Sono andato a vedere lo spettacolo “Orfeo Opera Rock” nella magica cornice del Teatro India di Roma. Una rock opera: una di quelle robe che andavano negli anni 70, gli Who, David Bowie, poi i Queen, oppure Rocky Horror picture show etc etc… C’è chi ha avuto l’ardire e l’ambizione di tirare su, con pochissimi mezzi, e solo il ‘sogno’ come carburante, questo spettacolo che è diventato gigantesco! La prima frase scritta 30 anni fa dal giovanissimo librettista Daniele Timpano su un tovagliolo del pub e subito appallottolato, è diventato una palla di neve rimpolpata dall’amico Marco Maurizi che ci ha fischiettato un’aria, e la palla di neve si è cementata negli anni della loro amicizia, e ha iniziato a muoversi nelle mani della regista Elvira Frosini, ed è diventata una irrefrenabile valanga fomentata dall’entusiasmo dei 17 giovani attori e attrici della Scuola di Perfezionamento della Fondazione Teatro di Roma (che ha messo a disposizione spazi e risorse ed ha sostenuto il progetto) che in oltre un mese di lavoro insieme alla compagnia Frosini/Timpano si sono trovati protagonisti e – di più – artefici di un grandioso spettacolo. Si vede che mi è piaciuto? E non è già la storia dietro la storia qualcosa di magico? Sembra un film!

Ma dopo questo lungo preambolo magari qualche domanda agli autori, alla regista e agli attori è d’obbligo. Come è andata veramente la cosa, e come e quando vi siete conosciuti voi tre demiurghi?
Daniele Timpano – Ci siamo conosciuti in periodi diversi. Con Elvira Frosini ci conosciamo dal 2005 e lavoriamo insieme dal 2008. Nel frattempo ci siamo anche sposati e siamo, di fatto, una coppia di vita e di lotta con all’attivo ormai una quindicina di spettacoli, spesso con focus politici o storici, lavori come Aldo morto, Acqua di colonia, Ottantanove, Dux in scatola e l’ultimo, Tanti Sordi, dove pure abbiamo lavorato molto con la musica insieme ad un altro musicista che conoscerai e che era in platea l’altra sera per Orfeo: Ivan Talarico. Elvira ha conosciuto Marco credo già nel 2006-2007, probabilmente nel giardino o nella sala teatrale del defunto Rialto Sant’Ambrogio dove organizzavamo una rassegna teatrale indipendente dal titolo buffo di Ubu Settete. Io invece conosco Marco dal 1993, credo, o giù di lì, ed uno dei primi atti della nostra amicizia, che è stata ed è anche un discontinuo sodalizio intellettuale ed un reciproco influenzarsi, è stato appunto scrivere Orfeo Opera rock insieme. L’aneddoto del tovagliolo non è per niente romanzato: peraltro quel tovagliolo dove era appuntato il testo dei primi pezzi dell’Opera lo conservo ancora in un cassetto come una reliquia. Si trattava della tovaglietta di una Pizzeria per turisti in centro, vicino al Colosseo, che si chiamava Pizza Forum. La pizza non era molto buona ma ci tornava comoda come punto di incontro e non costava molto. Ricordo in quegli anni di averci festeggiato anche un paio di compleanni. E poi in verità andavamo là perché ad entrambi piaceva molto la cameriera, Emanuela. Anche questi aneddoti potrebbero rientrare in un bel film. La mitologia, già allora desueta, di Opera rock, ha legato me e Marco fin dal primo giorno: ci hanno presentato ad una festa nerd in casa di amici nerd e metà serata l’abbiamo passata a cantare in playback l’intero Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber. Saltellavano e gesticolavamo e ci alternavamo sui vari personaggi, un po’ a caso. Ricordo solo che nelle scene finali io facevo Pilato e lui Gesù.
Chi sono e cosa fanno Daniele, Elvira, Marco, e gli attori ed attrici del progetto? Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni di lavorare nel settore artistico al giorno d’oggi, e quali le vostre in particolare?
