L’ombelico (irritato) del mondo.

Il giorno stesso in cui veniva pubblicata la mia prima irritazione, ho scoperto (ovviamente con terrore – sono ansiosa, come avete avuto modo di apprendere) che essa aveva irritato uno stimato compagno, ovvero Franco Palazzi, che conosco in veste di autore della rivista di cui sono editor. Gli ho chiesto di spiegarmi i motivi della sua irritazione, ed è nata questa lettera che ho deciso di pubblicare corredata di glosse in cui sostanzialmente cerco goffamente di pararmi il culo. A parte gli scherzi, penso che questa lettera meriti di essere ospitata nella mia rubrica perché le osservazioni del compagno Palazzi sono la corretta prosecuzione della mia lamentatio, e soprattutto una riflessione che si sforza di trarre delle conseguenze politiche non solo dal mio sfogo, ma anche dall’idea di scrivere in generale. 

Cara Elisa,
Leggo della prima puntata di questa tua nuova rubrica – “Le irritazioni della Cuter” – su una rivista appena nata – Droga – e sono, prevedibilmente, irritato. Sono così irritato da essere irritato ancor prima di avere iniziato a leggere l’articolo.
Voglio dire, una rivista interessante su cui scrive gente interessante? Un’altra? Addirittura una dove hai l’ardire di esordire parlando di ansia? E all’ansia di noi che leggiamo, non pensa nessuno? Non bastavano le new entry Jacobin Italia (cartaceo e online), Not (con allegata collana di libri), Menelique (cartacea e online), il nuovo Le parole e le cose, L’indiscreto, la nuova Dinamo Press, The Submarine – e tutte quelle che adesso sto dimenticando – che si vanno ad aggiungere a quelle preesistenti, a quelle in altre lingue, alle newsletter, ai post kilometrici su Facebook? Lo dico con in bocca il sapore amaro dell’autodenuncia, sia chiaro – per usare un riferimento che solo chi legge queste micro-riviste coglierà: “Dottore, ma quella rivista sono (anche) io!”.

Caro Franco, ti invito ad aprire la tua rubrica qui su Droga, e mi permetto anche di suggerirti un titolo, che ne diresti di “Da che pulpito”?

Mi chiedo se ci interroghiamo mai sul tipo di essere umano che segue queste riviste – una ricerca di colpevoli che immagino farebbe apparire gli sceneggiatori di Don Matteo come dei maghi della suspence. Insomma, svelando l’arcano: sono sempre le stesse persone a leggerci. Chi segue la terzultima uscita costituirà lo zoccolo del pubblico della penultima, che a sua volta comprenderà la maggior parte dei lettori della prima. Persino autrici e autori si sovrappongono come in quella scena di Aprile di Moretti (“un unico, grande giornale”): scrivi, scriviamo, su un numero indefinito di queste pubblicazioni. Quasi nessuna delle nuove creature editoriali aumenta il nostro potenziale di fare contro-egemonia culturale (Antonio, perdonami), mentre in compenso accresce esponenzialmente l’ansia da prestazione di chi ancora ci sopporta e continua a leggere (“L’hai letto il nuovo articolo di X?” “Quale, quello pubblicato su Y?” “Non, non quello!” “Ah, allora quello su Z!” “Ma no, quello l’ho letto. Credo fosse quello su W”).

Qua trovo tu sia ingeneroso e molto poco materialista nell’addossare la responsabilità dell’ansia da prestazione imperante nella nostra scalcagnata “bolla” a chi scrive e a chi offre spazi per farlo. Non è colpa di chi fonda le riviste se abbiamo interiorizzato questo bisogno di tenerci aggiornati su tutto quello che questa stessa bolla produce, se sentiamo l’impellente (quanto controproducente per il nostro sostentamento e salute mentale) bisogno di apparire su questi canali e se esiste anche qui, come altrove (ma non più di altrove, forse) la competizione tra quelli che avremmo ragione di considerare compagni di sventura. Se no sembra che speriamo che ci siano meno occasioni di esprimersi e meno luoghi per farlo, e anche se è vero che il rischio del ripetersi e allo stesso tempo spezzettarsi, frammentarsi, scindersi aumentano, io resto della convinzione che di spazi del genere non ce ne siano ancora abbastanza. Ne vogliamo di più, li vogliamo per sempre più persone, li vogliamo che paghino e ripaghino chi ci investe tempo e energie. Cosa che al momento spesso non accade. Però smettiamo di credere che fare parte di questa bolla voglia dire essere dei privilegiati: il senso del mio pezzo era proprio svelare la miseria dietro a questa condizione. Ti dirò di più, con un aneddoto: ho firmato un unico autografo nella mia vita, a una presentazione della raccolta di saggi The Game Unplugged. Mi ha avvicinato una donna sulla cinquantina che mi ha detto: “Che bravi, grazie. Sa, io faccio l’impiegata in banca e ho sempre invidiato voi che lavorate nella cultura. Dopo oggi ho un po’ cambiato idea”.

