Vestirsi come gli Autechre: un manifesto esistenziale.

La storia della musica, in particolare quella occidentale dal dopoguerra in poi, quella legata all’esplosione del concetto stesso di cultura giovanile e di conseguenza al rock and roll prima e al rock poi, è legata a doppio filo al concetto di stile, e nei decenni a venire anche a quello di moda.

Lo stile rock and roll (o semplicemente rock da un certo punto in poi) è parte fondante di una mitopoiesi, della creazione di un mercato, della sua espansione in altri mercati, e – per quanto sembri assurdo a dirsi in questo decennio – tuttora ci sono band, marchi, personaggi, testate che fanno di un supposto “stile rock and roll” il loro principale punto di forza, la loro attrattiva e, per usare una parola abbastanza stronza, il loro selling point.

Le stanze degli adolescenti sono state addobbate per decenni dalle icone dei loro miti, e dallo stile che questi veicolavano. Elvis, David Bowie, Paul Weller, Axl Rose, Liam Gallagher, fino ad arrivare agli Strokes o a Pete Doherty: il rock ha sempre fornito icone a un mercato che non aspettava altro che icone da poter utilizzare.

Per quanto mi riguarda, non ne ho mai subito troppo il fascino. Forse è un mio limite, ma in primis mi sentirei ridicolo a vestirmi come una rockstar, visto che non lo sono. Il processo di imitazione è alla base di questo fenomeno, e forse è una mia insicurezza, forse se fossi più sicuro di me stesso mi vestirei come David Bowie, ma proprio non ce l’ho mai fatta: è una cosa che non sono neanche mai riuscito a prendere in considerazione. In compenso dico spesso che la mia unica, vera, grande icona di stile mutuata dal mondo della musica è Rob Brown degli Autechre.

Se Sean Booth infatti si veste da sempre come un b-boy degli anni Novanta, Rob Brown si veste in modo che mi piace definire… da tizio qualsiasi. O perlomeno è così che mi appare, dal momento che (almeno nelle foto che circolano) si veste esattamente come me. Jeans, sneaker poco appariscenti, un golfino monocolore e senza scritte con sotto una maglietta (o solo la maglietta quando fa caldo), e soprattutto una sequela infinita di giubbotti più o meno tecnici, quasi sempre marchiati North Face. Lui sicuramente da prima di me, ma io probabilmente da prima di conoscere gli Autechre. Non so dire quindi quanto consapevolmente abbia adottato questo modello, mi piace semplicemente pensare che abbiamo gli stessi gusti

Ecco, in realtà a ben vedere fa ridere anche che una persona (io: non ho idea delle abitudini sportive di Rob Brown) il cui massimo sforzo in termini di attività fisica da secoli consiste nell’andare a piedi da casa alla fermata della metropolitana, vesta sempre con un marchio pensato per spedizioni al Polo Nord e sopravvivenza in climi austeri, ma il fatto che sono un tipo freddoloso mi dà almeno una tenue scusante. Nel corso degli anni ho collezionato una serie di giubbini North Face da fare invidia a un testimonial ufficiale, e il fatto che siano estremamente durevoli e quindi nessuno sia mai stato pensionato e siano ancora tutti in servizio, fa sì che ne abbia davvero per tutti i momenti e tutte le stagioni (a parte uno che mi è stato rubato dal sottosella del motorino fuori da una discoteca quando ero al liceo, e che ancora rimpiango). Finisco per comprarne almeno uno ogni due anni, anche solo per cambiare un po’, e considerando che questa cosa va avanti dai primi anni Duemila fa sì che la mia collezione, per quanto molto minimal, molto legata a colori singoli e a niente di troppo vistoso o appariscente, sia ormai piuttosto variegata, con esemplari più o meno per ogni stagione.

(Peraltro, nella certezza che ai piani alti di North Face sicuramente leggano Droga, li invito a prendermi in considerazione per una sponsorizzazione finalmente ufficiale, che sicuramente mi merito).