Daniele Timpano – Il sistema teatrale non so nel mondo ma in Italia non funziona molto bene ed è quasi tutto ostaggio e complice volenteroso di un sistema di finanziamenti pubblici che lo tiene in vita, a volte con comodità o sfarzo, altre volte ai limiti della sopravvivenza, ed intanto lo in-forma, gli imprime direzioni che rararamente hanno a che fare sia con la qualità e logica artistiche che con logiche di mercato. Un mondo di scambi politici, rendite di posizione, sgomitamenti personali, numeri gonfiati, produzioni teatrali fatte per mantenere l’entità dei propri finanziamenti e gli stipendi dell’apparato ma che non girano nei teatri e muoiono dopo poche repliche; un mondino deprimente di attori neo-diplomati che vengono sotto-pagati e poi sostituiti da altri giovani da sottopagare, di under 35 dimenticati una volta che farli lavorare non produce più numeri ministeriali o punti per progetti nei bandi; un mondaccio in cui un direttore di teatro importante può portare il suo spettacolo a scatola chiusa nei maggiori teatri nazionali ed in cui uno spettacolo che ha vinto 8 Premi Ubu (tutt’ora il più importante premio della critica italiana per il teatro) può morire tranquillamente subito dopo il debutto e chi se ne frega, o in cui una compagnia come la nostra, o come altre prima di noi, per esempio gli storici e stimatissimi Rem & Cap, può lavorare una vita ed accumulare per 20, 30, 40 anni stima e credito ed essere umiliata dal primo cretino messo lì sulla sua poltrona dal Pd o da Fratelli d’Italia – come se il suo lavoro non fosse mai esistito. Il teatro è veramente una cosa molto bella, vitale, viva, quel poco che può riesce anche ad essere eccentrica rispetto a tutto questo mainstream omologante e scintillante, un po’ come il buon vecchio cinema d’autore, se vogliamo (anche quello un po’ in affanno in questi anni di trionfo totale del liberismo anche sul piano dei consumi culturali), ma il pantano in cui vive chi fa teatro è la stessa merda di qualunque altro lavoro, immagino. Musica compresa. Una vita in cui, con molto impegno e un po’ di fortuna, puoi riuscire ora ad alzarti ora ad inabissarti, a volte a galleggiare, qualche volta a cavarti soddisfazioni, sempre qua e là a intermittenza, finché morte o scoramento o stanchezza non ti separino per sempre dalla tua carriera. Senz’altro con Orfeo ci siamo levati una piccola, grandissima, fragile soddisfazione
Parliamo di questo Orfeo: se pensate a una vecchia leggenda destinata ‘a chi ha fatto il classico’ vi troverete invece una attualizzazione straordinaria, in cui l’odissea di Orfeo (che nello spettacolo è interpretato da una bravissima Giulia Sucapane) è quella di tutti noi che proprio oggi non ci riconosciamo nella società capitalistica e consumistica, questa dittatura che nullifica ogni tentativo di coltivare un amore puro (quello tra Orfeo e Euridice appunto), praticare una vera liberazione sessuale (Orfeo è una femmina, come Euridice che però ha i baffi), ambire a una elevazione dello spirito (Orfeo canta divinamente e suona la lira, col distorsore ovviamente – è un vero artista), e giustizia sociale (ehm, credo proprio che Orfeo sia anche comunista, sì ce l’ha tutte!). Lo diceva Paolo Villaggio che Fantozzi vive nella società dei consumi cioè una condizione venduta come un paradiso ma che in realtà è l’inferno. E chi rappresenta La società in questa favola moderna? Niente meno che tutte le gerarchie infernali da Ade, rappresentato nel suo bel divano da capo d’impresa con un doppiopetto (ancorchè improbabile, alla Gabbani) fino al povero Caronte, proletario sfruttato ma senza gli strumenti per opporsi al ‘capo’ (Orfeo tenterà di sobillarlo), fino all’acerrimo nemico di Orfeo, braccio in terra delle malefiche volontà omologatrici, un potentissimo/cattivissimo – glamourosissimo/carismaticissimo satiro che sembra, e veste, come Damiano dei Maneskin.
La cosa che vi chiedo è, se questa ‘allegoria’ è esatta, quanto c’era già nella prima versione di voi 23enni (e complimenti per la chiarezza di visione) o giù di lì e quanto si è aggiunto nelle stesure successive o nel contributo degli attori che 23 anni li hanno adesso. Vale a dire: le nuove generazioni condividono questa rappresentazione del conflitto o ci sono delle istanze più attuali che questi giovani attori e attrici hanno portato alla vostra attenzione?