Certo, mi dirai, però questa nuova rubrica potresti almeno leggerla. E va bene allora, la leggo.

Parli dell’idea di scrivere un blog sui lavori (precari e sottopagati) che hai rifiutato e che continui a rifiutare, per combattere il senso di colpa derivante dal realismo capitalista che vorrebbe spingerti ad accettare ogni offerta, non importa quanto cattive le condizioni. Ok, forse hai ragione, questa rubrica non parte affatto male. Poi, al periodo successivo, mi cade (l’ombelico del) mondo: “Quando sei un ‘cognitario’, un precario cognitivo che si barcamena tra editoria, critica, giornalismo culturale, festival, accademia, formazione e così via, ogni proposta di “collaborazione” che ti viene offerta è, più che una benedizione, un lose-lose”. Da esperto lettore e autore di riviste di nicchia e astrusi testi accademici, mi viene da correggerti immediatamente: la categoria di lavoro cognitivo non ha niente a che fare – come uno dei suoi creatori, Paolo Virno, non si stanca mai di ripetere – con “i fighetti delle case editrici”. Al contrario, venne proposta originariamente per riferirsi a lavoratori e lavoratrici dello stabilimento Fiat di Mirafiori. Sono così irritato per questa tue definizione che sto già per partire con il corsivo in stile Euronomade (ciao compagn*, ovviamente leggo con affetto anche voi): l’errata caratterizzazione del cognitariato ti impedisce di comprendere appropriatamente il potenziale di solidarietà che attraversa la moltitudine, facendoti perdere di vista le strutturali analogie tra la soggettività di chi opera nella cultura e quelle del resto del mondo del lavoro. Insomma, compagna Cuter, manchi di una prospettiva appropriatamente critica sul capitalismo contemporaneo.

Compagno Palazzi (qua il cambio di registro è d’obbligo), lei mi mansplaina!!! Scherzo. Seriamente, ora: sulla questione non sono certo ferrato come Lei, ma sto usando il termine nella sua accezione “giornalistica”, nel modo in cui viene usata nel linguaggio comune. Treccani ad esempio inserisce il termine “cognitariato” come neologismo nel 2008 e lo definisce “Precariato intellettuale e della conoscenza”, quindi non sono troppo fuoristrada. Concordo assolutamente sul fatto che andare alla radice storica della parola possa dare già qualche prospettiva sulle possibilità del suo superamento, ma il mio utilizzo è legato al fatto che il lamento del fighetto della casa editrice (davvero Virno l’ha usato o era un virgolettato tuo?) può avere comunque una sua funzione storica, come speravo fosse emerso dal mio pezzo e come spiegherò meglio più avanti.

Ovviamente, se questa fosse davvero la mia reazione, sarebbe così fuori bersaglio da risultare grottesca: siamo talmente portati ad una scrittura ombelicale che a volte l’unico modo per criticarla sembra davvero il ricorso a concetti ancora più imprendibili per la maggior parte dei mortali – come appunto quello di lavoro cognitivo elaborato in ambito post-operaista a partire dai primi ’90. Ciò non toglie che la tua attenzione (che potrebbe benissimo essere la mia) sul nostro mondo (editoria, critica, giornalismo culturale, festival, accademia, formazione, ecc.), sempre più ristretto e sempre più destinato a scomparire nelle sue insostenibili forme attuali, mi paia effettivamente problematica.

