Odiatissima Catherine Breillat.

Un assorbente usato come bustina da tè in Anatomy de l’enfer (2004) con successiva degustazione da parte di un compagno immobile e crocifisso sull’altare sudicio del sesso è forse uno dei momenti più iconici dell’odiatissimo cinema di Catherine Breillat. E partirei proprio da qui per quella che vuole essere una riflessione – disimpegnata e passibile di contrattacco – sì su di lei ma anche sulle modalità di messa in scena del desiderio erotico e su quel conflitto così isterico e trasparente fra i sessi che hanno fatto rientrare l’autrice nella categoria (malsana? Esecranda? Infernale?) della “pornografia clinica”, com’è scritto in svariati articoli e approfondimenti a lei dedicati. Una tenzone tra sesso maschile e femminile, quella del film che qui conosciamo come Pornocrazia, esibita fin dalle prime battute del film, senza alcun preludio o la benché minima irrequietezza, come in un qualsiasi film porno mainstream.

L’inizio mi aveva folgorato. Un uomo e una donna s’incontrano in una discoteca. Lei/Amira Casar vuole essere guardata dov’è inguardabile e oscena ed è disposta a pagare lui/Rocco Siffredi pur di essere soddisfatta. A lui però le donne non piacciono, andando così a situarsi nella comoda posizione dell’osservatore-spettatore disincantato davanti a un corpo di donna prima ripudiato ma poi fonte di curiosità ossessiva. Negli anni Breillat è stata definita ambigua, controversa, cervellotica, o peggio ancora “ermetica”, quando in realtà, almeno nel caso di Pornocrazia, la regista mi sembra rifiutare ogni elucubrazione e psicologismo a favore dell’immediatezza. Sfrontatissima. La semantica del film è chiara e le immagini – con una cura figurativa incredibile che spazia tra Courbet a Man Ray nella rappresentazione del corpo femminile – la disvelano: una carrellata di situazioni paradigmatiche uomo-donna che vogliono mostrare quanto il primo sia letteralmente terrorizzato e soggiogato da ciò che la seconda possiede e nasconde. Che sia l’inquietudine esistenziale di lei o il suo stesso sangue mestruale non c’è dato saperlo anche perché la prima  a cui non importa è proprio Catherine.

Dov’è allora il significato di quel silenzioso scambio tra Casar e Siffredi? L’occhio pagano della cineasta e scrittrice francese rifiuta di piegarsi a un pensiero che vada a problematizzare o scandagliare la dimensione del conflitto, buttandocisi invece a capofitto per annullare (o ridicolizzare, se pensiamo a Romance (1999) che molto deve nell’estetica al bellissimo Maitresse di Barbet Schroeder del 1975, ma qui siamo nettamente, scusa Catherine, su un altro pianeta) qualsiasi controparte: la donna sembra protagonista ma in fin dei conti non lo è il suo desiderio, che sembra essere filtrato dalla lente dell’erotismo mainstream e fallocentrico che la regista vorrebbe svilire. O magari sta proprio qui il senso politico del suo cinema e io non l’ho colto.

Formatasi fra i tanti, tra Sade, Ōshima e Bertolucci (la regista fece un piccolo ruolo in Ultimo tango a Parigi, 1972) nonostante l’apparente crudezza della messinscena, Breillat considera il sesso come qualcosa di “perduto” e sacro e farne materia filmica – per l’appunto goffa e spesso ridotta a un’essenzialità ideologica trasparente – equivale a rivendicarne l’urgenza su di un terreno però sghembo, dove l’Io è sempre l’Io e mai l’Altro o altro da sé. Nulla scandalizza, ad esempio, in Romance: né la ripresa dal vero di una visita ginecologica o di un parto né le sequenze dove si consumano gli amplessi. Perché laddove l’erotico di Borowczyk  dove tutto lasciato alle attese e agli stacchi o quello di Le Pornographe (2001)di Bertrand Bonello, o se penso al cinema tutto di percezioni e contatto di Claire Denis, per fare solo qualche esempio, ecco, se da un lato viene dissezionata l’eccitazione, o l’amplesso, se parliamo specificamente di quello, con un montaggio teso a intensificare via via l’effetto, dall’altro è come se Breillat stesse asetticamente a documentare, con la macchina da presa che resta ferma e solidamente preimpostata.