Daniele Timpano – Assolutamente sì, direi che le nuove generazioni condividono con noi molte cose e che senz’altro hanno riconosciuto le fondamentali istanze presenti nel libretto e nell’opera nel suo complesso, che sono più o meno quelle che hai riconosciuto tu nella tua analisi. Ci fa molto piacere che molto di quello che ci abbiamo messo dentro risulti così immediatamente leggibile per gli spettatori. La stesura originale già conteneva quasi tutto, era soltanto più acerba sul piano linguistico e meno consapevole. Per esempio quella che ora leggo più chiaramente come una suggestione proto-Lbgt, allora poco più che in nuce nella società italiana, era allora un misto tra la suggestione acritica e mal digerita forse del Rocky Horror di Richard ‘O Brien, il testosterone imploso di due ventenni dalla mediocrissima vita sessuale (io ero addirittura vergine quando ho scritto le prime stesure di Orfeo!) e la lettura appassionata di alcuni libri di Wilhelm Reich trovati sulle bancarelle. Le stesure successive hanno aggiunto più consapevolezza, una maggiore cura del dettaglio, hanno mantenuto un altissimo livello di ironia, smussando alcuni toni goliardici più ingenui. Nel libretto originale Orfeo ed Euridice erano due “uomini”, due maschi biologici, diciamo, forse un camuffamento omoerotico della nostra stessa amicizia, non saprei, ed in fondo queste che sto dicendo son cose più da psicoanalista della domenica che da artista. L’apporto, ed in generale il lavoro con gli attori in questo periodo di confronto insieme, ha portato ad una accentuazione delle ambiguità sessuali e di genere, per cui c’è una certa indistinzione, libertà, forse anche fluidità rispetto ai vari ruoli ed a ciò che simboleggiano nell’opera. Per esempio Euridice ed Orfeo sono diventate due “donne”, la prima delle due con vistosi baffoni posticci, Calliope, la madre di Orfeo, è un uomo che veste un femminilissimo abito da sera, mentre il cattivo della storia, Aristeo, che a suo tempo avevo scritto immaginandolo su misura per me come attore, una sorta di incarnazione delle spinte regressive e reazionarie in me, ha assunto sempre più quella caratura glamour e femminea, delicata ma sempre violenta che dicevi.

Ci sono nell’opera rock tanti momenti forti, uno dei più forti è quando alla fine il satiro-Maneskin (interpretato da Federico Gariglio), che ci ha ammaliato con le sue performance rock e il suo rossetto e la sua arringa contro Orfeo (accusandolo di una immoralità e stravaganza che in realtà è solo sua, del satiro) e quasi scende tra il pubblico – nel gran finale – chiamandoci a una scelta: battete le mani se lo volete morto. Lui per primo le batte ferocemente e orgiasticamente. Un grande show quel momento! Con vergogna, dopo un primo momento di esitazione, ho battuto le mani. Eh sì, con gusto liberatorio ho voluto che Orfeo morisse. Perché? Orfeo fa le cose giuste, dice le cose giuste, è un cuore puro, è altruista, Piero Ciampi avrebbe detto: “ha tutte le carte in regola per essere un artista”. Ed in effetti Orfeo veramente lo è. Ma è… noioso… si veste come un impiegato e la sua lira è di seconda mano. Non te lo scoperesti, diciamo. Il satiro sì, lì c’è da divertirsi!
E così mi sono reso conto della seconda grande battaglia sotterranea cui assistiamo nell’opera. Da una parte c’è l’arte, dall’altra l’intrattenimento, lo sballo totale. E L’intrattenimento, è come una bomba H al servizio del malefico ordine sociale contro la sdentata opposta ‘mitraglietta’ dell’arte. Tant’è che Ade in persona dà una last chance a Orfeo (altro grande momento e turning point dell’intera vicenda), che se la caverà se sarà almeno capace di ‘intrattenere’ (quell’omuncolo potrebbe al fine essergli utile). E anche qui c’è una domanda: è questa una tragedia definitiva, oppure … nascosto nell’opera c’è un suggerimento? Come può l’arte competere con la sua indisciplinata e diabolica sorellina? Orfeo non scende a patti ma ci lascia le penne e quindi?