Giorni fa, in un gruppo di cui sono parte, una persona che sta facendo un soggiorno di ricerca accademica confessava di avere difficoltà crescenti a sbarcare il lunario e chiedeva consigli su come racimolare due soldi. Gli hanno suggerito in diversi (e non ironicamente) di provare con il sex-work online (ché tanto i nostri venticinque lettori lo sanno cosa vuol dire e poi siamo ancora in fascia protetta). Credo che la cosa più sconcertante sia la plausibilità del suggerimento: le nostre condizioni occupazionali sono davvero molto più prossime a quelle di chi fa il cam boy o la cam girl che a quelle di chi svolgeva il nostro lavoro una o due generazioni fa – ma quant* di noi, al di là dei nostri stoici proclami (rigorosamente peer-reviewed) sul fatto che sex works is work (per chiarezza: ci credo davvero), direbbero durante una cena tra amici che per potersi permettere di scrivere quel libro così ben recensito hanno dovuto fare quella cosa con la bocca che piace tanto? O quant* ammetterebbero nei propri scritti pubblici che per riuscire a scrivere sia le cose che devono sia quelle che vogliono hanno smesso di avere tempo per una vita sessuale e relazionale soddisfacente quando c’era ancora l’Unione Sovietica? (Sì, ok, l’ho appena fatto, ma insomma hai capito il concetto). Sogno un giorno una rivista in cui non scrivano solo le solite persone, ma anche le operaie di Mirafiori, i sex-workers, gli immigrati che raccolgono i pomodori nei campi – e che lo facciano con un linguaggio composito, che sia comprensibile e abbia senso per tutte queste categorie.

Pure io, magari. Lo dico per motivi puramente estetici, però, non etici, né politici. Soprattutto se quello che invece riescono a produrre quelli che in teoria riescono ancora a farsi pagare per scrivere sono solo monologhi egoriferiti come il mio!

E tuttavia – mi potresti dire – questa nuova rubrica non riguarda proprio la presa di coscienza di una condizione professionale e generazionale assai più ampia delle apparenze? Scrivi: “ho atteso per anni l’agognata e faticosa conquista di una borsa di dottorato come un miraggio di stabilità, scrivendo articoli pagati 50 euro quando andava bene e pensando ogni volta: “ah ma appena prendo la borsa col cazzo che faccio ancora cose del genere”. Poi la borsa l’ho vinta, eppure mi trovo nella stessa situazione di ansia e paralisi di fronte a ogni offerta che ricevo. E quasi sempre finisco con l’accettare. Il fatto che la suddetta borsa finirà tra tre anni non è una motivazione razionale sufficiente, perché è chiaro che di questo passo la mia sanità mentale potrebbe esaurirsi benissimo prima di questi tre anni, quindi sarebbe più saggio usare questi tre anni per tirare il fiato, raccogliere le energie, o studiare, tipo. Il fatto che la mia mente si ostini a ragionare caparbiamente contro il mio stesso interesse mi fa pensare che la precarietà mi abbia rovinato per sempre, mi abbia davvero modificato le sinapsi, mi abbia mutato antropologicamente da essere umano a ufficio stampa di me stessa”. Non potrei essere più d’accordo con questo, lo sai.

Con cosa sono in disaccordo, allora, mi domanderai. Sono in disaccordo con il senso di colpa di cui parli in quel passaggio e in tutto il resto della rubrica – il senso di colpa suscitato dal double-bind prodotto da un fottuto bando da 1600 euro: se partecipi sei una stronza perché potresti toglierlo a chi sta peggio di te, se non partecipi sei un’illusa perché a breve anche tu tornerai a trovarti con il frigo vuoto e un conto bancario in doppia cifra. Sono in disaccordo perché non vedi che quel senso di colpa è anche il mio, il nostro, quello dei nostri venticinque lettori – ma è pure, paradossalmente, ciò che ci impedisce di vedere le cose che ci accomunano veramente, ci impedisce di vedere (Virno mi perdonerà se non gli verso le royalties oggi) il comune.

