Uno tutti e 192 milioni, di Bianca Nogara Notarianni

La natura delle cose va rincorsa, portata allo sfinimento, messa in ceppi e resa schiava, diceva Francis Bacon[1], uno dei padri della rivoluzione scientifica. Lo si deve farne per carpirne i segreti, che lei altrimenti non rivelerebbe – lo scienziato deve riuscire a strappare alle cose della natura il loro segreto, fosse anche con la forza e la tortura, proprio come si farebbe con una strega: processi, questi, che Francis Bacon ben conosceva. Non ci stupiremo, quindi, quando l’immaginario abitante della sua Nova Atlantide, città-utopia da Bacon immaginata in un libretto del 1621, ci dirà che da noi, magnifico e progressivo Stato in cui la scienza è ormai potere sovrano, macro e microscopico – da noi «abbiamo parchi e recinti con ogni sorta di animali e di uccelli, dei quali non ci serviamo soltanto per far mostra della loro rarità, ma anche e soprattutto per dissezione ed esperimenti, e con ciò siamo in grado di trarre lumi su ciò che si può operare sul corpo dell’uomo»[2].

            Quando usiamo e abusiamo delle bestie nei laboratori, negli stabulari, quando aizziamo contro le cose della natura e contro la natura delle cose la nostra ferocia sperimentale, in nome di cosa lo facciamo? Ipotizzava Baudrillard[3] che il bisturi non cerca, quando sega le carni e i tendini, alcun oggetto se non un principio di oggettività che la scienza in realtà non possiede. Una certezza che possa esser salda – perché saldata, prima, alla tavola e al banco d’imputazione. Come inquisitori, allora, cerchiamo nel corpo degli animali, frughiamo con mani e coltelli ed elettrodi per poter infine arrivare al cuore della questione e bandire il principio d’incertezza, come allora si cercava, attraverso la confessione estorta, di bandire un principio del male. Saremmo quindi in grado di trarre lumi su ciò che si può operare sul corpo dell’uomo? La sperimentazione, ci dice piuttosto Baudrillard, non fonda una comprensibilità, non dà risposta. Sulla propria affidabilità, sui propri risultati non risponde, un po’ come si è sempre detto dell’Animale – non parla quando anche interpellata, si dice di questa creazione artificiale e universale, alla quale costantemente sacrifichiamo le singole vite, che sono singolari. Che sono dei corpi. E forse è per questo, per questa recalcitranza alla parola definitiva, alla conferma o alla smentita, che questa insensatezza va ripetuta: ritentata, effettuata e ancora ancora. Sperimentata, ovunque e dappertutto.           
Sono 192 i milioni di animali (che possiamo immaginare: non immagino, però, che ce ne sfuggano altri) su cui si sperimenta ogni anno[4]. Sono i risultati dello studio più accurato che abbiamo, ci dicono le sue autrici, Katy Taylor e Laura Rodrigo Alvarez, perché buona parte di questi processi avvengono nell’ombra, non dichiarati. Sono 192 milioni – erano 192 milioni nel 2019, anno in cui lo studio è stato pubblicato, ed erano 115 milioni nel 2005, altro anno in cui la sperimentazione era stata condotta a registro. La natura delle cose va rincorsa, braccata, esaurita – nei 14 anni che separano i due studi siamo riusciti a sperimentare questa formula su altri settantasette milioni di corpi. Corpi nuovi, corpi singoli, corpi di animali. Quanti potrebbero essere oggi, oggi che dal 2019 sono trascorsi altri 6 anni? Il pensiero un po’ trema, davanti a un calcolo che ci viene presentato, ripetutamente, ovunque e dappertutto, come a somma zero.

Eppure il tasso di fallimento dei farmaci testati sugli animali è del 92%. Numero che ci racconta di un’insufficienza significativa di simili test farmacologici, la cui causa è da rintracciare in differenze specie-specifiche – abbiamo parchi e recinti con ogni sorta di animali e uccelli, nella nostra Nova Atlantide, ma non siamo, in realtà, in grado di trarre lumi su ciò che si può operare sul corpo dell’uomo. Spinoza ci diceva che non è importante cosa un corpo è, quali siano le sue generalità, ma cosa un corpo fa – reagire alle sostanze in modi diversi, per esempio. Urlare il dolore in modi più o meno violenti. Sapersi sottrarre al dominio, trovare la via di fuga – o saper piuttosto rincorrere, ridurre allo sfinimento, mettere in ceppi e rendere schiavi.

            Che poi, a veder bene, neanche la ricerca su volontari umani – la grazia concessa, la libertà di scelta, anch’essa risulta specie-specifica: non è valida per quelle vite che abitano menti difformi, corpi non bipedi, né implumi – è mai probante; gli studi raccontano che è solo l’immissione in commercio ad appianare i dubbi sulla corretta amministrazione, a mostrare le criticità del farmaco, perché è finalmente sperimentazione non più sperimentale. Perché non è più il rappresentante d’una specie a esser testato – una cavia che possa, metonimia di una comunità, dirci ora ciò che altri corpi potranno fare, mostrare come gli altri corpi potranno perciò reagire –, ma è la comunità stessa, diffratta nelle sue differenze di genere, di età, d’etnia. D’inclinazione, di temperamento. Animali al singolare – altra grazia concessa per via specie-specifica.