Daniele Timpano – L’analisi è tutta giusta, giustissima. Anche se io personalmente difendo il diritto e dovere di bruciare tutti come Orfeo piuttosto che diventare tutti Aristeo e preferisco un mondo di Orfeo che si masturbano piangendo al buio e spariscono nel nulla ad un mondo colorato fatto di Aristei trionfanti da scopare o da cui farsi scopare. Io credo che il lavoro, anche nella sua ingenuità originaria, sia l’intuizione senza orizzonte di una cristologia senza resurrezione. Orfeo muore e basta. Non risorge. Era, temo, esattamente quello che, da giovani, sentivamo in arrivo per il futuro. Un mondo che si chiudeva su di noi ed in cui il nostro amore per la complessità in arte (per la dodecafonia ed il prog rock come per il melodramma secentesco) o la nostra speranza di un mondo trasformabile in qualcosa che non fosse deludente, mercificato e liberista (per esempio con il comunismo) già si vedevano come residuali e votate alla sconfitta. Credo che vivere a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e la sconfitta della Lotta armata, la ristrutturazione del Capitalismo, Reagan e la Thatcher, il trionfo del postmodernismo e la sua alleanza con il mito del crollo delle ideologie nel 1989 ci abbiano dato il colpo di grazia ancora prima di aprire le ali. Io ho sempre fatto e fatto, ed anche Elvira, ed anche Marco, abbiamo cercato tutta la vita di fare e fare il nostro meglio, di tenere la brace avvampante sotto la cenere per accendere ogni tanto qualcuno o qualcosa, ma tutto all’ombra, per quanto mi riguarda, di una sconfitta fatale ormai interiorizzata come unico destino.
Nell’opera ci sono altri momenti bellissimi, visivamente ed emotivamente: l’ipnotico e un po’ scary ballo delle maschere all’inizio – assolutamente incredibile! I gesti surreali e buffi, o comici, tipo quando Caronte lancia gli occhiali all’indietro e un dannato si tuffa a prenderli, o chi apre un ombrello, chi suda il salario (sembra la canzone di Rino Gaetano). Il fatto che Maurizi, che suona gli strumenti, nel mentre recita anche, parteggiando SIA per Orfeo SIA per le schiere infernali, ed in genere per chi al momento ha l’occhio di bue puntato addosso! Il ballo dei punk, i tacchi a zeppa dei satiri in luogo degli zoccoli. Una allegra confusione di movimenti scenici e il caleidoscopio kitsch di costumi. La pubblicità canterina dei coloratissimi demoni (o dannati, o assieme) che vende l’inferno come un club vacanze – e torniamo così al discorso dell’intrattenimento…
Elvira Frosini – Devo dire che lavorare ad Orfeo è stata un’esperienza esaltante e totalizzante. Faccio da molto tempo regia, anche insieme a Daniele, ma in questo caso è stata una vera sfida. Abbiamo messo in carne un’Opera. Era da molto che volevo confrontarmi con un’opera musicale, e questa è stata l’occasione giusta. L’abbiamo affrontato con rigore e divertimento, e soprattutto abbiamo avuto la fortuna di avere degli interpreti fortissimi. Le attrici e gli attori sono stati formidabili e determinati, si sono impegnati in un’impresa che a pensarci a freddo sembrava impossibile. E invece ce l’hanno fatta, e molto molto bene. Abbiamo lavorato molto sul corpo e sullo spazio, ogni movimento è stato definito e scritto e bilanciato. Mentre lo costruivamo, avevo chiaro in mente alcune immagini e suggestioni spaziali, costruzioni dei corpi e dello spazio. L’idea era di arrivare a qualcosa che attraverso la musica e il canto andasse oltre, incarnasse, ma anche stesse ad una giusta distanza critica dell’attore dai suoi “personaggi”, sottolineando anche una cifra ironica che sottende l’intera opera. Abbiamo lavorato al millimetro, nel senso che ogni cosa, ogni gesto, intenzione, sguardo, doveva essere soppesato, scelto e fissato. Le attrici e gli attori sono stati straordinariamente creativi, proponendo, inventando, cercando insieme a noi. Insomma è stato un lavoro intensissimo, molto impegnativo, ma anche esaltante. Ci siamo divertiti anche molto insieme, e questo devo dire è il modo di lavorare verso cui tendo: rigoroso e divertito. Sono attrici e attori bravissimi, consapevoli, coraggiosi. Fare teatro, anche un’opera, è essere consapevoli che ogni tuo gesto, sguardo, il tuo corpo, tutto diventa un segno preciso che costruisce e cambia l’universo. E loro c’erano in pieno. Davvero speriamo fortissimamente di poter continuare a dare vita a Orfeo. Lo merita il testo, lo merita la partitura, lo meritano la regia, le luci ed il lavoro della sartoria del teatro di Roma e soprattutto lo meritano questi attori.
