Aprile dolce dormire.

Pedalo in quest’aria che ha la consistenza della primavera. Tutte le strade sono deserte, più deserte del solito, per via della domenica.

La città spettrale ha ceduto il passo agli animali. Le loro voci si fanno ogni giorno più sicure. Hanno cominciato esitando, un mese fa. Oggi acquistano potenza, ampiezza. Il suono è spavaldo, deciso.

Le piante, anche. Ogni singolo spostamento di vento è un annuncio. Un movimento di cui dobbiamo sapere, di cui dobbiamo testimoniare.

Noi veniamo per ultimi. Noi umani, in questa insolita ricomposizione dell’assetto della città, del suo piglio guerriero, siamo noi che timidamente arranchiamo, indietreggiamo, ci nascondiamo.

Gli umani che incontro per strada mentre pedalo sono ombre. Si muovono piano, cercando di non farsi notare. Nel movimento cercano tutti di sottolineare la necessità. La necessità dell’attività che li ha portati temporaneamente ad attraversare questo spazio pubblico ormai tabù.

Nelle attività che il potere ritiene ‘necessarie’ e giustificabili motivi di spostamento c’è la spesa, la salute, e poco altro.

Tutti quindi cercano di interpretare questo striminzito scritto in modi diversi, si sforzano di credere che qualcosa sia davvero necessario, provano a darne un segnale sul volto.

Quello che più mi colpisce quando incontro questi umani impegnati a interpretare la necessità, a fornire una convincente rappresentazione della necessità (convincente per il potere), è quello che loro provano a nascondere.

I corpi sono nascosti sotto bardature di guanti, mascherine, cappotti, cappelli, che la gente  si ostina a pararsi addosso, nonostante la primavera che avanza e che li rende non soltanto inutili ma insopportabili.

Incrocio il corpo di un ragazzo in bicicletta. E’ scuro, forse un bangla. Dietro la schiena porta il fardello colorato di Deliveroo. Pedala piano, sotto il peso di chissà quale tipo di cibo che sta portando a destinazione. Incrocio il suo sguardo. La mascherina azzurra sottolinea la sua carnagione scura, gli occhi neri, profondi. Lo guardo, mi guarda. Sento in quello sguardo tutto il peso del suo corpo, e quello del mio. Due corpi dimenticati, messi da parte nell’urgenza delle necessità del virus.

La ragazza di cui sfioro la gamba bianca e depilata spuntare dai calzoncini neri da jogging. Il signore di mezza età che si trascina dietro al cane. Il pischello che si sta facendo una birretta alla fermata dell’autobus, con la mascherina tirata in giù. La giovane strafatta buttata sul marciapiedi che urla a un ragazzo a distanza di sicurezza di andarsene, o forse di andare a farsi fottere. La signora che, distrattamente, ad ogni vitale boccata di fumo, tira giù un pezzetto di mascherina per avvicinare la sigaretta alle labbra.

Osservo questi corpi dall’aria che ha consistenza di primavera. Sono corpi impegnati a rappresentare le necessità, ma la cui vibrazione è chiara. Io la sento chiara. La necessità dei corpi.

In ognuno di questi posti che visito da lontano con lo sguardo, e attraverso di fretta sulla bicicletta riconosco qualcosa. Qualcosa di me nella vita passata. Qualcosa della primavera, che quando inizia rende questa città davvero speciale. Ogni posto vuoto lo riempio di corpi che un giorno erano li, ad attraversarlo. Corpi che hanno camminato, sudato, sputato, ricordi organici di cose che oggi sembrano dell’altro mondo. Corpi con cui ho avuto a che fare, io, come corpo.

Quando comincia il caldo questa città muta. Specialmente nei mesi estivi, agosto, nella città tutto diventa possibile. Corpi vengono lasciati agire nello spazio, si rilasciano energie senza troppi pensieri. Si lascia che il corpo detti ciò che vuole, come se la vuotezza della città fosse in qualche modo la promessa certa che il desiderio si esaudirà, che c’è spazio per tutti, per tutto. Che ogni cosa è possibile, in questa città, d’estate, nel vuoto dello spazio e nel pieno del desiderio.

