De/constructing Autechre.

Come provare a ri/leggere la musica di Booth & Brown prendendo a prestito le parole del bardo tecnologico Piero Scaruffi.

La prima domanda che viene naturale farsi all’ascolto del duo di Rochdale è questa: esattamente, che musica fanno gli Autechre?

“Sean Booth e Rob Brown, due disc jockey della scena techno di Sheffield, sono fra i protagonisti del genere senza canto ispirato alla musica elettronica soffice ed eterea degli anni ’70 che ha preso il sopravvento nei rave. I riferimenti di Incunabula sono Tangerine Dream e Brian Eno. I tempi lievemente jazzati di “Eggshell” e “Windmill” (in realtà è “Windwind”, n.d.r.) e la melodia e il ritmo del singolo “Basscadet” non cambiano un’equazione che è fondamentalmente priva di variabili.

L’EP Anti, spaziando dalla cacofonia di “Flutter” alla trance nella giungla urbana di “Djarum”, annuncia la tela più colorata di Amber. All’insegna del loro motto “dance/trance/romance”, “Foil” e “Glitch” insinuano suoni artificiali nelle orbite più recondite del subconscio, mentre il tocco psichedelico di “Nine” e il piglio robotico di “Teartear” riscoprono Pink Floyd e Kraftwerk. Il duo è al culmine delle proprie arti registiche in brani dallo svolgimento imprevedibile come “Silverside”.

Gli Autechre si sono rapidamente imposti fra i massimi protagonisti della nuova musica ambientale britannica.

Incunabula (Warp, 1993) ***

Amber (Warp, 1995) ***”

Da Enciclopedia della musica New Age. Elettronica, ambientale, pan-etnica di Piero Scaruffi, Arcana Editrice, 1996.

Queste poche parole, estrapolate da un tomo di ben 640 pagine pubblicato 24 anni fa, sembra passata quasi un’era a pensarci bene…, ci vengono in soccorso per provare a comprendere la musica che facevano, e tutt’ora producono i due inglesi. Rob Brown e Sean Booth sono diventati ormai delle vere e proprie star della musica elettronica mondiale, ma vengono da lontano, la loro prima pubblicazione, l’ep Cavity Job, risale al 1991, dopo pochi anni di rodaggio, l’esordio semi-ufficiale consta di una cassetta autoprodotta nel 1990… dunque stiamo parlando di gente che è sulla scena da più di trent’anni, che ha vissuto in pieno le epopee techno, acid, electro e hip hop, tutti generi che, di fatto, hanno contribuito all’evoluzione della musica elettronica, un calderone con dentro di tutto e di più. In principio potevano certamente venire scambiati per dei dj (“disc jockey” oggi è un termine desueto) che mettevano dischi, in realtà hanno sempre composto le loro suite elettroniche partendo dall’evidente passione per hardcore e hip hop in particolare, e risulta curioso immaginarli come continuatori della tradizione soffice ed eterea di musiche del passato. Col passare degli anni, e grazie ad una serie di dischi che definire complessi ed oscuri, generalmente poco propensi a compromettersi con la melodia, proprio come dichiara Scaruffi su alcune tracce dei primi due album lunghi, il duo inglese effettivamente si è imposto in quel “genere senza canto” che ha preso sempre più piede col passare del tempo. Numerosi sono ormai gli esempi di band e dj che si sono affermati eliminando del tutto o quasi la parte testuale per concentrarsi sulle sole atmosfere, da Aphex Twin ai Boards Of Canada ai Drexciya e The Future Sound Of London, passando per LFO, Pan Sonic, Squarepusher, Plaid, fino ad arrivare alla Basic Channel ed a Rashad Becker. Ci sono poi artisti che hanno ibridato una minima parte testuale alla musica prodotta, bastino come esempi, certamente diversi tra loro, Underworld, The Orb, Alva Noto e Daft Punk. E non va naturalmente dimenticata la vicinanza coi maestri incontrastati dell’elettronica contemporanea, i Kraftwerk; Scaruffi giustamente li cita assieme a Brian Eno, senza questi due modelli, difficilmente avremmo ora realtà come quella degli Autechre, che devono molto della loro produzione ai tedeschi e all’ex Roxy Music. Magari a Booth & Brown paragoni del genere interessano poco, ma possono tornare utili per inquadrare in qualche maniera quella che pare ancora oggi una storia tutta peculiare, che insomma delle radici da qualche parte ce l’ha, eccome. I due sono tra quei pionieri della “musica ambientale britannica” che poi si sarebbe racchiusa nella più comoda definizione di IDM, intelligent dance music, che ha impazzato in Gran Bretagna a cavallo tra i Novanta e i Duemila (ma che gli è sempre stata stretta) e che ancora oggi conserva piuttosto intatto il suo fascino, basti come esempio proprio l’attività della Warp, la loro storica etichetta, che continua a sfornare ottimi, e anche discussi, va detto… esempi come Lorenzo Senni, Oneohtrix Point Never, Danny Brown, Yves Tumor, ma senza dimenticare il ruolo della Planet Mu di Mike Paradinas, della Hyperdub di Kode9 (con dentro un certo Burial) e il lato “tedesco” della faccenda, quello facente capo alla PAN di Bill Kouligas, passando per la danese Posh Isolation di Loke Rahbek. Resta il pericolo di perdersi nei mille rivoli dell’elettronica di oggi, genere mutaforma per eccellenza. Se proprio si devono trovare degli epigoni degli Autechre, in realtà non si deve andare chissà dove, basta affrontare la bruma veneta e potrete averne una dimostrazione all’ascolto dei dischi di Von Tesla, alias di Marco Giotto, producer-automa che sa come evocare determinate atmosfere, in particolare nell’ultimo Ganzfeld, ma senza risultare, per fortuna, derivativo.