Marzia Furlan – Il lavoro è stato sicuramente complesso sia nelle prime fasi di approccio ai brani, sia a concertare -per la prima volta, ci tengo a specificarlo- qualcosa che era rimasto nelle menti di Daniele e Marco per così tanti anni. Mi sento di dare gran parte di questo merito ad Elvira, che ha saputo gestire alla perfezione una ventina di cervelli scalmanati con una lucidità che personalmente le invidio tanto!
Gilda Rinaldi Bertanza – Lavorare con Elvira, Daniele e Marco è stato tremendamente eccezionale, mi sono sentita subito in una corsa comune, sembrava di conoscersi da una vita nonostante fosse la mia prima collaborazione con loro. Non sono sfuggite alle prove entusiasmi, screzi, mal comuni e divertimento, proprio come in una compagnia che lavora da tempo insieme. Eravamo tutti dedicati all’Opera, immersi in un grande ascolto verso gli altri e la scena. Proposte di idee e suggestioni che partivano da ognuno di noi e da loro sono state tutte accolte con interesse e partecipazione.
Entrare nel personaggio – nel mio caso – nei vari personaggi (perché sì, 17 attori sono assurdamente pochi per questo ambizioso lavoro) è stato facile e intuitivo, il testo parlava chiaro, alla fine di una prima lettura e un ascolto delle tracce musicali già mi si figurava in testa lo stile folle e appariscente dello spettacolo che stava per costruirsi. Un affiatatissimo viaggio che ci ha condotti verso qualcosa di bello, ormai possiamo dirlo, perché non siamo più solo noi a dirlo. Il pubblico ha restituito dei feedback meravigliati e incoraggianti per proseguire questo lavoro. La vita straripava dalle prove e dalla scena, è avvenuta la magia? Forse solo un bellissimo incontro tra persone e senso artistico, e dire “solo”, ovviamente, è tutt’altro che onesto.
Marzia Furlan – Credo che abbiamo avuto in realtà molta libertà nella creazione dei nostri personaggi, almeno quelli di contorno. Parecchi di noi si sono sbizzarriti sulla base di quello che accadeva in scena, o anche solo sulle cretinate che avvenivano dietro le quinte tra di noi. Evidentemente il clima altamente creativo ha stimolato una sorta di “cazzeggio consapevole” 🙂 Personalmente mi sono lasciata contagiare dai miei compagni di scena, ormai completamente immersi nell’atmosfera quasi psichedelica del lavoro!
Gilda Rinaldi Bertanza – sono felice che i dettagli siano stati goduti, è stato intrigante, anche nelle poche prove a disposizione, e con un lavoro corale così impegnativo, trovare il tempo per dedicarsi alle minuzie, che venivano fuori continuamente… forse perché stavamo sposando il testo, il linguaggio, le azioni della scena. Da dannata, non nella vita, per fortuna, ma in Orfeo, sempre per fortuna, ho adorato particolarmente il mio habitat infernale da club vacanziero: occhiale da sole e completo shocking non so come, ma so perché rappresentavano perfettamente un inferno dal quale non si vuole andar via, né nel quale, in fondo, si è soddisfatti e gratificati. Una vita costruita sulla forma, dove tutto, solo in apparenza, è bello e colorato.

In generale, volevo chiedere a Elvira, e Daniele e Marco come è stato lavorare con questi giovani attori, stante che per me il risultato è eccezionale: un’energia come se fossi andato a teatro per la prima volta. Ad ogni modo mi piacerebbe sapere anche il viceversa: come si sono trovati gli attori a lavorare con questi tre schiavisti e che approccio hanno ‘adottato’ per il loro personaggio, e in genere sapere che tipo di esperienza è stata… Faccio assolutamente i complimenti a tutti per la vostra capacità di memorizzare e cantare canzoni così ‘peculiarmente intonate’ come quelle di Marco: forse solo da da mio nonno, che era un compositore di musica classica nel 1950 quando andavano di moda i semitoni, ho sentito delle modulazioni così strambe!
