Che ne pensate di questo piede?
Penso che la caviglia non ha nobiltà e che il tallone è grossolano.
THÉOPHILE GAUTIER
Mademoiselle De Maupin
Prologo
Progetto # – Regione2/ Roma 6 – Italia
Rapporto numero codice 34/31
Test n°12 effettuato in data 26/11/2013 alle ore 7.55
Soggetto: Lorenzo Minelli
Operatore e voce narrante: Epicuro 3
Macchinari utilizzati: Microniricon device 3.4
Benvenuto.
Finalmente siamo connessi.
Non ti agitare, non sarà una brutta esperienza. Continua a dormire. Rilassati. Concentrati sul tuo respiro. Distendi i muscoli del viso. Respira più profondamente, rilassa i muscoli del collo ed esci da quella porta.
Sali tranquillamente sul parapetto. La strada sotto di te è sottile come il laccio di una scarpa ma non temere, ci sono io qui. Adesso voltati con fiducia, dai le spalle al vuoto perché qui sul balcone verrà qualcuno che devi assolutamente vedere.
Inspira profondamente. Pensa alla cosa più bella che hai avuto in questa vita.
Sì, eccola: è proprio lei. Certo che non l’hai mai vista eppure la conosci, non è così? Era in tutte le donne che hai amato, sarà in tutte quelle che amerai.
Il vento è forte quassù ma i suoi capelli biondi che danzano sono il calmante più esaltante che tu abbia mai assunto.
«Ti amo, amore mio» dice in un soffio.
Nessuna te l’ha mai detto prima in questo modo così sereno, definitivo
«Ti amerò per sempre e sempre ti sarò vicina».
No, non vergognarti di sentirti bene ascoltando queste banalità, l’amore è tautologia o non è.
Inspira profondamente, lasciati andare.
Lei si avvicina porgendoti la mano col suo sorriso bianco e l’azzurro ovvio dei suoi occhi. Allunghi la mano per prendere la sua. Lei, però, non è qui per trattenerti ma per spingerti. Un piccolo colpo e la sua risata dispettosa si spande tutt’intorno, mentre tu fai ampi giri con le braccia, nel tentativo di mantenere l’equilibrio. Inspira e lasciati cadere con beatitudine. Sì, così, di spalle.
Stai precipitando a grande velocità eppure galleggi lentamente nell’aria come una foglia d’autunno e questa musica dolcissima, che senti in lontananza, si intitola “Amarsi a Belgrado”.
Finalmente a terra. La testa si è spaccata ma i tuoi occhi non sono spenti e vedono il sangue che si sta spandendo sull’asfalto trasformarsi in vegetazione: più si allarga la macchia più cresce erba.
Che posto è questo? Sembra Tor Vajanica… La riconosci dalla rotonda… anche se quel ponte sul canale sta a Pescara.
Ti rialzi. Lì, sul muro di cemento bianco c’è una targa dove certamente è scritto il nome della piazza. Ti avvicini per guardarlo meglio. Inutile, è inciso all’incontrario e non riesci a capire dove sei.
Il tizio con la barba grigia ha un sorriso simpatico e ti saluta. Tu rispondi perché lo conosci da sempre ma non l’hai mai visto prima.
«Che fai qui?»
Nessuna risposta, si limita a guardarti con un senso di beatitudine. Lo incalzi.
«Che piazza è questa? La conosco ma mi sono perso. Io devo andare sulla Casilina, come ci arrivo da qui?»
Lui ti sorride sornione. Tu, senza saperne il perché, replichi al sorriso con un sorriso di scuse. Poi ti volti e l’erba è ormai alta intorno a te. Sul marciapiede opposto riesci a scorgere un ragazzo biondo col ciuffo ben pettinato. Ha un cane al guinzaglio, un piccolo cagnetto bianco. Il ragazzo non ha la faccia ma un muso di pastore tedesco. Non ne hai paura, anzi, è molto bello da vedere. Ti giri verso l’uomo dalla barba grigia, il suo sorriso franco è un invito a parlare.
«Che fico quello, che razza è? Ce ne sono altri di tipi così qui?»
L’uomo annuisce col suo viso bonario, è Jeff Bridges nel personaggio di Drugo. E tu ancora:
«Ma dove siamo?»
«Ma che domande fai, ehi, non mettermi in imbarazzo. Dai, che lo sai…» replica lui, allargando le braccia. Annuisci sorridendo.