Questa città del virus è vuota proprio come quella città d’estate. Il fatto che cominci a fare caldo mi inganna, fa scattare nel mio corpo quell’immagine di vuoto e desiderio che appartiene ai mesi speciali, i mesi in cui il caldo abbaglia, la ragione molla, il resto si estende all’infinito.

Ho come la sensazione che il desiderio abiti, debba per forza abitare, tutti questi corpi che incrocio mentre pedalo e passo in rassegna la ragazza del jogging, il signore del cane, il pischello della birra, la giovane sfatta, la signora e la sigaretta.

Torno al bangla del Deliveroo e ai suoi occhi scuri. Immagino che quello sguardo fra noi basti a tutto. Immagino che l’unica cosa che conta adesso è scopare. Fermo la bici, ferma la bici.

La poggio a terra, lui si slaccia il fardello blu del Deliveroo. Ci guardiamo per un po, nella distanza ‘sociale’. Non so se cominciare a prenderglielo in bocca oppure mettergli la lingua addosso. Non so se chiedergli di aprire il fardello blu, dove il cibo è confezionato a norma di legge dentro il cellophane trasparente, e dirgli di piano piano togliere una per una quelle pellicole e mettermele addosso. Incellophanarmi mani, piedi, sedere, gambe, fica, tette. E naturalmente, faccia. Poi leccarmi, pezzettino per pezzettino, ogni singolo centimetro di cellophane trasparente.

Non so se accarezzarlo con i miei guanti di lattice rosso.

Non so se fermare la ragazza del jogging, e far arrampicare le mie dita dal ginocchio sudato della corsa su fino all’apertura delle cosce, infilarle nella fica morbida, succhiarla fino a farla venire. Non so se fermare il signore di mezz’età, prendergli gentilmente il guinzaglio, appoggiarlo al manubrio della mia bici, e con l’altra mano attirarlo a me, baciarlo. Non so se piazzarmi all’improvviso davanti al pischello incredulo, togliergli la birra di bocca, fare un cerchio con la lingua li dove erano poggiate le sue labbra. Non so se avvicinarmi alla giovane sfatta che sbraita contro il ragazzo a distanza e prenderli insieme in un abbraccio violento, tutti e due, mettere prima la lingua dentro quella di lui e poi passarla dentro quella di lei. Non so se chiedere con decisione alla signora che fa boccate dalla mascherina di spegnere addosso a me la sua sigaretta, in modo che il mio corpo possa sentire, sussultare, soffrire, segnarsi.

Sono pensieri folli. La primavera avanza nella città deserta. Il corpo, i corpi di questi esseri umani intenti ad uscire per ‘necessità’ chiedono cose indicibili all’aria che si riscalda. Cose che rimangono sospese a mezz’aria, cose che aspettano in agguato, cose impigliate nella parte che non si vede, che lascia intendere, sotto la mascherina, oltre gli occhi.

Aprire le gabbie

Le strade svuotate, cerco qualcosa. Sono in giro non per noia, non per ribellione, non per anarchia.

Per desiderio.

Desiderio di rianimare il corpo sociale, quello che una volta era il corpo sociale ed ora è piuttosto un cadavere.

‘Tu, tu’, mi urla un tipo alla fermata del tram mentre pedalo verso i binari. ‘No hai mascherina, no hai paura’, vedo i denti sbilenchi nella sua risata di sfida. ‘Ma sei giovane!’, ride ancora più forte, immagino tutte quelle goccioline possibilmente infette venire fuori dalla caverna della sua bocca. Dovrei allontanarmi, non lo faccio.

Lui mi sfida. Forse vuole rimorchiare. I coraggiosi o perversi o folli o incoscienti a spasso per questa città sono tutti freak. Nemmeno la polizia li tocca, nessuno li ferma. Molti sono immigrati. Moltissimi sono barboni, senza tetto. Non portano la mascherina oppure la portano abbassata a toccare la gola perché la bocca gli serve per bere, per fumare. Sono spavaldi. Sono i padroni nella città.

E’ come ad agosto. Si aprono le gabbie, escono i freak. La città viene presa d’assalto dalla legge non scritta. La gente coi soldi, la gente normale colle famiglie, i non-disturbati, stanno in vacanza. Non certo a schiattare di caldo nel cemento d’agosto. I freak allora si allargano, prendono possesso finalmente dello spazio e del tempo, si spaparanzano e si accomodano nel loro spazio e tempo.

