Porno e Pandemia.


L’apocalisse è arrivata, nuovi mondi desiderabili sono possibili. Dall’infinita tristezza alla più iconica leggerezza, passando per fasi di smart working, di studio matto e disperato, tentativi di cucina vegana e di bucato senza sprechi, il COVID19 ha permesso che venissero toccate tutte le fasi di una crisi claustrofobica da quarantena. Sul frangente pornografico, questo ha comportato il fiorire di film e fotografie dedicate alla rappresentazione sessualizzata delle conseguenze della nuova malattia. Uomini coperti abbigliati in tute sanitarie anticontaminazione praticano atletici amplessi con donne in camice da paziente, persone con i volti parzialmente coperti dalle mascherine si abbracciano con foga in quella che sembra una deserta provincia di Hubei. Non si baciano, e quasi non si assiste al sesso orale, ma probabilmente togliere la mascherina, anche se per poco, avrebbe comportato la rottura della finzione scenica.

Nella sua versione più titillante, il sesso si intreccia a divieti, proibizioni, pericoli. È sconsigliato avere rapporti sessuali con i propri parenti, ma l’incesto è il taboo può remunerativo del mondo. Bisognerebbe prestare attenzione alla strada, quando si guida, eppure la fellatio praticata in autostrada è un grande classico, il tubino nero di tutte le fantasie sessuali. La sporcizia non è necessariamente igienica, eppure fantasie, parafilie e categorie porno come comprendono polvere, fango, cenere e fumo, spesso da inserire e soffiare in orifizi vari ed eventuali. La malattia è solo un piolo di una scala molto lunga. In fondo, un corpo malato è sempre un corpo desiderante, per certi aspetti solo un corpo impegnato in una transizione, e nulla impedisce che possa diventare anche un corpo desiderabile. Inoltre, la malattia è una rappresentazione di un pericolo particolarmente interessante perché non statico: il contagio. Se generalmente il porno mainstream viene considerato come una riaffermazione di valori canonici, tradizionali, che mostra ed esige corpi giovani, sani, esteticamente attraenti e performanti, il materiale pornografico che deriva dal taboo e dal desiderio di pericolo, ha in sé un potenziale rivoluzionario. È il porno scomodo a dare voce a chi viene silenziato perché difficile da vendere alla luce del sole, come i corpi grassi, butterati, malandati, fuori dalla norma e lontani dal socialmente accettabile. È la pornografia che nasce dall’indicibile a raccontare le caratteristiche del tempo che viviamo, in maniera non dissimile dalla letteratura classica, o dal cinema tradizionale. Il porno non malato, quello che è in grado di rappresentare solo l’incontro di generi ritenuti dalla morale cattolica come complementari, il quotidiano come un patinato susseguirsi di eventi e di esclamazioni di gioia che hanno nell’orgasmo maschile il loro parossismo ha molto della commedia romantica, ma è lontana dalle caratteristiche perturbanti che tendiamo ad associare a ciò che riteniamo “erotico”.

Un erotismo privo di ostacoli non può esistere, siano essi taboo, confini fisici o emotivi. Negli anni Novanta, il periodo aureo dell’AIDS, è comparsa sui siti pornografici la categoria “positive”: corpi emaciati, evidentemente pallidi e stanchi erano motivo di oscuri e incontrollabili pulsioni. Nonostante la morte, la malattia, le perdite di persone care e lo stigma sui malati, la regola 34 di Internet si faceva coraggiosamente valere, ed ecco che l’immaginario erotico si arricchiva di categorie, quantomeno, singolari. Qualche anno dopo, il coronavirus ha fatto sì che fosse possibile sviluppare un’ossessione erotica per le mascherine (a norma e non), per gli orribili guanti bianchi usa e getta e per i flaconi di amuchina, tanto più desiderabili quanto introvabili. L’estetica nei porno da pandemia ha una valenza ironica, oltre ad esorcizzare la paura della morte, abilmente incanalata nel coping mechanism dell’eccitazione indotta.  Certo, in quest’ottica la sessualità non è più una questione personale, un problema di orientamento o preferenze, ma una questione sociale. Il porno non è solo porno ma una faccenda politica, con ripercussioni su tutta la nostra agenda culturale e il nostro modo di dettarla. Soprattutto perché in grado di travalicare confini nazionali e internazionali. Se le cure, i provvedimenti e le iniziative di salute pubblica sono un fenomeno locale, le ripercussioni nell’immaginario erotico non hanno confini: non sarà una materia dozzinale come la geografia a impedirvi di fantasticare su un amplesso contagioso e tossicchiante nel bel mezzo della città di Wuhan.