Emanuele Baldoni (che nello spettacolo interpreta Caronte) – La strategia adottata, l’approccio, mi verrebbe da dire, è stato quello di tuffarsi a capofitto in questo progetto come fossi il frontman di una band che si lancia sul pubblico, con il rischio di spaccarsi qualche costola ma soprattutto con la felicità di chi ha trovato il coraggio di buttarsi. Ecco. Il coraggio è stato sicuramente stimolato fin dal primo ascolto delle tracce dell’opera. Qualcosa di studiato e di – finalmente – in controtendenza, che non poteva non catturare l’interesse di un attore/cantante cui viene presentata una sfida di questa “difficoltà”… sia approcciando al testo che alla progressione e stupenda confusione di note. E quel pubblico sono stati per primi Daniele, Marco, Elvira: un cerbero (a proposito di guardia degli inferi) a tre teste ma con l’energia di 100 persone, con loro dove ti butti ti butti bene. E se nel tuffo si può migliorare qualcosa loro tre hanno una capacità emotiva, una competenza sociale riguardo i giovani artisti, tale che riescono senza problemi a comunicare e a calibrare il tiro, con rispetto e passione.
E veniamo alla musica. Marco! Davvero complimenti, perché ce n’è per tutti i gusti: pop-punk-progressive-rock ed anche la famigerata classica dodecafonica, che è assolutamente un ardimento anche per un’opera rock! In generale sembra di assistere a una ‘musica della realtà parallela’, il che è molto appropriato per un viaggio agli inferi! Voglio sapere qual è stata la prima frase e canzone e come sei andato avanti a scrivere musica per – complessivamente – un’ora e mezzo di seguito, senza un vero recitativo, e senza la tregua di una pausa parlata! E voglio anche sapere come si fa a far funzionare assieme in modo così potente e coeso riferimenti culturali così diversi. E, visto che ci siamo: ma dove hai imparato a scrivere per tutti quegli strumenti? Ad ogni modo, e ancora una volta, avendo ascoltato prima la vecchia registrazione sola – il demo che ha circolato per anni registrato con la tua sola voce – e poi visto la fisicità e la potenza della messa in scena con tutti che cantano (e escono di scena per suonare basso o chitarra e poi rientrano nel personaggio) mi ripeto che la scrittura di un’opera rock richiede una capacità immaginifica verso il risultato finale che non è quella del semplice songwriter o compositore… Ed insomma, ti faccio ancora i complimenti!
Marco Maurizi – Come ha spiegato Daniele l’opera nasce da una nostra esigenza espressiva collocata in un certo momento storico-politico ma si apre in modo direi paranoico-critico ad un futuro apocalittico a venire che per noi segnava la naturale prosecuzione del male sociale e culturale in cui ci trovavamo invischiati: il neoliberismo postmoderno! Sentivamo che dietro tutto lo strombazzare di una cultura (e di una musica) orizzontale, aperta, democratica, solidale, c’era, appunto, una marcetta imperiale che serrava i ranghi e preparava un futuro cupo in cui ogni alterità, ogni disarmonia, ogni reale rottura erano espunte sul piano simbolico e rese impotenti e subalterne. E così abbiamo scritto un’opera che mentre sembra all’apparenza postmoderna (una miscela caleidoscopica di generi e sottogeneri sullo stesso piano alla John Zorn) in realtà è quanto di più modernista e vetero-adorniano ci possa essere: una meticolosa costruzione melodico-armonico-ritmica che assomiglia ad un collage dadaista-zappiano di spazzatura culturale e musica colta. L’idea era di mettere in scena la musica stessa (Orfeo) in tutte le sue forme e con tutte le sue contraddizioni. Orfeo è sia il personaggio che l’opera, i due si rimandano a vicenda e creano questo momento meta-testuale che è parte stessa del senso musicale dell’opera. Il mio inserimento in scena come autore, idea geniale di Elvira e Daniele, rende ancora più evidente questo aspetto. Per la scrittura musicale ho scelto di partire da una serie dodecafonica che potesse tradursi (alla Alban Berg, si parva licet) in tre accordi tonali (Lab6/9, Mi6/9, Do6/9) che rappresentano il tema principale di Orfeo. La prima aria di Orfeo (“Canto queste note”) è stata anche la prima cosa che abbiamo scritto. Nel musicarla ho provato a mettere insieme diversi momenti: scrittura classica, esplosioni rock, con venature prog. Qui appaiono molti materiali tematici e armonici che ho usato nel resto dell’opera, è un po’ una sorta di gemmazione iniziale. Ad esempio l’uso della scala per toni interi e gli accordi sospesi di quinta aumentata che fa da raccordo e che uso anche nella canzone di Euridice viene da qui. Questa idea di “sospensione” armonica c’è un po’ dappertutto e forse riproduce anche quella natura indecisa e fastidiosa di Orfeo cui accennavi tu. A questo proposito devo assolutamente ringraziare Giulia Sucapane perché è riuscita con maestria e intelligenza a rendere tutte le sfumature del personaggio e anche altre cui non avevo pensato. L’idea ad esempio di far cantare il brano iniziale di Orfeo in modo “lirico” (creando ancora più stridore con il ritornello rock) è venuta durante le prove approfittando della sua bravura e disinvoltura nel passare da un genere all’altro. C’è stata subito sintonia tra noi, d’altronde ho scoperto subito che era una beatlesiana (e McCartneyana) di ferro come me!