«Fico,non pensavo fosse così…»
Ti sdrai sull’erba che ora è gialla e finissima come fossero capelli. Sono capelli. I capelli della donna del terrazzo. È lì, al tuo fianco, si fa piccola sul tuo petto. È morbidissima, della stessa consistenza di un batuffolo di ovatta. L’abbracci, quella si scioglie e tu l’assorbi. Adesso finalmente sei lei, lei finalmente sei tu.
Inspira profondamente.
Puoi svegliarti, te lo ordino.
#3

Parte Prima
CAPITOLO I
La stanza era invischiata di luce grigia e il primo sguardo fu tutto per il soffitto. Era spaccato in diagonale, dalla finestra fino alla parte opposta, in due campi, uno pallidamente illuminato l’altro in ombra. La linea che divideva il chiaro dallo scuro era incerta e questo significava giornata senza sole
“Oddìo, come faccio? “
Dalla strada arrivavano attutite le voci roche dei coatti. Li sentì scambiarsi battute e risate da guasconi e poi così, di punto in bianco, senza alcuna apparente logica, partì un coro da stadio scandito dal battere ritmico delle mani.
Non voleva alzarsi. Non ancora. Il pensiero di trovarsi fuori dal letto nella stanza gelida lo paralizzava. In quell’utero fatto di lenzuola calde, però, abitava ora un pensiero nemico, martellante: una nevralgia
“Oddìo, come faccio?”
Si tolse la trapunta di dosso e rabbrividì vestendosi, borbottando per dare un suono al suo tremare.
Antoinette, la coinquilina, era già uscita mentre Giuliano, il compagno di lei e suo ex amico, sicuramente stava russando nella propria camera o sul divano del salotto. Accese il computer e buttò un occhio su un portale a caso secondo il quale il governo avrebbe varato di lì a poco un piano contro la povertà, prevedendo addirittura un salario minimo per i più disagiati. Le solite balle. “Saranno quattrocento euro al mese,” pensò, “cioè l’affitto di casa. Per ottenerli bisognerà sottomettersi a una sequela di interrogatori redatti da impiegati statali indifferenti; produrre almeno cinquemila certificati cartacei; spendere la prima mensilità di sussidio in marche da bollo.”
Lesse nei commenti la voce della piazza. La maggior parte si diceva ottimista e soddisfatta, chi criticava era tacciato di disfattismo.
Guardò la chitarra e fu tentato di fare qualche scala per dimenticare quello stato d’animo… No. Non era dell’umore giusto per suonare.
“Oddìo, come faccio?”
In cucina c’era del caffè avanzato dalla sera prima, lo bevve e accese la prima sigaretta. Cagò. Niente doccia, troppo freddo. Uscì. Inforcò la bicicletta e cominciò a pedalare verso il Pigneto. San Lorenzo non gli era mai piaciuta.
Via dello Scalo era brutta anche col sole e in mattine come quella poi era addirittura insopportabile. Quella luce ostile gli metteva un groviglio nello stomaco che rendeva difficile distinguere le costruzioni dal cielo, ogni cosa affogava nel tuttogrigio: una monade di cenere. Aveva il fiatone e divise mentalmente la colpa tra le sigarette e il grasso in eccesso. La Prenestina con la sua assurda soprelevata faceva ancora più schifo. Era però uno schifo disinnescato, ormai impotente nella sua vernice di smog e di storia, era uno schifo patetico, se non addirittura poetico. Sotto le ruote della bicicletta le pozzanghere sparse sull’asfalto rotto si trasformavano in esplosioni argentee.
“Oddìo, come faccio?
Fu così che gli venne in mente suo padre ma desistette subito. Non si vedevano da mesi. Si limitavano a qualche frase al telefono e poi ciao. Non poteva rifarsi vivo per chiedere un prestito. Per giunta aveva già i suoi problemi con l’azienda. La crisi.
“Povero papà… Diventerà uno dei tanti suicidi anonimi in questo paese massacrato dalle ricette per la ripresa. Lui, il comunista. Ci ha creduto per una vita.” Quel sogno di libertà contenuta nel sol dell’avvenir però si era squagliato nei problemi del quotidiano. Un sogno, per l’appunto.
La soprelevata s’immerse nella Prenestina e Lorenzo voltò a destra in direzione del Bar Necci.
Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.