Sguardi disordinati, grammatiche ocular-nervose e lentezza felice. Su The Present Is Not Enough

Se il desiderio infetta la tecnica cosa accade al corpo in performance? E cosa possono prefigurare i corpi senza cedere alla brutalità coloniale della scoperta? Come disinnescare la disattenzione civile fuori e dentro la scena? Lo sguardo-vettore può far emergere dall’esclusione? Comporre problemi prima che gesti ridefinisce la scena attraverso le pratiche? Farsi trasformare dall’archivio invece che catalogarlo è una prassi dove cosa interpella chi?

Con un carico d’interrogativi torna dal futuro illuminando le crepe del passato e criticando radicalmente il presente The present is not enough, performance ideata da Silvia Calderoni (attrice, performer, autrice) e Ilenia Caleo (performer, attivista, ricercatrice) in ensemble con la dissidenza proattiva di Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera (Gabor), Fedra Morini e Ondina Quadri. Una proattività antiaziendale, non si tratta infatti di risolvere il futuro per performare meglio la prossima novità da edulcorare per la vendita, ma di fermarsi, farsi una scopata, prendere il sole tra le macerie ed invitare ad un’intimità complice e posizionata. Allora la proattività d’ensemble diviene alleanza che prende una pausa dal cognitivismo isterico del post-fordismo attraverso l’ozio del movimento desiderante dove è possibile ascoltarsi toccare, guardarsi affannare.

In scena dal 5 all’8 ottobre negli spazi dell’Angelo Mai di Roma The present is not enough si presenta fin dall’inizio eliminando ogni rapporto gerarchico, ad esempio l’altezza tra scena e platea. Chiunque presenzia e agisce condivide lo stesso piano. È in questo piano comune che fin dall’inizio Fedra Morini disinnesca l’attesa oggi sempre incubatrice d’ansia con un auto-fellatio al suo alluce. Ilenia Caleo, dallo spazio spettatoriale, infrangendolo, si alza, si leva le scarpe e gattona per la scena, si avvicina ad una porzione di pubblico, individua una soggettività, la guarda vivacemente, continua a gattonare fino alla postazione audio-luci. In scena cinque fari semovibili poi agiti dai corpi agenti tutti – così si realizza la prefigurazione di Richard Schechner nei 6 Axioms for Environmental Theatre del 1968 . Con l’entrata delle altre soggettività in performance si comprende che nel lavoro non si tratterà di comporre scene ma di aumentare la temperatura della sala, tesa tra temporalità simultanee.

Chelsea, New York nel passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Angelo Mai 2024. La luce del sole. I fari addosso. I corpi distesi che si contagiano col tatto nei Pier di Chelsea come all’Angelo Mai. La pratica gioiosamente promiscua della comunità gay del cruising – l’incontro casuale all’aperto, in zone franche, in cui trovarsi per godersi – che fu, genera quel che sarà e che ora occupa abusivamente il presente. Visitation della band 3TK4 di David Wojnarowicz del 1982 nella voce di Gabor oggi che sfalda il sistema tonale rimestandolo in crescendi e diminuendi sensuali e lasciati lì, sembrano respirare da soli. Dall’impianto audio i rantoli di un motore-respiro che ha deciso di ansimare un desiderio incessante e assieme assopito dopo una dose così massiccia da paradiso che può sicuramente attendere il giorno dopo il cruising e che s’assembla ai corpi in scena. Felici e lenti, di quella “lentezza che fa scadere il tempo” . Gli anni della lotta armata si fanno lotta amata (“è il momento prima della rivoluzione, ma invece di abbassarci il passamontagna ci abbassiamo le braghe”, si legge negli appunti drammaturgici ), dove l’amore non si riconosce con nome e cognome ma con posture e movimenti che saltano fuori dai nervi. Fedra Morini che risplende mentre balla un crollo, è solo nervi e piacere. Pantaloni che scendono, culi che salgono e si baciano. Kiss kiss dall’impianto audio. Le incursioni di Davide Savorani, spettro denso e materiale con indosso la maschera di David Wojnarowicz. Il saper-fare-che-non-fa mentre il sole-faro illumina i terrazzi diroccati-teatro nell’arco di oltre quarant’anni che ne saranno centinaia, capitalocene permettendo. Può essere il 1978, il 1982, il 2024, una foto scattata da Frank Hallam alla luce di una nottata che non può essere archiviata, perché continua a generare fino a dopodomani, almeno. Una costruzione memoriale politica che proietta lampi utopici materiali, come indicato da José Esteban Muñoz , fonte affettiva e poetica imprescindibile della performance assieme ai vagabondaggi tossici di David Wojnarowicz e quelli fantasmatici di Samuel R. Delany. Non citazioni ma incorporazioni, perché i corpi nella performance se ne fregano della biologia preferendo e assumendo la genealogia, il ricucire il desiderio in spazi che s’attraversano vicendevolmente e in tempi diversi. Se oggi i tempi sono avversi, sembra affermare The present is not enough, strecciamoli.