Per comporre ho lavorato con Daniele a definire il “carattere musicale” dei diversi personaggi e dei diversi “ambienti” o momenti dello spettacolo e ho cercato di usare sempre lo stesso materiale musicale per dare un senso di continuità, che spesso ha carattere allucinatorio, perché i temi vengono plasmati in modo abbastanza libero. Ad esempio c’è una cellula tematica che appare all’inizio, nella danza degli animali, che è presente ovunque, risorge continuamente più come un’idea fissa che come un Leitmotiv. Oppure le scale cromatiche ascendenti e discendenti che appaiono all’inferno quando cantano Caronte, Ade, Persefone e Aristeo durante il processo. Che poi è una citazione letterale sia di Echoes dei Pink Floyd che del Fantasma dell’opera di Andrew Lloyd Webber. Ecco, un altro aspetto criptico e divertente è il citazionismo, che è una presa in giro del postmoderno e una sua negazione. Ad esempio, non è possibile dire se quei passaggi cromatici vengono più dai Pink Floyd o da Webber perché sono praticamente identici, quindi, come sempre accade in musica, l’idea musicale non è di nessuno, esiste e pre-esiste al suo uso, è come se noi fossimo intermediari di un soggetto, la musica, che vive attraverso di noi ma in modo indipendente, l’autore/creatore è un’illusione. Ma contra il postmoderno questo non significa granché perché poi il punto è l’uso che fai in modo puntuale e analitico di quella idea. Una cosa con cui mi sono divertito è stato piazzare citazioni letterali o suggestive qui e là: ad esempio “Addio Selve”, il momento finale del primo quadro è ovviamente il finale languido di The End da Abbey Road. Ma poi questo stesso tema “rubato” diventa materiale musicale che ho rielaborato in altre parti dell’opera, ad esempio nella stessa canzone di Euridice (che ha quindi più di un legame interno con la canzone di Orfeo) oppure quando all’inferno Orfeo si rivolge a Caronte parlando di Euridice. La cosa che mi pare più riuscita dell’operazione è che tutto questo avviene senza forzature, nel senso che la cervelloticità del tutto mi pare si stemperi in un flusso che si lascia godere di per sé. Sono sempre contento di poter giustificare, credo, tutto quello che accade nell’opera e mostrare che non è arbitrario. Ma sono ancora più contento che se c’è della bellezza in quello che abbiamo fatto deriva dall’essere stati in grado, come diceva Berg, di non fare vedere la colla e i chiodi.
Parimenti sono impressionato dal libretto di Daniele, l’equivalente di ben 3 album, tutto cantato! Come ti sei trovato rispetto alla scrittura in prosa/teatrale, e che ‘strategia’ metrica hai prediletto nella stesura? E anche a te chiedo, se mai ha senso, come si ‘impara’ a scrivere il libretto di un’opera rock e a che punti cardinali ci si può appigliare? E infine a tutti e due, come si ‘coordinano’ il librettista e il compositore? Viene prima il testo o la musica? O avete fatto come Mogol / Battisti ‘a turno’? Ps è lecito litigare tra librettista e compositore? A entrambi chiedo: in un certo senso è una ‘esperienza’ riprendere un’opera che si è scritta da ragazzi in età adulta. Di quale pezzo vi siete detti ‘ecco qui ho spaccato’ oppure viceversa lo avete trovato magari ingenuo?
