CHE FARE con l’ansia.

Una ragazza che conoscevo aveva un blog che si chiamava “le cose che perdo”. Elencava le cose che aveva seminato in giro in circostanze comuni o, più spesso, alterate, accomiatandosene. In ogni entry elencava cimeli di famiglia appena ereditati, accessori costosi acquistati risparmiando, documenti, soldi, guanti comprati dai cinesi, diplomi, ricordi d’infanzia… tutti non pervenuti dopo una qualche serata o un viaggio sui mezzi; tutti democraticamente elencati, magari accompagnati da una foto del tempo più o meno breve passato insieme. Il blog (che esiste ancora, inattivo dal 2014, trasmigrato su Tumblr) ai miei occhi grondava rammarico e autoflagellazione. Allo stesso tempo mi sembrava una soluzione astuta al senso di inadeguatezza e frustrazione tipico di chi non sa “tenere d’acconto”, per dirla con mia madre, le cose – o la propria vita, per estensione. Leggendolo percepivo il sollievo che doveva provare nello scrivere, la quiete che doveva probabilmente derivare dal sentire di aver fatto pace almeno un po’ con questa costante emorragia di oggetti, e anche uno sberleffo intimo che stava facendo a chi la accusava di leggerezza e sbadataggine. È il tipo di illusione di controllo che hanno gli ossessivi compulsivi: non è vero che qua va tutto a puttane, c’è del metodo, guarda, è tutto registrato qui.

Da ossessiva e control freak a mia volta, ho iniziato a fantasticare di fare un blog simile, non sulle cose che perdo bensì sui lavori che rifiuto. Quando sei un “cognitario”, un precario cognitivo che si barcamena tra editoria, critica, giornalismo culturale, festival, accademia, formazione e così via, ogni proposta di “collaborazione” che ti viene offerta è, più che una benedizione, un lose-lose: l’offerta allettante ti pone davanti una meno allettante alternativa tra il sobbarcarti anche quest’altra cosa pagata comunque troppo poco, o il rinunciare alla “visibilità” che potrebbe derivarne. Visibilità che, nella migliore delle ipotesi, ti procurerà in futuro una costante serie di offerte analoghe e così via, in una catena che si interromperà solo quando ti verrà un tumore al cervello e ti spegnerai lentamente tra atroci sofferenze, probabilmente facendo il calcolo mentale delle fatture che devi ancora fare entro fine anno come mantra “rassicurante” – semplicemente per automatismo, per habitus, per deformazione professionale. Che ve lo dico a fare? Sono cose che conoscete benissimo. Per quanto mi riguarda, ho atteso per anni l’agognata e faticosa conquista di una borsa di dottorato come un miraggio di stabilità, scrivendo articoli pagati 50 euro quando andava bene e pensando ogni volta: “ah ma appena prendo la borsa col cazzo che faccio ancora cose del genere”. Poi la borsa l’ho vinta, eppure mi trovo nella stessa situazione di ansia e paralisi di fronte a ogni offerta che ricevo. E quasi sempre finisco con l’accettare. Il fatto che la suddetta borsa finirà tra tre anni non è una motivazione razionale sufficiente, perché è chiaro che di questo passo la mia sanità mentale potrebbe esaurirsi benissimo prima di questi tre anni, quindi sarebbe più saggio usare questi tre anni per tirare il fiato, raccogliere le energie, o studiare, tipo. Il fatto che la mia mente si ostini a ragionare caparbiamente contro il mio stesso interesse mi fa pensare che la precarietà mi abbia rovinato per sempre, mi abbia davvero modificato le sinapsi, mi abbia mutato antropologicamente da essere umano a ufficio stampa di me stessa. La piena automazione, dicevano. Eccoci: la mia psiche si è compiutamente automatizzata, va avanti a self-promotion, gode solo nel depennare le cose dalla to-do-list, si rifiuta di addormentarsi ogni sera perché chi dorme non piglia like. È così che, visto che ormai ho una busta paga a fine mese “dignitosa” (qui potremmo comunque aprire un altro capitolo) e che fare il conto delle fatture non mi calma più come prima, ho iniziato a accarezzare l’idea del blog di cui sopra: i lavori che ho rifiutato.

Da un lato sarebbe una soluzione al senso di colpa: in questo inferno il fatto di ricevere comunque delle proposte è percepito come un privilegio, e se non le cogli sei una brutta persona, un ingrato, te lo meriti di finire a vivere per strada, non ti sei impegnato abbastanza, le occasioni non sono mancate eccetera. Ebbene: vediamole davvero queste “opportunità”, contiamole dopo qualche anno, contiamo soprattutto i soldi che avresti racimolato se avessi detto di sì a ognuna. Ho come il sospetto che mi accorgerei che non mi cambiavano la vita. Dall’altro lato, inaugurare questo blog vorrebbe dire evitarmi di occupare il mio #tempo (e conservare della salute mentale) pur senza rinunciare all’assurdo sollievo del far sapere a un non meglio precisato “mondo” (che pure ha chiaramente altri problemi di cui occuparsi) che qualcuno là fuori aveva pensato a me per una qual certa mansione. Una bella paraculata per salvare capra e cavoli insomma, un po’ l’opposto di quell’opera caritatevole che fu l’iniziativa (diventata virale un po’ di anni fa) di vari accademici di mettere online curricola che elencavano le applications fallite e i paper rifiutati nella propria carriera. Ma, quello sì, è un privilegio che non sento di potermi permettere.

