CAPITOLO III
Fermo davanti al passaggio a livello, in aperta campagna, aspettava che passasse il treno per vedere la sbarra sollevarsi. Il campanello suonava ripetitivo e uguale in loop, ma del treno neppure l’ombra. Decise che il suono arrivava da un’altra dimensione e così si svegliò. Il cucchiaino nella tazzina emetteva un suono simile e realizzò che Antoinette, la sua coinquilina, stava facendo colazione in cucina. Scese dal letto a soppalco che occupava tutta la stanza e si rifugiò sotto di esso, dove aveva il computer portatile. Lo accese e cazzeggiò un po’ su internet, in attesa che lei andasse in bagno, per non incontrarla mentre si preparava il caffè. Non avevano mai niente da dirsi, se non le quotidia riguardanti la casa, tipo il pagamento del condominio o qualche bolletta e, se rimanevano nello stesso spazio un po’ di più, lei passava tutto il tempo a sbadigliare ipocritamente. Da due anni ripetevano la stessa pantomima tutte le mattine. Poi lei usciva per andare al lavoro e lui si riappropriava della sua dimora, anche se in parte, perché di là, nella stanza di lei, dormiva il suo uomo. O meglio, il suo ex amico Giuliano. Si era buttato a peso morto in quella casa, nonostante le raccomandazioni di Lorenzo in fase di contratto con Antoinette. Stavano già insieme, anche se lui non lo voleva far sapere a nessuno e Lorenzo disse ad Antoinette, che non era per Giuliano, ma lui in casa con una coppia non avrebbe mai abitato. Le coppie, diceva, si appropriano di metri quadrati in modo vorace, ne sono assetate, hanno una sorta di horror vacui per gli spazi comuni. Ovvio, Giuliano poteva venire ogni volta che avesse voluto, ma parcheggiarsi in casa, quello no, ed era un punto irrinunciabile per lui. Neanche a dirlo, Giuliano si piazzò lì dal primo giorno. Prima con la scusa di dover fare lavoretti di arredamento nella stanza di Antoinette, che nel frattempo, felice perché il suo uomo rimaneva accanto a lei, continuava a comprare moduli di Ikea, poi perché con la scusa che abitava fuori Roma e aveva soltanto lo scooter per venire a trovarla, smuoveva in Lorenzo quel senso di comprensione che si accorda volentieri agli amici. La madre di Antoinette, intanto, aveva venduto un rudere in campagna, la casa dei propri genitori, e non voleva buttare il vecchio mobilio. Valore affettivo, le disse Antoinette, mentre sua madre fece la proposta di pagare un terzo dell’ affitto, in cambio dell’ accoglienza di quell’antiquame. Non era proprio convinto di diventare il magazziniere della madre di Antoinette, ma la cosa era già fatta. Arrivò per prima la cucina, anche carina per certi versi. Il tavolo col piano di marmo e la credenza verde pastello, degli anni cinquanta, che cozzava terribilmente con gli utensili svedesi. Antoinette, pensò bene di comprare un set di bicchieri a calice color vinaccio, ricamati a rilievo con foglie di acanto e pampini di uva. Quando Lorenzo invitò i suoi amici a vedere la nuova abitazione era terrorizzato all’ idea che potessero chiedergli un bicchiere d’acqua. Così, per l’eventualità, si era comprato un bel pacco di bicchieri di carta. Si sentiva tranquillo. Ma Antoinette, approfittando del ripiano con vetri scorrevoli, che la credenza possedeva, vi aveva posizionato in bella mostra la sua fantastica stoviglieria.
Poi arrivarono con un furgoncino stracolmo tutti i mobili del salotto, che avrebbe dovuto essere lo spazio in comune. Quel vano vuoto era occupato per tutta una parete dalle chitarre di Lorenzo e amplificatori d’epoca e c’era soltanto un divano, con uno straccio verde buttato sopra a coprire la sua vetustà. Un posto bellissimo per lui. Il paradiso per chi vuole rilassarsi e incontrare pochi amici alla volta. L’unica cosa che avrebbe voluto mettere lì dentro era il suo tappeto kilim verde muschio.
Non fece in tempo. Una serie di mobili e sedie color noce scuro, lucidi e privi di stile, in una sola giornata trasformarono quell’open space in una sagrestia. Anche una sua amica simpatica, vedendo le quattro sedie di legno scuro, allineate contro la parete antistante alla libreria, disse:
«Ma che fate la sera qui? Recitate il rosario?»
Cominciò a subodorare che qualcosa non andava, quando vide apparire il famoso porta televisore con rotelle, il classico suppellettile che si trovava a quei tempi nelle case di tutti gli studenti fuori sede. Ma lui, in fondo, non era mai in casa e anche se avesse voluto contrastare quell’ abominio, non avrebbe potuto: orari diversi. La prima volta che incontrò Laura dormì fuori casa per tre giorni. Al suo ritorno, aprì la porta d’ingresso e nel salone, – orrore!- la coppietta abbracciata che guardava la tivù.
