non a caso ad uno scenario Mad Max: nel mondo regna la pace, ma soltanto perché  l’umanità si è estinta a causa della guerra. Non manca un messaggio pacifista, forse non di grande spessore geopolitico ma certamente di genuina semplicità (“why can’t all you people just be friends?”).

Autoritratto a tredici anni (1484)

Ho selezionato soltanto quattro dischi, anche se ce ne sarebbero molti altri. La maggior parte sono dischi inerenti ai più svariati sottogeneri del Metal. Esistono anche numerosi casi di dischi di musica classica della prima età moderna, in particolare composta in Germania, o quantomeno ai tempi di Dürer: non ne ho parlato per manifesta incompetenza. Non mancano, poi, casi di Hardcore e Grindcore.

Esistono inoltre alcuni sparuti esempi di dischi, da me deliberatamente esclusi, in odor di nazismo. Bisogna pur dire, riguardo a Dürer, che si tratta di uno degli artisti che più hanno colpito l’immaginario nazionalsocialista: uno dei più grandi collezionisti di sue incisioni, il norimbergense Karl Diehl, rifornì il terzo Reich di armi sfruttando forza lavoro in gran parte proveniente da campi di concentramento. In generale, mi sembra ci sia una certa preponderanza, tra gli artisti musicali che hanno saputo riproporre le incisioni düreriane, di capelloni con la chitarra (nelle più svariate accezioni dello stereotipo). Ci si chiede a questo punto perché, nella sterminata produzione musicale dell’oggi, l’artista tedesco sembri invece poco gettonato: dopo tutto, la sua opera è in pubblico dominio.


Edoardo Angione si occupa sostanzialmente di storia moderna.
( https://www.instagram.com/paul_pindar/ )