E arriviamo così al dunque dell’episodio che mi ha suscitato l’“irritazione” da cui prende il nome questa rubrica. Qualche mese fa stavo leggendo un libro pubblicato in ebook da doppiozero e Che Fare nel 2015 che si chiama Lavoro totale di Maurizio Busacca, in cui si diagnostica sensatamente: “I lavoratori cognitivi convivono con la loro impotenza, ma sono continuamente destinatari dell’invito a fare e a innovare, uniche soluzioni possibili per evitare il futuro nefasto.” Proprio la mattina dopo aver letto e sottolineando questo e altri passaggi analoghi con grandi cenni d’assenso del capo, ricevo da un amico la segnalazione di questo bando, lanciato sempre da Che Fare, per un progetto di residenza artistica. In un articolo che lo promuove (scritto da una persona che stimo molto per il suo lavoro di divulgazione scientifica e per la sua conoscenza sconfinata di cose nerd a me completamente ignote come Giulia Trincardi) si legge che “Chi viene selezionato […] avrà a disposizione 1.600 euro lordi (esatto, veri soldi), 15 giorni di residenza artistica in uno tra sei nuovi centri culturali con vitto e alloggio pagato, 5 mesi di programma di residenza (con corsi e workshop formativi) e—ovviamente—la pubblicazione in una raccolta di scritti sulla scena dei centri culturali che rappresentano un’ossatura fondamentale della cultura italiana di oggi.” Lo leggo e la prima reazione è di rabbia, quella che mi illudo serva per trasformare la mia ansia e la mia paranoia in qualcosa di politicizzabile, perché non posso non osservare come questa notizia fa sentire me, che comunque ho una borsa di dottorato e un contratto annuale con partita IVA con una rivista culturale e una momentanea stabilità – lusso che tanti con competenze pari o quasi sicuramente superiori alle mie non possono vantare. Mi incazzo (è paradossale, no?) perché qualcuno ha recuperato dei soldi per fare una cosa figa, perché mi offrono l’ennesima “opportunità”. Presa dall’ansia del fare di cui parla Busacca penso che forse dovrei partecipare, perché è un attimo che non sei più under 35 (come richiesto dal bando), perché tra tre anni sarò disoccupata, perché evidentemente non sto lavorando abbastanza, perché potrei risparmiare dei soldi per andare a scrivere in montagna, magari tirare il fiato per qualche settimana, perché devi accumulare esperienza e soldi (“soldi veri!”) se no arriverà l’apocalisse e sarò impreparata. Poi subentra il senso di colpa che mi causa l’idea di tentarla. Un senso di colpa morale, da un lato: perché nel mio piccolo sono già una privilegiata, ho già due lavori pagati decentemente eccetera; e pratico, dall’altro: mettermi a tentare questo progetto implica #tempo tolto ai progetti a cui sto già lavorando, a maggior ragione nel caso quantomai improbabile  lo vincessi. Oltre a questo ci sono anche altre cose a turbarmi, capisco, mentre da qualche parte si riaffaccia la lucidità di stabilire che non ha senso iscriversi, mettitela via. La prima è che il bando è puramente meritocratico, non ha criteri d’accesso basati sul reddito – che ok, capisco che con 1600 euro non ci campi di sicuro, ma non è assurdo che non ti chiedano quanto guadagni e se ne hai bisogno? Poi, mi disturba l’assenza totale di imbarazzo, l’orgoglio e il tono trionfale con cui viene presentato questo bando, come una svolta per chi lo vincerà, un’opportunità che “siamo orgogliosi di presentare.” Del resto so benissimo che le persone che lavorano per Che Fare sono persone precisamente come me, persone che si fanno un culo esagerato per pochi spiccioli e che giustamente si sentono fiere di esser riuscite a portare a casa qualche fondo da devolvere, qualche opportunità da dare a qualcuno. Vi capisco, gente, e non voglio fare la morale a nessuno. Il problema non è il bando, né i toni. Il problema è la spirale di ansia in cui viviamo tutti, io, voi, noi insomma. Incazzarsi è da stronzi, è inutile, ci divide invece di unirci eccetera.

Però qualche settimana dopo, a bando chiuso, arriva (sulla sua pagina Facebook) un commento di Bertram Niessen, presidente e direttore scientifico di Che Fare, (anche lui una persona che stimo e a cui sono in vari modi grata), che annuncia: “A Bagliore hanno partecipato in 459/ 4 5 9/ Vuol dire che c’è una fame enorme di storie diverse.” O forse piuttosto che c’è una fame enorme… e basta? La retorica del post mi atterrisce, perché arriva da una persona sulla quale non nutro alcun dubbio riguardo alla coscienza dei problemi di cui sto parlando in modo confuso e personale da ormai quasi 10.000 battute. Il post continua: “Adesso ovviamente noi abbiamo un enorme lavoro da fare per cercare di scegliere i migliori/ ma chi non risica non rosica” (corsivo mio). Beh, buon lavoro, Bertram. E non volermene, non sono migliore di nessuno, anzi ora che ci penso questa colonna è uno dei lavori che avrei dovuto rifiutare se fossi in grado di gestire meglio il mio #tempo e la mia ansia. Un saluto affettuoso ai fan dei fan delle strutture ricorsive dal cul-de-sac in cui vive stabilmente un cognitario.


Elisa Cuter, editor di “Società” del Tascabile, è dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Per Filmidee, Doppiozero, Blow Up e Not si occupa principalmente di cinema e questioni di genere e collabora con il Lovers Film Festival di Torino e la Berlin Feminist Film Week.