Niente da esorcizzare, sia chiaro. Anche perché sono tutte visioni che stimolano – in un modo o nell’altro – la riflessione sul modo in cui viene resa al cinema la realtà della sfera sessuale. Altra cosa è quando la nostra dirige i bildungsroman. Mi riferisco a Une vrai jeune fille (1976), che va a ricalcare l’atmosfera dei porno soft degli anni ’70, e a Vergine taglia 36 (1989). Una ragazza, nel primo, ritorna a casa dei suoi genitori durante le vacanze estive. L’atmosfera è resa soffocante dai desideri incestuosi che suo padre nutre nei suoi confronti e che lei non si affanna molto a respingere tutta presa com’è dalle fantasie erotiche nei confronti di un dipendente del padre. In Vergine taglia 36, la quattordicenne Lilli, nonostante i rimproveri del padre, fa di continuo l’autostop per cercare gente nuova e discoteche finendo per attirare l’attenzione di un playboy quarantenne che si invaghisce di lei.

Adolescenti sfacciate e aggressive la cui caratterizzazione si rifà in parte all’esperienza personale della cineasta e che sono, con le loro difficoltà e inquietudini, il centro assoluto di entrambi i film, lontani anni luce dalle tesi così volutamente esibite e semplicistiche di Romance e Pornocrazia. Quando Catherine guarda al mondo adolescenziale fa dei film più veri e a loro modo più teneri e autentici in cui ci sono le conflittualità delle relazioni familiari, specialmente in Vergine taglia 36 che in questo guarda molto al Maurice Pialat – di cui tra l’altro fu sceneggiatrice in Police (1985) – di A nos amours (1983) e ci sono la fretta e l’impazienza adolescenziale che spingono Lilli e Alice a voler perdere la verginità e ad esplorare il proprio erotismo, sperimentandolo attraverso il piacere della trasgressione.

Riavvolgendo il nastro e abbandonando Lilli e Alice, ci tocca tornare al punto di partenza e all’immagine dell’infuso mestruale dove più si coglie il senso del desiderio erotico univoco e monocorde che viene rappresentato. L’esempio di Pornocrazia è infatti il più calzante perché la cineasta si limita a mostrare le sue convinzioni attraverso la serie degli incontri tra Casar e Siffredi, sconnessi e isolati, senza mai provare a raccontarli.

I suoi personaggi attraversano questi fuochi e rivolgimenti per lo più lontani dalle preoccupazioni del mondo e Breillat sa bene come restituire l’idea di questo scollamento, costruendo ambientazioni e sequenze sospese in un silenzio clericale, ad esempio in Romance, dove le strade di una Parigi tacita e ovattata che ricordano Belle de jour (1967) di Buñuel fanno da sfondo ai monologhi della protagonista. Marie è una maestra elementare ed è fidanzata con Paul. Non riescono più a fare l’amore e pare che a Paul la cosa non crei disagio, mentre Marie ne soffre. Inizia per lei un viaggio alla ricerca di sé stessa attraverso il sesso e gli incontri occasionali con altri uomini. In un bar incontra un uomo, ancora una volta interpretato da Siffredi: ancora una volta l’uomo, o meglio, il corpo dell’uomo che “agisce” ancestrale e felino subendo la forza creatrice-distruttrice della donna. E la sua volontà di potenza. Teorema su cui si regge quasi tutta la filmografia di Catherine B.


Elvira Del Guercio studia lettere moderne. Ha collaborato con alcuni festival di cinema come giurata e selezionatrice e si occupa di studi di genere. È nella redazione del trimestrale di critica cinematografica Uzak e suoi articoli sono apparsi su Cinefilia Ritrovata, il magazine online della Cineteca di Bologna, Cineforum e Fata Morgana Web. Scrive di cinema e letteratura per Il Tascabile, Nido Magazine e Point Blank.