Da un punto di vista un po’ più profondo, credo che, tornando a un’insicurezza di base, la ragione alla base di questa scelta sia anche quella di non vestirsi con cose che denotino uno sforzo eccessivo. Impegnarsi troppo nella scelta di come apparire significa dare a questo importanza, significa tenere al proprio aspetto, significa illudersi di poter essere fighi quando in realtà siamo tutti dei poveri disperati che conducono inutilmente su questo globo un’esistenza senza senso. Questo è sempre ben presente nella mia testa quando, ogni giorno, decido di non vestirmi come David Bowie o di non indossare completi eleganti.
Questa cosa si riflette pesantemente anche sulla scena a cui gli Autechre, volenti o nolenti, sono sempre stati associati. Nel luglio del 1992 la Warp ha pubblicato una raccolta intitolata Artificial Intelligence, ed è da allora che si parla di “intelligent dance music”, per gli amici IDM.

Gli Autechre erano presenti in quella compilation con due brani, e Warp è sempre stata la loro etichetta. Non che questo sia fondamentale: anche se così non fosse stato, comunque inevitabilmente sarebbero stati ricondotti a quel gruppo: una scena che forse non è davvero una scena, fatta di gente restia a essere messa in un calderone, e certamente anche all’essere categorizzata come intelligente rispetto a qualcos’altro. Il fatto è che fino a quel punto, l’elettronica di consumo (quella cioè non legata a esperienze come l’accademia francese, o l’elettroacustica più spinta, o ai pionieri tedeschi) era sempre stata, soprattutto in Inghilterra, fondamentalmente una cosa da club. Una cosa fatta per andare a ballare, spesso anche a rimorchiare; una cosa intrinsecamente legata a esperienze fisiche e collettive, a riti di passaggio, a momenti vissuti in compagnia, a situazioni socialmente rilevanti. Il passaggio che avviene negli anni Novanta soprattutto attraverso alcuni tizi inglesi più o meno legati a Warp Records e al mondo che ruota intorno a quella compilation è quello alla cosiddetta elettronica da cameretta. Non solo una musica elettronica principalmente da ascolto, casalinga, ma anche realizzata attraverso software spesso crackati, che stanno su computer casalinghi, senza bisogno di contratti milionari, studi di registrazione e tutto il milieu da rockstar che viene con questi asset. All’epoca si parlava spesso di camerette per figurare degli sfigati chiusi in casa, probabilmente ancora quella dei genitori, poco inclini alla vita sociale e sicuramente poco avvezzi al mondo del clubbing, alle sue liste, ai suoi tavoli, alle sue luci stroboscopiche, alle sue dinamiche da branco e di conquista, dediti esclusivamente a un incessante lavoro davanti al computer per realizzare musica cosiddetta “intelligente”.

Ovviamente la definizione è discutibilissima, e per quanto mi riguarda forse il risultato più grande degli Autechre non sta nell’aver realizzato musica “intelligente”, ma nell’aver realizzato musica molto potente dal punto di vista emotivo. Sono stati sempre definiti freddi, cerebrali… ma quando mai? Hanno saputo invece dare un cuore alle macchine, rappresentare l’elemento emotivo presente tra i circuiti, raccontare dimensioni profondissime senza usare neanche una parola, in brani che non esiterei a definire commoventi quali “ilanders”, “Rae”, “Krib” o “see on see”.

E l’hanno sempre fatto vestiti da stronzi qualunque. Forse è un ragionamento superficiale (Basinski fa cose splendide e si veste come una star del glam rock fuori tempo massimo), ma per quanto mi riguarda ammetto che è sempre stato un valore aggiunto.


Federico Sardo (Milano, 1985) ha scritto un po’ dappertutto, parla su Radio Raheem e metteva i dischi alle feste prima della pandemia.