Consecutio Temporum Solitudinis. Il mondo contemporaneo e l’esercizio mancato della solitudine.

SOLITÙDINE s.f.

[dal lat. Solitudo – dinis, der. di solus
“solo”]

La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggiera o duratura.

Non troviamo nessun giudizio morale, nessuna accezione positiva o negativa di questo sostantivo femminile o maschile. Solo la sua mera descrizione.

Roma Antica:

Per Seneca “la solitudine è per lo spirito ciò che è cibo per il corpo”.

Europa Moderna:

Per Schopenhauer “Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, sé stessi”


Il significato di solitudine si modifica e prende forme concettuali specifiche, psicologie più complesse, con accessi diretti alla morale, l’etica collettiva. La psicologia (scienza e conoscenza dell’anima) sfocia su lidi legati ad una socialità sempre più articolata, ma forse dovremmo dire disarticolata, sempre più innaturale, sempre più estrema. I modi di vivere, di conoscere, gli spazi di condivisione fanno il nuovo, modellano e modificano.


Contemporaneità:
Restare in dialogo e relazione con sé stessi?

O vivere l’abbandono altrui come forza, dunque esaltazione dell’isolamento, dell’auto esclusione sociale, è veramente sempre realmente voluta o sottilmente subita?
E se fosse tutto un grande bluff mediatico? Un nascondersi, un fuggire semplicistico? Una mera tattica sociale e non un esercizio, una pratica del sé? Se non fosse una vera volontà, una necessità quasi imprescindibile dell’essere umano, una vera consapevolezza di avvicinamento al sé, complesso, non stereotipato, non “di reazione”, ma determinate (o meglio, autodeterminante), non un riflesso, il sé stesso capace di essere reale nella sua sconfinata interezza?

È oggi intendiamo la solitudine esclusivamente come una sé-parazione, pensiamo dagli altri, ma nella fattività è una bugia che raccontiamo. Non consideriamo che la solitudine contemporanea, al contrario di quello che si possa pensare, è la separazione da sé, questo perché gli altri sono diventati sempre più il nostro specchio deformato e deformante.
“Essere soli” di oggi è uno stato mentale, più che fisico, completamente orientato agli “Altri”, che siano individui idealizzati, standardizzati o al meccanismo della società, il “solo” è immerso in una moltitudine chiamata mondo, assolutamente deprivata e incapace dell’esercizio della solitudine.


L’estremo abuso della tecnologia e della connettività – via etere, dell’iper-connessione, dell’iper-comunicazione. Ecco, non si stacca mai realmente dagli altri e dal mondo, una distanza fisica non è sempre è più una variabile agirabile, viene colmata e stracolmata di vicinanza interattiva virtuale. Effetto placebo per alcuni versi, discrasia per tutto il resto.
Questa virtuale proiezione, possibilità estrema di raggiungere tutto e tutti ha portato l’umanità a un totale abbandono dell’esercizio della solitudine e a moltiplicare allo stesso tempo individui soli.
Questa necessità dell’altro è diventata così patologica, la più pericolosa delle dipendenze e se non dipendenza, se rifiutata come tale, la peggiore delle schiavitù, di una grottesca sindrome di Stoccolma.


Tutto il resto diventa un riflesso passivo-aggressivo, una casa degli specchi, del sé.
Gli altri ci raccontano, ci modellano, ci cambiano, gli altri diventiamo noi. Viviamo degli sguardi, delle emozioni, delle cause, degli obiettivi altrui, siamo docili attori del contemporaneo, immersi nella dinamica marxista del “servo-padrone” delle attenzioni, della remunerazione non più esclusivamente economica, dei like, dei cuoricini snocciolati sotto un post, sotto una foto truccata.

L’esercizio della solitudine (separazione dall’altro, verso il raggiungimento dell’unione e della pace con sé stesso) viene annientato e sostituito dall’esercizio della se-parazione (l’allontanamento da sé stesso) e nociva impossibilità di liberazione dall’altro. Il disagio provato dunque non è più un esclusivo appannaggio della socialità con l’altro, ma ciò che si prova principalmente con sé stessi, lo s-mostramento interiore.

L’impossibilità del restare soli realmente, diviene così il distanziamento dall’altro, quella teca impenetrabile, l’allontanamento da tutto quello che è naturale pulsione e naturale sopravvivenza; l’accettazione della morte, l’accettazione della fine in quanto fase vitale, l’accettazione di sé stessi come esseri immersi nel nulla-infinito. Un impigrire vegetativo agli stimoli esterni, non dettati da altri essere umani, dall’azione diretta del non-fare, dalla società.
Anche quando si spaccia al pubblico un’elevazione data da un’“eremitismo” di ritorno, volto alla ricerca della “pace interiore” o “consapevolezza”, lontano dalla società caotica e opprimente, parliamo di una posa, di una reazione di distacco dalle passioni, più che un reale riavvicinamento alla Natura, la nostra Natura, come invece un esercizio di solitudine dovrebbe suggerirci. Quel nutrimento per l’anima di cui parla Seneca, ad esempio, un nutrimento di cui dovremmo essere voraci, il contrasto all’individuo inaridito dall’impossibilità sociale in una socialità esasperata.
La solitudine non è dunque separazione dall’altro, ma sintonia e piacere nella dissonanza, una possibilità comunicativa autentica.
Una dimensione solitaria di riconoscimento, in sé stessi. La dimensione del compimento individuale, una possibilità quanto mai estesa di Amicizia, l’individuo interconnesso con tutto quello che ha intorno, dunque il totale contrario dell’isolamento contemporaneo, nutrimento di un terreno fertile e variegato dal quale crescere e accrescere, alimentare, seminare, arrivare al culmine, perire e ricominciare il ciclo vitale. Questa mancanza di esercizio della solitudine, questa mancanza di sé è quello che porta al all’impossibilità, all’incomunicabilità, all’aridità contemporanea, alla negazione dell’Amicizia.


Claudia Acciarino è laureata in filosofia ed è attiva nel panorama underground di Roma. Ha curato per anni la direzione artistica del Dal Verme prima di rilevare il negozio di dischi Inferno Store. Porta avanti vari progetti musicali.