Ma la pandemia ha evidenziato anche altri aspetti del nostro immaginario sessuale, producendo una frattura incolmabile fra il sesso legittimo fra persone che possono continuare a toccarsi -grazie a matrimoni, convivenze, o al fatto di essere lontani cugini abitanti nello stesso palazzo- e tutti gli altri- coppie che non avevano ancora scelto di vivere insieme, poliamorosi, vagabondi sentimentali erranti, persone in attesa o in cerca di qualcosa-. Il coronavirus, insomma, ha tagliato la testa a tutti coloro che desideravano continuare a condurre una sregolata e rapida attività sessuale, ha decretato una fine violenta per la promiscuità carnale e sensuale degli ultimi anni. Per chi non l’ha vissuta in coppia, da convivente, la quarantana ha rappresentato un preliminare lunghissimo, straziante, oltre che un inevitabile campanello d’allarme rispetto a quello che tendiamo a considerare “soddisfacente”. Quando siamo separati da pareti, da strade e da molti metri e mezzo, ci tocca ripensare il modo in cui ci conosciamo, riflettere su come ci approcciamo all’altro, come desideriamo. La distanza costringe a una gradualità a cui non saremmo altrimenti costretti ad attenerci: per non incorrere in imprudenze sanitarie e catastrofi, per noi e chi vive attorno a noi, dobbiamo riscoprire il romanticismo, le parole, il pensarsi da lontano. Il tempo è dilatato, non esiste più il tutto e subito, abbiamo la possibilità di tenere i contatti solo con chi ci interessa davvero. In Venus in Fur di Roman Polanski, l’alter ego del regista confida a un teatro vuoto che non esiste al mondo niente di più eccitante della frustrazione, che nulla è equiparabile a guardare una donna e non poterla avere. Essere calpestati e legati è una pratica secondaria alla sofferenza che deriva da una deliziosa e crescente insoddisfazione. In un’ottica pre-pandemia, più fast-food del sesso, quello sessuale è un appetito come un altro, qualcosa di trascendibile, trascurabile, qualcosa che non ci coinvolge più di tanto e che possiamo lasciarci alle spalle senza particolari rimpianti. La pelle, l’odore, il sapore dell’altro è trascurabile, è un corpo come un altro, in mezzo ad altri, e quello che succede può benissimo cadere nell’oblio con un tonfo. Costretti all’astinenza, finiamo per renderci conto che esistono modi tremendamente erotici di non fare sesso. Che l’idea di qualcuno è molto spesso più eccitante di un fine serata ubriachi sul divano di un amico. Che si può sviluppare un desiderio molto intenso parlando, condividendo desideri, scambiandosi messaggi notturni, imparando a dedicare a noi stessi il tempo e la dolcezza che dovremmo esigere dagli altri.


Sofia Torre, laureata in Mass Media e Politica, si interessa di gender studies e di porn studies. Suoi interventi sono apparsi su SexTelling, The Vision, Il Tascabile, L’Indiscreto, Not, De Genere. Fra i suoi articoli: Storia e Critica del femminismo antiporno (Il Tascabile); Perchè l’erotismo femminista di Erika Lust non è erotico (L’Indiscreto); Porno, mestruo e femminismo (Not).