All’origine dell’ideale di bellezza nella moda.

I primi rinvenimenti di un qualcosa avvicinabile ad un abito si hanno all’incirca databili a 35.000 anni fa; deducibile dagli strumenti per conciare le pelli, ma dei primitivi abbiamo prevalentemente testimonianza degli accessori. La prima prova certa della fabbricazione e dell’uso degli abiti si ha molto dopo, con la scomparsa dei Neandertaliani e lo sviluppo del paleolitico nel periodo Gravettiano, tra i 28.000 e i 22.000 anni fa; qui si ha una moltiplicazione dei reperti.

Nelle grotte dei Balzi Rossi e delle Arene Candide in Liguria è ben documentata l’esistenza di copricapi e delle sorta di casacche decorate con pendenti.

Nel Maddaleniano, tra i 15.000 e 12.000 anni fa circa appare la prima raffigurazione di un abito, la cosiddetta “Femme à l’anorak” «Donna con la giacca a vento» in una piccola incisione nella “Grotte de Gabillou” in Francia.

Femme à l’anorak – Grotte de Gabillou

La comparsa delle fibre vegetali avviene nel Neolitico, dal VII millennio a.C., da lì in poi si diffondono le conoscenze tecniche della preparazione delle fibre, dalla loro tintura, filatura e tessitura in trame complesse e con vivaci colori.

Con il tempo, vestirsi non rappresentava più soltanto proteggersi dagli agenti atmosferici, ma diviene anche un mezzo per comunicare messaggi che identificano gli individui per sesso, età, ruolo e posizione sociale all’interno della comunità di appartenenza e per differenziarli da quelli delle altre comunità.

Nella protostoria singolari sono le iconografie presenti che vanno dalle incisioni della Valcamonica in cui è possibile riconoscere copricapi e calzature fantasiose, alle stele incise di Val d’Aosta, del Trentino dall’Eneolitico all’età del Bronzo e quelle Sipontine della Puglia dell’età del Ferro che trasmettono informazioni molto importanti tra cui l’identità femminile caratterizzata da lunghe gonne e da larghe cinture mentre la parte superiore del corpo è coperta da ornamenti, in particolare collane.

Da qui in poi possiamo considerare l’abbigliamento costume, identità e l’inizio di un processo che produrrà una moltitudine di elementi nello sviluppo delle società, in prima istanza matura concezione ed uso del significato di bellezza.

L’abbigliamento pertanto si integra a tal punto con il corpo da mutarne gli attributi, finché, volendo fare un esempio, si è passati dagli anelli da collo ancora presenti tra le donne Kayan all’impianto siliconico, ma questa differenziazione tecnologica non smuove la radice che induce alla ricerca dell’ideale, anzi definisce la matrice parallela che ne giustifica le esistenze.

Viene automatico ipotizzare, a fronte di questa enorme varietà espressiva, che fin dal divenire l’uomo abbia maturato quella consapevolezza che testimonia il primigenio senso critico sull’estetica legata all’identità personale e di gruppo, appunto per sottolineare l’assenza di un ideale unitario. Da sempre quindi il criterio estetico è posto a identificare l’appartenenza ad una comunità; in conseguenza viene eletto il corpo veicolo dell’ambizione simbolica che si evolve in modello, o meglio nella molteplicità di modelli, ognuno adatto alla propria comunità.

Quando anni fa ho scritto “Model” nella categoria della mia pagina su un Social Network molte persone mi hanno dato contro deridendomi con pesantissime critiche su ciò che il mio essere potesse esprimere in quanto aspetto fisico, fuorviando completamente la natura del messaggio.

Ci spetta adesso comprendere gli autori della contestazione, se siano pienamente o in parte esponenti della mia comunità, se si identificano in una compattezza di valori comuni e in che modo, se vengono influenzati dal costume globalizzante cancellando il proprio atavico, oppure tutto ciò fa parte dell’aberrazione di un sistema comunicativo che mette in collegamento realtà apparentemente simili con l’illusione del raggiungimento di un sentire che ignora le differenze. Sostanzialmente, almeno in occidente, da anni siamo abituati alla diffusione di contenuti standardizzati in base all’esemplificazione progettuale a cui ci si affeziona per la permanenza nel tessuto sociale, questo fa sì che li si riconosca come familiari e di conseguenza propri, all’infuori del grado di comprensione e susseguente corredo collaterale che può scaturire già da una posizione geografica diversa compiendo un’illazione che in molti casi ne muterà il senso originario.

Alberto Maria Cirese in “Culture egemoniche e culture subalterne” definisce inculturazione il processo con il quale un gruppo sociale trasmette e riproduce le proprie “tradizioni” al suo interno e acculturazione invece i tratti culturali acquisiti provenienti dall’esterno, quindi da strati sociali diversi, o da altre aree geografiche-culturali.

Tomba dell’Orco – Tarquinia

Il modello dunque è l’integrazione dei molteplici aspetti culturali della comunità. Detto questo è conseguibile distinguere la ragione del modello dal suo contenuto, un contenuto che raccoglie oltre all’ideale di perfezione, potremmo aggiungere di divinità, e anche il carattere politico.

Attraverso questa consapevolezza è possibile quindi manipolare una comunicazione che articola soggetti, modelli ed espressività diverse puntandole nella comunità dove sarà prevedibile una maggiore risonanza. Per cui in un’ambientazione pratica, se nella società dei consumi l’ideale di bellezza maggiormente diffuso contempla la cura del corpo e la perfezione fisica; un modello agli antipodi servirà a scaturire una forma di dissenso, ma anche di approvazione, mediante la somministrazione a livello promozionale di un modello destabilizzante, ma contemporaneamente alla radicalizzazione dell’ideale massimo di bellezza assoluta presente subliminalmente in tutti gli apparati illustrativi di abbigliamento e accessori, dal casual popolare fino al defilè per l’acquirente nello show room dei marchi di alta moda, e soprattutto nei prodotti di bellezza.

Capisco oggi le offese che soventemente tornano in auge verso alcuni modelli, principalmente donne che non incarnano un ideale di bellezza condiviso nella società dello spettacolo, ma lo interpretano per i fini commerciali dell’azienda a cui prestano l’immagine.

Credo, tuttavia, ci sia una netta differenza tra il significato di modello, l’uso che ne ho fatto io e la sua espressione, specie in questo caso dove lo si è indotto nel tentativo politicizzante di condurlo alla possibilità di diversa bellezza sovrapposto al sentire umano divenuto Tradizione. Tutto sommato l’obiettivo cardine del gesto è finalizzato al come queste aziende vendano prodotti a più consumatori possibili usando persone comuni presentandole per diverse, esso stesso è la continuità della Tradizione.

L’unica riflessione possibile va fatta nel verso del significante nel modello, se questo è la prima espressione di un’idea che farà da guida in un ideale societario, oppure tutt’altro non è che la replica della società stessa che si pone a conferma di un’ideologia.


Flavio Scutti è appassionato da sempre di computer grafica. Dal 1995 conduce ricerche sui linguaggi audiovisivi attraverso lo studio dei sistemi elettronici. Con il conseguimento degli studi presso l’Accademia di Belle Arti la sua attività artistica si concentra nella produzione di contenuti multimediali per l’arte contemporanea. I suoi progetti artistici sono innumerevoli e spaziano dalla poesia alla computer grafica, dalla musica alla fotografia e all’arte visiva.