Furono accoglienti e carini come se fosse il loro figlio adottivo. Volevano conversare con lui, gli offrirono del vino. Lui filò dritto dritto a chiudersi nella propria camera, adducendo un forte mal di testa come scusa. Il suo bel salotto era fottuto per sempre. Decise che il dialogo con loro sarebbe stato ridotto a pochissime frasi di servizio.

Passò qualche giorno, non voleva parlare con Giuliano, non voleva riconoscergli alcun ruolo in quella casa, così aspettò la prima occasione di beccare Antoinette. La colse una mattina che faceva colazione con indosso i suoi occhiali spessi, persi nel vuoto, e le presentò le sue rimostranze: quel televisore, per favore, fuori dal salotto. Lei rispose candidamente e anche pesantemente sorpresa:
«Ma Giuliano di notte non dorme e fuma il sigaro… L’odore è insopportabile…»
Lorenzo rimase senza parole, inarcò le sopracciglia e allungò il mento annuendo sconsolato. Mollò lì la faccenda, anche perché a casa non c’era mai e quindi pensava fosse normale che chi la vive occupi più spazio possibile. I giorni passavano e Giuliano lo trovava sdraiato sul divano a tutte le ore. Rientrava a mezzanotte, ciao Lore’; alle due di notte, ciao Lore’; alle sei di mattina, ciao Lore’. La casa puzzava terribilmente di calzini e sigaro, ma andò avanti e continuò a fare il bravo figlio adottivo, ripromettendosi ogni giorno di parlargli.
Il bar sotto casa era uno dei posti più frequentati di San Lorenzo, l’ aperitivo costava pochissimo e i prezzi degli alcolici erano talmente bassi da attirare orde di studenti vogliosi di sballo. Tutta quella gente era già di per sé, non fosse altro che per quantità, un serio problema di ordine pubblico. Ma nessuno voleva la polizia a San Lorenzo e chi la chiamava era un infame, il giorno dopo chiunque lo avrebbe guardato con disprezzo. Era un retaggio degli anni passati, un misto di pensiero coatto ed extraparlamentarismo di sinistra. E così, nonostante le manifestazioni e petizioni dei residenti, nonostante le scuse e le chiusure notturne a norma di legge da parte degli esercenti, la situazione era totalmente sfuggita di mano a tutti. Era, all’inizio, un quartiere di sinistra, un quartiere operaio, dove il sonno era sacro o perlomeno rispettato, ma ora era di massa e, tra gli studenti e sballoni vari che ingolfavano le strade, non mancavano i gruppi di violenti fascistoidi che nel bel mezzo della notte intonavano inni e cori di dubbia provenienza politica. Tutto questo con il silenzio totale dei residenti, che un po’ per cattiva volontà, un po’ per paura, rimanevano a letto in attesa che quella gente si sfogasse al più presto. Chi si ribellava a tutto ciò era condannato a passare la notte in bianco, scambiadosi insulti con questi tipi e a rischiare di farsi prendere la mano e scendere, ritrovandosi la testa fracassata da dieci ubriachi. Oppure, in alternativa, chiamare la polizia rischiando il pubblico ludibrio. Il motto che serpeggiava a San Lorenzo era: se vuoi dormire vattene ad abitare in campagna. In realtà non si poteva dargli torto, i fondo bastava spostarsi di un chilometro e non avresti avuto tutti quei problemi,. ma faceva “fico” abitare a Sanlollo, come dicevano i più. Per fortuna c’era un’ altra chance, i tappi di cera nelle orecchie. Era la scelta per la quale aveva optato Lorenzo. Ovviamente funzionano quando le voci sono lontane, ma se qualcuno urla a poca distanza e hai il sonno leggero, ti svegli.
Una notte fu svegliato da Antoinette:
«Adesso basta!» poi aprì la persiana di ferro che era sul terrazzino comune, si affacciò e disse a quattro tizi con chitarra giù in strada:
«Qui c’è gente che lavora!»
Scarmigliata e con indosso una sottoveste con fronzoli, celestina e semitrasparente sembrava una cocotte da operetta. E così, di rimando, una di quelle bestie le rispose:
«E be’, continua a lavura’! »
Una fragorosa risata echeggiò per tutta la strada. Rise pure lui, nonostante la tensione salisse e qualcosa gli dicesse che avrebbe passato la notte in bianco. Infatti, senza farselo dire due volte, Giuliano la raggiunse con soltanto gli slip indosso e, facendo una voce coatta da maschio alfa, ribattè:
«Ahò, guarda che io mica chiamo la polizia, io scendo!»
«Mettiti qualcosa addosso, ché pigli freddo!» disse di rimando uno di loro. Una ragazza, con la voce roca di alcol aggiunse indignata:
«Ma che t’ affacci in mutande? Qui ci sono delle donne!»
«Vuoi che mi metta lo smoking?» ringhiò lui, con la voce talmente incazzata da trasformarsi in falsetto.
«Io dormivo, stronza!» aggiunse e rientrò sbattendo le persiane violentemente. Intanto da sotto partì il coro.