Daniele Timpano – Beh io appunto posso rispondere solo per la mia parte di lavoro. Il libretto è mio ma è stato assolutamente concepito insieme in ogni dettaglio, ed in qualche modo questo vale anche per le scelte musicali, mai senza riscontro coerente nel libretto. Che Calliope ed Apollo fossero l’una dodecafonica e l’altro in improvvisazione vocale, che l’una richiamasse Schoenberg e l’altro Demetrio Stratos, sono scelte fatte insieme. Tutto il discorso di senso sul ruolo e destino dell’artista ed il modo di rappresentare l’Inferno sono decisioni prese insieme. Ci siamo confrontati, suggestionati, influenzati a vicenda. Non ci sono mai stati conflitti. Non ho mai imparato non solo a scrivere un libretto rock ma proprio a scrivere versi in generale. Il libretto, soprattutto nella sua prima stesura, poi progressivamente messa in ordine, è stato scritto tutto ‘ad orecchio’ sulla suggestione di una fase di studio lunghissima in cui sono rientrati i libretti di Rinuccini e Striggio rispettivamente per Peri e Monteverdi, le suggestioni degli altri Orfei del melodramma, da Stefano Landi e Sartorio a Gluck, sia ovviamente dall’amore per il testo dell’Orfeo 9 di Tito Schipa Jr (qualcosa della scena del matrimonio mancato nella nostra opera e della stessa figura di Aristeo sono senz’altro debitori dell’Opera pop di Schipa Jr). A quel tempo ascoltavo e leggevo praticamente di tutto, ed anche tutte le opere rock ed anche parecchi musical, che mi piacevano questi ultimi assai meno (troppo già svenduti all’intrattenimento), di cui consumavo e imparavo a memoria i libretti. Cercavo una lingua che fosse sia aulica che umoristica, che fosse piena di assonanze e che fosse asimmetrica più che metrica. Per anni, a rileggere ogni tanto il libretto, vedevo più i difetti dei pregi, ma devo ammettere che anche le asimmetrie del mio testo, e persino alcune brutte rime in “ammo” o “ata” o “ava”, hanno contribuito alle asimmetrie ed alle specificità della musica. Per me è esaltante sentire i tre pastori punk (che sono tre come nell’Orfeo di Monteverdi) che cantano quei versi assurdi e così poco comprensibili. Fa parte del sapore personalissimo dell’opera. Di alcune parti particolarmente poco riuscite (per esempio il testo della reprise della canzone di Euridice all’Inferno, che era un po’ banale, e di alcune accuse nel processo finale ad Orfeo, che erano un poco ermetiche) ci siamo occupati nell’ultima stesura del copione e della partitura, che risale ai tempi della pandemia.
Io ringrazio tantissimo Daniele, Marco, Elvira, tutti gli attori per aver risposto a tutte queste domande, ma soprattutto, soprattutto, li ringrazio per l’entusiasmo e l’emozione e la occasione che ci regalano di assistere al loro ripeto magico, incredibile spettacolo, Orfeo Opera Rock. Ora, per quanto io creda nel valore dell’impresa irripetuta, mi sembra davvero uno spreco che questo spettacolo oltre che unico sia anche unicamente rappresentato, e quindi spero che ci siano altre date, che se ne parli in giro come anche qui facciamo e faremo!
Daniele Timpano – Davvero è quello che vorremmo anche noi. Non sappiamo se sarà possibile avere continuità produttiva col Teatro di Roma. Forse no, per via soprattutto della quantità di persone in scena e di tutto quello che ancora bisognerebbe investire – per esempio dei musicisti dal vivo ma anche un lavoro più impeccabile sulla fonica – per farne una cosa veramente perfetta da un punto di vista della cura dell’allestimento e della resa. Noi però crediamo molto nel lavoro e siamo orgogliosi anche della buonissima figura che fanno tutti gli attori, che come giustamente hai sottolineato hanno dato tutto il loro contributo creativo e di senso alla riuscita dell’opera. Cercheremo di dare ad Orfeo qualche continuità. Anzitutto vorremmo intanto incidere un album registrato per bene e magari curare una pubblicazione. Ne stiamo parlando proprio in questi giorni con le edizioni Kappabit, che hanno visto e ascoltato il lavoro e ne sono rimasti entusiasmati. Speriamo presto di poter dare al mondo qualche buona notizia in questo senso!
W (in tutti i sensi) Orfeo, Opera Rock!!!!