Così è nella città del virus. La gente non-disturbata si chiude in casa. I freak non hanno nulla da perdere col virus. Con le loro mascherine abbassate e la birretta in mano ti guardano con appetito, provano a capire se anche tu che giri con l’aria menefreghista sei una di loro dentro, anche se indossi eleganti guanti di pelle rossa mentre pedali.

Ride, mentre mi sfida a capire se ho paura o meno ad avvicinarmi a lui. Io che non porto mascherina ma giro con guanti di pelle rossa. Un dialogo ravvicinato con questo qui mi sembra come scopare senza preservativo negli anni 80, come se ti potessi prendere l’AIDS soltanto respirando l’aria delle goccioline. Questi personaggi mi ricordano certi amici gay che dicono fanculo, e guardano il virus dall’alto in basso, in modalità sfida. Niente preservativo, niente mascherina.

La città del virus è il loro regno, come la città d’agosto. Escono a fiotti, i derelitti della città, i dimenticati, gli appestati. La città dei sani li ignora, fa finta di non vedere quelle mascherine a mezz’asta.

Io li trovo ovunque, ovunque spuntano, e sorridono con aria di sfida, pronti a saltarti addosso se solo ti avvicini, divertiti, menefreghisti, irriverenti.

Almeno loro hanno un senso del corpo, mi dico. Di quel loro corpo sbilenco e in declino non a causa del virus, ma della vita.

Gesto eroico/erotico

Con i miei guanti rossi di pelle e il fiato pronto ad entrare a pieno ritmo nei polmoni credo di poter compiere un gesto eroico, un gesto erotico.

Respirare. Riempirmi i polmoni di sano respiro salubre. Un, due, tre.

Intanto preparare i palmi delle mani, rosse di pelle rossa come il mio guanto. Pronta a posizionare i palmi esattamente al centro del torace, disegno una linea immaginaria con i capezzoli. Le braccia sono tese, tutto il peso del mio corpo è pronto a sostenere, a farsi carico del gesto eroico/erotico.

Immagino di comprimere, profondamente e rapidamente. Non ho paura di fare male, il dolore fa parte del gesto eroico/erotico. Il dolore fa godere. Le mie braccia sono tese, rigide, decise. Mi lecco i palmi delle mani rosse nel caso ci volesse lubrificazione extra per questo corpo da tempo asciutto, da troppo tempo immobile, insensibile, desensibilizzato, buttato lì, secco come un ramo secco.

Mi sputo sui palmi delle mani rosse perché un po’ di liquido non guasta nella rianimazione della secchezza. Stuzzicare, eccitare, lubrificare la secchezza del corpo secco.

Massaggio con la saliva rossa delle mani rosse il cadavere immobile e penso: non è un gesto necrofilo, è giusto un gesto eroico/erotico. Il corpo sociale giace a terra privo di vita. Mi do da fare per rianimarlo. Lecco, spingo, massaggio. Gli urlo: vuoi prendere un po’ di fottuta vita?

Mi avvicino e con le dita rosse gli tappo il naso. Prendo respiro salubre, un due tre, e gli insuflo aria nella bocca per tre volte. Spingo con forza, con capriccio, con rabbia. Il torace del cadavere si espande e quindi torna in posizione di riposo.

Adesso mi avvicino ancora di più, siamo ancora più intimi. Comincio la respirazione bocca a bocca. Comincio a respirargli aria sana dentro, a baciarlo, a passargli la lingua sotto tutti i denti come per lucidarli. Gli accarezzo il palato con un gesto osceno della lingua, come se avessi fra le dita la più bella fica, il più bel clitoride da far venire.

Il cadavere sociale fa un sussulto, forse non si aspettava che usassi il palato per masturbare. Rinviene, spero abbia anche goduto un po’. E si risveglia. Il gesto eroico/erotico è compiuto. I miei guanti rossi ne escono indenni, asettici.


Nelle sue differenti versioni ed identità, Donatella Della Ratta è stata autrice televisiva su una rete nazionale ma non nazional-popolare; giornalista di un quotidiano comunista ma non comico; community manager in quel della Silicon Valley e social agitator in c’era una volta il Medio Oriente.  Attualmente scrive, performa e fa la prof all’università, seria ma senza prendersi troppo sul serio.