Esatto, anch’io sono contraria al mio senso di colpa! Nel pezzo fingo di prendermela con il bando di Che fare perché in realtà me la sto prendendo con il mio senso di colpa interiorizzato. Ed è perché sono stanca di sentirmi in colpa che ribadisco l’importanza fondamentale di non scadere mai nella retorica del “check your privilege”, che trovo particolarmente datata in un’epoca in cui ad aver ottime ragioni per lamentarsi è il famoso 99%. Anzi, ti cito proprio Femminismo per il 99% di Arruzza, Bhattacharya e Fraser: “In tempi ‘normali’ le tendenze della crisi di sistema rimangono più o meno latenti e affliggono ‘solo’ quella parte della popolazione ritenuta sacrificabile e inerme. Ma questi non sono tempi normali. Oggi tutte le contraddizioni del capitalismo hanno raggiunto il punto di ebollizione. Praticamente nessuno – con la parziale eccezione dell’uno percento – può sottrarsi all’impatto della dislocazione politica, della precarietà economica e dell’esaurimento della riproduzione sociale, mentre il cambiamento climatico minaccia di distruggere ogni forma di vita sul pianeta”. A me sembra che ancora troppi nella nostra condizione di cognitari (tié!) siano preoccupati di guardare il lato positivo della loro situazione, il loro presunto “privilegio”, e che si facciano carico delle istanze di categorie di cui sentono il desiderio di occuparsi mossi da sentimenti nobili ma evidentemente già abbondantemente calpestati e fallimentari come la solidarietà, l’umanitarismo, la responsabilità. Ora, questa strategia ha due punti deboli: in primo luogo scade spesso nel paternalismo, in secondo rischia di non sfruttare quella che invece sarebbe la crepa ideale per riportare al centro il discorso di classe, ovvero la rabbia sociale. La frustrazione. L’interesse (di classe e comune, non individuale) insomma, per un sistema nuovo. Un interesse che a me ricorda il desiderio di cui parli più avanti.

E allora non importa se magari quel bando lo vinco io e forse noi non ci siamo mai incontrati fuori dal vortice delle riviste e delle recensioni – perché io dirò a te e ai nostri venticinque lettori e alla nostra redattrice sex worker e al nostro correttore di bozze raccoglitore di pomodori che quei soldi non sono miei, sono nostri, e che chi ne ha bisogno in questo momento se li prende. Il passo successivo sarà capire che quel poco di ricchezza che ancora producono i libri, i pomodori, o quelle cose che si fanno con la bocca non ha niente a che fare con le caratteristiche intrinseche di questi beni o servizi – ha a che fare invece, come ogni altra ricchezza, con il nostro vivere, cooperare e pensare insieme, molto al di là dei confini delle riviste e dei campi e delle bocche e della clitoride (questi ultimi peraltro molto più estesi di quanto si pensi: studiamo, maschi). La visibilità di cui ci ricompensano e ci ricompensiamo vicendevolmente è quanto di meno visibile esiste: i nostri articoli, i nostri libri, le nostre riviste, le leggono quando va bene migliaia di persone – sempre le stesse. Dobbiamo allora ammettere di avere un problema, di essere dei tossici: non importa quanto male ci trattino o quanto poco o più spesso niente di paghino, noi continueremo comunque a scrivere a più non posso, trascurando inevitabilmente tutto quanto è non-scrivere.

È certamente una dimostrazione della serietà della nostra dipendenza che la nozione di non-writing l’abbia introdotta Anne Boyer in un suo recente libro – persino fare coming out riguardo la nostra dipendenza pare impossibile senza reiterarla. Nondimeno, non credo si tratti di una condizione invincibile, di una patologia degenerativa impossibile da fermare. Possiamo sempre scriverci di non scrivere. La prossima volta che a me, a te o alle nostre venticinque lettrici verrà in mente di scrivere una nuova rubrica, un nuovo libro (ti ho detto che sono a metà del prossimo?) o – dio non voglia – di mettere su una nuova rivista, scriviamocelo. Scriviamocelo per poi risponderci vicendevolmente che siamo pazzi, per sentirci chiedere se lo vogliamo davvero, per essere rassicurati che anche se non troviamo il tempo per farlo non succederà niente – il mondo non cambierà se scriviamo una cosa in più o in meno. A ben vedere, ammetterlo è la vera premessa da fare per provare a cambiarlo sul serio il mondo, e per continuare a scrivere – di meno e meglio, con più persone e per più persone, solo quando abbiamo la forza di farlo, solo a patto di avere qualcosa di incontenibile da dire, mai per sentirci meno in colpa. Una scrittura che sia un modo di fare comune, di prendere un anticipo dall’editore e di girarlo con serenità a quell’amico che morirebbe di fame a fare il cam-boy (ok, mi avete beccato, sganciate la grana). Una scrittura guidata non dal senso di colpa, ma dal desiderio – che poi è sempre desiderio di possibile.