«Sce-mo! Sce-mo!» mentre lui corse in cucina a cercare un secchio da riempire d’acqua. A quel punto Lorenzo aprì anche lui le imposte e disse :
«Uè, e mo basta, però…» le voci si calmarono, forse per effetto sorpresa. Ne approfittò e continuò:
«State in torto marcio, sono le quattro…»
Gli rispose uno con la barba:
«Eh, però quello esagera…»
«Forse, ma pure voi non potete fa’ tutto ‘sto burdell’… Se parlate, va pure bene, ma se cantate a squarciagola cambia tutto…»
«Ma tu non sei il cantante dei Novokomponovana?» chiese un tizio coi dreadlocks e le tempie rasate.
«Sì…»
Si parlarono tra loro, Lorenzo non sentiva cosa si dicessero, poi finalmente:
«Vabbuò, frate’. Ce ne jamm’. Tranguill’.»
Infatti si zittirono, o meglio le voci si fecero più sommesse. Intanto, dall’interno, arrivò la voce isterica di Giuliano:
«Non ci parlare! Mo je tiro un secchio d’acqua…»
Lo raggiunse in cucina e gli svuotò il secchio nel lavello.
«Dai, sta’ calmo. Se ne stanno andando…»

Ma quello era fuori di testa e non voleva sentire ragioni, pretendeva la sua vendetta. Allora Lorenzo gli fece notare che stava in casa sua e non in quella di Giuliano e avere problemi per le sue ripicche, o semplicemente perché non voleva mettere i tappi nelle orecchie, era una cosa che a lui non stava bene. Anche perché le voci non avrebbero cessato mai, di lì a poco, probabilmente sarebbe arrivato un altro gruppo di ubriachi a far casino e si sarebbe dovuto rialzare per sedare una nuova gazzarra. Insomma, restarono svegli per ancora mezzora a discutere animatamente su cosa bisognava o non bisognava fare, finché qualcuno dal piano di sopra bussò sul pavimento: volevano dormire.
Decisero che ne avrebbero riparlato.
La mattina dopo Lorenzo uscì di casa con gli occhi gonfi per la nottataccia. Arrivò alla sua bicicletta che era legata ad un palo: totalmente distrutta. Mancava il sellino, la ruota era stata deformata a forza di calci e le gomme erano entrambe bucate. Gli avevano fatto pagare immediatamente la ribellione alla loro dittatura. Si trattava, in questi casi, di scendere a patti, loro sapevano dove abitasse e chi fosse e lui di loro non sapeva niente. Insomma, il problema non erano soltanto gli ubriachi stronzi ma anche i Giuliani.
Quella sera uscì per andare al Fanfulla. Appena entrato vide Carlo seduto al bancone. Era il momento migliore per chiedergli il prestito. Si salutarono e notò che c’erano due bicchieri.
«C’è Claudia, sta in bagno…»
Non sapeva se esserne contento oppure no, in ogni caso non poteva certo parlare di soldi. Carlo sorrise alludendo.
«Ho detto che c’è Claudia…»
Lorenzo fece il pesce in barile, tentò di protestare una difesa qualsiasi, quando alle sue spalle Claudia esordì:
«Ohi, guarda chi si vede!»
Lui balbettò un Bonzuar, vergognandoseneimmediatamente, e per la pessima pronuncia francese, e per una scioltezza che non sentiva propria.
Tuttavìa Claudia era di buonumore e lo mise subito a suo agio offrendo un giro di pastis per tutti. Si ritrovarono al biliardino, lui si sentiva un giovane cavaliere medievale, quando, sfidando il più forte, lei sottolineava con gridolini da cheerleader ogni suo punto. Tifava per lui. Poi giocarono insieme e stavano quasi per vincere, ad ogni goal che faceva, lei gli stringeva forte il braccio. Mancava solo un punto, sembrava la donna più felice del mondo ma gli avversari rimontarono e così persero. Eppure nulla spezzò l’armonia della serata. C’era Laura, un po’ distante da loro, con un tipo, forse il suo successore. Si salutarono e basta. Senza acrimonia. Ritornò da Carlo e Claudia, percependo un forte legame che li univa e forse qualcosa di più fra loro due. Carlo, nel frattempo, aveva cominciato a fare le fusa in direzione di un bel ragazzo con gli occhi da bambola. Dopo un po’ li abbandonò con una scusa e si mise a cincischiare con lui. Loro due rimasero a chiacchierare di nulla per molto tempo. Le confezionava sigarette ed era così intimo, quasi eccitante, che Claudia mettesse la bocca dove Lorenzo aveva leccato la cartina. Addirittura sembrò farglielo notare, dicendogli carognescamente:
«È sbavata…» ma la mise in bocca e fumò.
E poi ancora un pastis dietro l’altro sempre nello stesso bicchiere per tutti e due. Si salutarono garbatamente, come buoni amici, perché quello erano ormai, lui pensò un’ occasione mancata. Ma cosa contava? Era un amore rimandato ma sicuro.
Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.