Confondere le temporalità è il modo più consistente di criticare il presente occupandolo e non dedicandogli altro tempo. Se questo è possibile, lo è perché c’è stata una crepa d’ombra che illumina, generando quel che sarà. Questa sembra essere una delle linee di fuga tracciate da The present is not enough, una linea che s’accartoccia inevitabilmente nel corpo a corpo continuo con i materiali d’archivio assemblati poeticamente che scorrono fuori la sala dell’Angelo Mai, mentre all’interno Giacomo AG mastica un chewingum per tutto il tempo, inumidendo l’ambiente assolato dai fari e occupato dai sei corpi che fanno dell’essere fuori posto, storti in ensemble, una dichiarazione d’intenti.
Dichiarazione che non ha bisogno di parole ma di sguardi. Lo sgurardo non lascia tracce archiviabili ma scava dentro. E la questione dello sguardo in teatro è stata e spesso è ancora un cruccio della critica. Chi è in scena conduce lo sguardo della platea? Non lo fa? Fino a che punto può farlo? Tutte domande di un tempo che non funziona più, perché The present is not enough nelle temporalità disordinate ripercorre circoli continui deviando negli svincoli accidentali dei rizomi, senza mettere la freccia, porgendo sguardi posti da chi in scena guarda gli addetti allo sguardo per eccellenza: spettatrici e spettatori. A gruppi di sei, di quattro o singolarmente, le soggettività queer – alla fine della performance, verrà esplicato chiaramente: frocie (per la Palestina) – aprono ad una confidenza intima con spettatrici e spettatori attraverso una coreografia oculare minuziosa che trasforma la visione in tatto. Sguardi che non possono essere invisibilizzati ed esclusi perché emergono con forza e interrogano: vieni qui? Andiamo? Sono una promessa senza aspettative. È qui che cade tutta l’impalcatura dello sguardo borghese, che vorrebbe scomparire pur di non sottostare a promesse senza guadagni, all’essere messe in mezzo. Viene così franta e dismessa anche quella disattenzione civile ben individuata da Erwin Goffman , pratica di cortesia borghese che non riconosce mai l’alterità.

Il momento degli sguardi scandisce tutta la performance in ritorni ostinati, sono momenti isola tatuati da un respiro incessante che non sa se essere macchinico o più che umano, mentre il sorriso di Sivlia Calderoni, incandescente, si fa tremore – il sorriso come fonte generativa di movimento che parte da una partitura nervosa che ricorda l’estasi mistica, qui però è desantificata e disidentifica. Così l’estasi si fa ecstasy, pura macchina serotoninica. Ecco, quando il corpo non si muove o si muove poco, in realtà è in fermento, sotto pelle, tra i nervi accade di tutto, dalla promessa al cruising. È al lavoro tutta una grammatica ocular-nervosa lanciata addosso alle signole soggettività spettatoriali, a volte sembrano provocazioni, in realtà, altro non sono che l’invito ad un posizionamento, perché lo sguardo non è mai innocente.
I ragazzi selvaggi di William S. Burroughs hanno occupato tutte le crepe del presente e possono finalmente rilassarsi con estremo piacere, giocando con specchi che rimandano addosso a spettatrici e spettatori la perdita dello sguardo-io come baluginio danzante di una collettività, trasformandone la materialità in ombra. Interrompono i momenti-sguardi semplici esercizi (la verticale di Ondina Quadri) ed attività (la costruzione del muro di Gabor e Calderoni), il gattonare a ritroso tutte assieme, la grammatica muscolare rilassata del vagabondaggio tra i Pier di Chelsea a New York, dove oggi l’arte contemporanea impera col suo washing che rivende la radicalità in gadget ed opere e dove c’era la vita nel pieno del suo consumarsi, come quella tra i divisori di cartone ondulati all’Angelo Mai di Roma. Tra il 1977 e dopodomani.

Vissuto all’Angelo Mai il 5 giugno 2024

The present is not enough
un progetto di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Fedra Morini, Ondina Quadri
suono Gabor + SC
cura e produzione Elisa Bartolucci consulenza drammaturgica Antonia Ferrante e moltx amicx* praticanti
co-produzioni AziendaSpecialePalaexpo-Mattatoio|Progetto Prender-si Cura, Kampnagel (Hamburg), Kunstencentrum Vooruit vzw (Ghent), Motus Vague con il supporto del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore (Torino)

[1]          “Esiste quindi la possibilità che nascano dei «tecnici-attori» […]”, Richard Schechner, Sei assiomi per l’Environmental Theatre, in Id., La cavità teatrale, De Donato, Bari 1968,pp. 37-38.

[2]          Bojana Kunst, L’artista al lavoro. Prossimità tra arte e capitalismo, introduzione di Ilenia Caleo, trad. di Laura Scarmoncin, Luca Sossella Editore, Bologna 2024,p. 138.

[3]          Pubblicati sul sito del festival Short Theatre Cfr. https://www.shorttheatre.org/mag/appunti-da-the-present-is-not-enough/ [4]          J. E. Muňoz, Cruising Utopia. L’ orizzonte della futurità queer (2009), trad. it. di N. Ferrante, S. Grassi, Nero editions, Roma 2022, p. 46
[5]          La disattenzione civile, scrive Erwin Goffman, «sembra consistere nel concedere all’altro un’attenzione visiva sufficiente a dimostrare che se ne è notata la presenza (e che si ammette apertamente di averlo visto), distogliendo subito dopo lo sguardo per significargli che non costituisce l’oggetto di una particolare curiosita o di un’intenzione specifica. Nel compiere questo atto di cortesia formale gli occhi di chi guarda possono incontrare per un istante quelli dell’altro, ma di solito non è ammesso alcun “riconoscimento”». E. Goffman, Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione (1963), prefazione di Franco e Franca Basaglia, Einaudi, Torino 1971, p. 86.

Daniele Vergni ama il teatro e Roma.