Hai ragione su tutto, ed è una cosa su cui ho riflettuto molto durante questa quarantena: non ho voglia di “esserci” se non ho niente da dire. E però, anche solo all’interno della nostra bolla, non possiamo arrogarci il diritto di stabilire chi è che scrive solo per non sentirsi in colpa, o perché non sa cos’altro potrebbe fare (questa crisi sanitaria dovrebbe averci dimostrato che i lavori “necessari” sono molto meno specializzati di quanto non ci illudevamo che fossero. E però: che senso ha parlare di piena automazione se poi non possiamo convenire che non ci sia niente di cui vergognarsi ad ammettere che scrivere, anche cazzate, anche controvoglia, sia spesso più piacevole o comunque molto letteralmente più safe di fare il rider?), chi per realizzare il “sogno” autoimprenditoriale di fare parte di un mondo che continua a idealizzare come luccicante quando invece quasi sempre è fatto di sconforto costante e di paghe da fame, e chi invece lo fa perché autenticamente mosso da un sacro fuoco? Senza contare che c’è anche invece avrebbe un sacco di cose da dire ma non può più permetterselo per motivi economici o, per prendere in prestito il bel termine di Ivan Carozzi, di neurosostenibilità del lavoro culturale. Lo ribadisco solo perché è fondamentale non far passare appunto l’idea che l’emancipazione da quella che tu chiami correttamente dipendenza passi solo dal lavoro (individuale) di autocensura o di ridimensionamento della propria autopercezione. Si tratta anche e prima di tutto di un problema molto materiale, di sussistenza, come cercavo di sottolineare.

Ora, ho capito, questa nuova rivista l’avete creata – e a me toccherà pure leggerla perché sembra molto bella. Però usatela, usiamola a fin di bene. Continuiamo questo nostro scambio sullo scrivere e il non-scrivere, invitiamo gli operai e le braccianti e chi paga l’affitto grazie al sesso e chi l’affitto non lo paga, invitiamo chi scrive sulle altre riviste (mica difficile: la metà siamo noi, l’altra metà amici di qualcun* di noi), invitiamo chi non scrive ma vorrebbe e chi vorrebbe smettere di farlo ma non ce la fa. Irritiamoci insieme, irritiamo il mondo che c’è oltre l’ombelico – anche perché, dermatologicamente parlando, sai che male.

Insomma, pretendiamo un benedetto reddito universale, e poi scriva chi (e solo quando) ne ha voglia, concordi? Qui  il link per firmare la campagna promossa dal Basic Income Network (BIN) Italia.  https://secure.avaaz.org/it/community_petitions/al_governo_ed_al_parlamento_italiano_estendere_il_reddito_di_cittadinanza_se_non_ora_quando_/?fJjogcb&utm_source=sharetools&utm_medium=facebook&utm_campaign=petition-901728-estendere_il_reddito_di_cittadinanza_se_non_ora_quando_&utm_term=Jjogcb%2Bit&fbclid=IwAR27ITWBl7nxh-Q934F1fXdqDmkzyaPksUvqpleEqIyypreF5PZtWoF80ow

Un abbraccio, in barba al corona-virus.

A te, stella, e grazie.

P.S.: Comunque sì, Virno l’ha detto davvero:



Elisa Cuter, editor di “Società” del Tascabile, è dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Per Filmidee, Doppiozero, Blow Up e Not si occupa principalmente di cinema e questioni di genere e collabora con il Lovers Film Festival di Torino e la Berlin Feminist Film Week.