Sì, ma che musica fanno?

A dire la verità, riproporre una forma musicale come quella espressa dagli Autechre non è praticamente possibile, ed è anche per questo che vengono percepiti come snob, persino incomprensibili, proprio perché non imitabili; insomma il canovaccio è tutto loro e si possono permettere il lusso di proseguire su certe strade impervie che li hanno portati a pubblicare dischi-mostro come Elseq (2016) e le NTS Sessions (2018), oltre ad inondarci di live catturati durante l’ultimo tour, quello del 2016 che comprendeva pure una data al C2C di Torino. A proposito: ci sono stato a quella esibizione, nei social se n’era parlato tanto, ed è stata veramente dura restare svegli fino alle 4.00 del mattino nella sala principale del Lingotto. Il pubblico era numeroso, si avvertiva una palpabile attesa ed alla fine i due non hanno deluso le aspettative, mettendo su un set di un’ora circa che era partito con una ventina di minuti di suoni che andavano e venivano, il tutto assomigliava a una specie di soundcheck, che finivano per planare minacciosi dentro un ideale tunnel che portava direttamente nelle loro macchine; pensate di ascoltare la straniante registrazione di un’autopsia davvero vivida nel suono, al buio, immaginate dei Matmos meno “professori” e più “operai” che mettono da parte i campionamenti di strumenti chirurgici e ci danno dentro come due tossici presi bene di qualche grigia periferia inglese.

Oh cavolo, forse sono riuscito a definire la musica degli Autechre! in realtà ci ero cascato già un paio di anni fa parlando di “elettronica aumentata” su un altro sito, ma in fondo Scaruffi non ci era andato troppo lontano. Perdonatemi, mi faccio subito da parte, era solo per dirvi che quella esibizione era andata a una certa maniera, e in fondo riuscire a racchiudere gli Æ in una sola definizione è un po’ come togliere l’acqua del mare con le mani. Alla fine quello che conta per davvero è che i loro dischi sono davvero molto, ma molto di più di qualsiasi tentativo descrittivo, meglio ascoltare la loro musica. È giusto così, no?


Maurizio Inchingoli scrive per il Giornale Della Musica. In passato ha scritto per il web-magazine The New Noise e per Blow Up Magazine, Alias – Il Manifesto, Sentireascoltare e la rivista di cinema Rifrazioni – dal cinema all’oltre.