            È allora facile tornare con la mente a quel giorno del 1681[5], raccontato negli annali della storia della scienza medica e fisiopatologica, in cui un enorme elefante, ormai morto, veniva condotto al cospetto del sovrano Luigi il Grande, del Re Sole – centro d’irradiazione del potere europeo, corpo altrettanto mastodontico. Ecco, l’elefante veniva condotto, manifestazione spettacolare, per una dissezione che fosse anche cerimonia: un’operazione, sì, ma di conoscenza. Conoscenza reale: la più grande, la migliore, possibile, come quella che si dispiega sulla materia che non può più reagire. Ecco, allora, il grandissimo animale da un lato, e il grandissimo sovrano dall’altro – una perfetta lezione d’anatomia, una violenza sul corpo già morto per vedere, per sapere, la natura delle cose condotta infine in ceppi, ormai esausta. Davanti a questa scena viene da pensare che se anche oggi il corpo è vivo, se il gesto è vivisezione, non per questo l’Animale è diverso dal corpo inerte di allora. Viene da pensare che sia questo l’unico spazio, l’unica posa, alla natura delle cose concessa. È difficile credere diversamente quando si legge dell’Articolo 14, A di Anestesia, che bandisce procedure che non prevedano la somministrazione di analgesici, a meno che non sia l’analgesico il preparato che si sta sperimentando. A meno che l’anestesia non possa essere più traumatica (!) dell’operazione stessa. A meno che, ancora, tutto ciò non risulti incompatibile col buon esito dell’operazione.            

Ed è difficile credere che l’Animale non sia comunque, intrinsecamente, ontologicamente, già morto, per lo sguardo della scienza, già sempre morto sotto il bisturi che ne saggia i legamenti, i muscoli pur guizzanti, come lo era l’elefante in quella cerimonia, nel 1681, che è stata per la scienza inaugurale. La natura delle cose viene anche oggi condotta in ceppi, resa schiava, sfinita – e deve effettivamente essere, ai nostri occhi, solo materia ormai esausta, ed esalare assieme alla confessione d’oggettività anche il suo ultimo respiro, altrimenti non si potrebbe spiegare come mai sia possibile una classificazione della gravità delle procedure che va dal punto uno, inflizione di stati patofisiologici gravi, al punto dieci, possibilità di somministrare sostanze che eliminino la capacità di mostrare dolore – passando per il punto due, induzione di tumori, e per il punto sette, isolamento prolungato di animali socievoli. L’Animale dev’essere, in questa Nova Atlantide in cui ci ritroviamo ad abitare, già intrinsecamente bestia. E allora forse la sperimentazione ha vinto – ha estratto dai corpi degli animali non tanto un sapere sull’umano, quello no (sarebbe mai possibile? La differenza di potere è così tanta che questi due corpi non possono davvero essere d’una stessa schiatta). Ne ha estratto la bestialità stessa come principio di incertezza. La scienza non è mai sicura della propria oggettività, e quindi, come ne diceva il padre, deve braccare, ammaestrare, ingabbiare, inchiodare al tavolo di laboratorio tutto quel che le sfugge. Tutto quel che non è oggettivabile. Che poi è la natura delle cose. Ecco, per sapere cosa un corpo è dobbiamo estrarne e sottrarne, prima, tutto quel che il corpo può fare – soffrire, gioire, giocare. Anzitutto fuggire. La natura delle cose va rincorsa, portata allo sfinimento, messa in ceppi e resa schiava. Solo allora se ne può carpire il segreto, che è la vita, così come accade.




[1] C. Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica,  Editrice Bibliografica 2022, p. 181 dell’edizione ebook.

[2] Francis Bacon, The New Atlantis, Printed for John Crooke at the Signe of the Ship of St. Paul’s Church, 1660, p- 62

[3] cfr. Jean Baudrillard, Territorio e metamorfosi, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Greco Editore, 2021, pp. 111-126.

[4] Ringrazio per questi e altri dati OSA, Oltre la Sperimentazione Animale. cfr. https://www.oltrelasperimentazioneanimale.eu/chi-siamo/

[5] cfr. Jacques Derrida, La bestia e il sovrano, vol. I, Jaca Book, 2009, pp. 342-343.

PER IL NOSTRO BENE – performance sulla sperimentazione di animali vivi.

Parole e voce : teodora mastrototaro
corpo danza : stefano di martino

“Per il nostro bene è una performance ibrida tra danza e drammaturgia verbale
(poesia e monologo teatrale) che si muove intorno al tema della sperimentazione su
animali vivi. La sperimentazione è necessaria? Sacrificare animali è necessario?
Sono queste le domande iniziali che hanno smosso corpo e parole, movimento e
dolore. La composizione coreografica si sviluppa a partire dai gesti stereotipati degli
animali non umani in cattività, che definiscono precisamente i rapporti di potere
animale umano/animale non umano all’interno dell’esperienza mortifera e
degradante della sperimentazione scientifica. I gesti si sviluppano tra i diversi
momenti di scrittura andando così a comporre un meccanismo dinamico in cui il
soggetto di riferimento è l’animale non umano sopraffatto da logiche di sicurezza,
benessere, ricerca e guadagno. Meccanismo che coinvolge lo sguardo delle spettatrici
e degli spettatori che si ritroveranno, all’improvviso, in una sorta di reality stile
“masterschef”, nella grottesca pratica condivisa dove ogni distinzione tra reale e
irreale viene “vivisezionata”, contro ogni politica dello sfruttamento.