Con il termine «biografia» si indica un genere letterario, certo, ma si allude anche all’articolazione inconfondibile dell’esperienza di ciascuno. Dicendo che Tizio ha una biografia grama o invidiabile, si pensa a ciò che rende quell’individuo unico e irripetibile. In tal modo ci si riferisce alla vita di Tizio come a una trama unitaria, a un itinerario scandito da tappe memorabili, a un plot, a un cumulo di esperienze somiglianti ai sassolini che Pollicino lascia cadere nel bosco per segnare il sentiero. Architrave di qualsiasi biografia sono alcune scene-madri, traumi o svolte, qualche momento della verità, minime illuminazioni sulla via di Damasco. Le azioni e le passioni di Tizio sono riconducibili a un «centro», che le coordina
nella loro successione o simultaneità.
È cosa nota e ripetuta fino al tedio che, nel corso della modernità, la dimensione biografica si è via via rattrappita, fino a diventare un mero richiamo nostalgico o un lodevole appello utopico (oppure, come spesso accade, le due cose insieme). In mille modi si è argomentato circa l’appiattimento indotto dalla società di massa, l’uniformità delle esperienze che in essa toccano in sorte, le astrazioni impersonali (la merce, il denaro, i media) che scandiscono l’esistenza dei singoli. Di biografie, sembra, non è più il caso di parlare, salvo forse allorché un’esistenza individuale si identifica quasi senza residui con una funzione oggettiva, mettiamo con il capitale finanziario o con le prodigiose avventure del management. Paradossalmente, soltanto se diventa molto astratta, una vita può
ancora vantare una trama. Eppure, in questi anni Ottanta, la ventata neoliberale, facendo garrire a più non posso la bandierina dell’«individuo», ha suscitato un rinnovato bisogno di biografia. Poiché l’«individuo» è stato proposto come il più solido punto di appoggio – l’unico, talvolta per decifrare le dinamiche sociali e per accreditare o discriminare i valori morali, è ovvio che si cerchi anche di dargli qualche consistenza: auscultandolo, narrandolo, mostrandone il carattere irriducibile a ogni determinazione universale, riottoso a ogni tassonomia sociale. Il tentativo di restituire nobiltà alle vicissitudini dell’aio» è spesso finito in ideologia volgare. O in parodia. L’ineffabile, ahimè, è monotono. I patemi d’animo di Tizio, di Caio e di Sempronio sono ripetitivi, tanto più intercambiabili, quanto più), tutti, pretendono il blasone dell’«unica volta».

Tuttavia, nell’anacronistico bisogno di biografia, variamente fomentato (e deluso) dal neoliberalismo degli anni Ottanta, c’è qualcosa su cui riflettere, da non scartare con un frettoloso gesto di fastidio. Bisogna chiedersi se i dominati non si siano serviti delle parole messe a loro disposizione dai dominanti per esprimere un autentico bisogno. Non è che, anelando a una biografia, si allude pur sempre a una dimensione di esperienza che contraddice le equiparazioni prodotte dal lavoro astratto e dalla merce? James O’Connor, l’economista marxista americano, ha indicato proprio
nello sfrenato individualismo recente un groviglio di contraddizioni, destinate a propiziare la crisi dell’accumulazione capitalistica. Ma come ridisegnare un’idea di biografia, che non sia impotente o apologetica? Quando i «romanzi di formazione» sono ridotti a curriculum da presentare all’ufficio del personale, non ha senso parlare di una vita esemplare. Sulla vetta degli anni Ottanta, sembra opportuno ricorrere semmai a una vecchia categoria della filosofia medioevale, il principio di individuazione. Di che si tratta? Di pensare l’individuo come un risultato, non come un presupposto. Di guardare alla sua irripetibilità e alla sua contingenza come a qualcosa che discende da nessi sociali astratti, da potenze oggettive. Non vi è configurazione singolare che non derivi dal dispiegamento di ripetitività e di automatismi: per questo, sembra, è da preferire parlare di individuazione anziché di individuo. Il «principio di individuazione» stabilisce un nesso fondamentale tra il singolo e la potenza delle relazioni sociali: l’individuale è effettivamente individuale non perché si mantiene ai margini di ciò che è potente ma perché è potenza individuata; ed è potenza individuata perché è soltanto una delle possibili individuazioni della potenza sociale, scientifica, comunicativa. Il «principio di individuazione» affonda le radici nel suo opposto, cioè nella qualità generica o comune delle forze produttive.
Le linee di un moderno processo di individuazione possono essere tracciate, non malgrado la riproducibilità tecnica, l’uniformità artificiale dei contesti di esperienza, la serialità e le omologazioni, ma grazie a esse. Se è assai chiaro che ciò che è potente si colloca assai spesso agli antipodi della singolarità (basti pensare alla forma-merce), meno evidente, ma perfino più vero, è che ciò che è privo di potenza può solo mimare, qui e oggi, l’individualità. Il mormorio del ghetto è sommamente indistinto: di singolare non ha veramente nulla.

Tuttavia, per mettere a fuoco questo nesso tra individuale e potenza, che del principium individuationis è contrassegno, occorre pagare un prezzo: rinunciare alla nozione forte di «soggetto». L’individuo, proprio perché frutto di una individuazione, non ha nulla di significativo da spartire con la progettualità consapevole del soggetto. Un’unica condizione oggettiva rende, a un tempo, larvale il soggetto e potente l’individuale: la sovrabbondanza di norme, paradigmi, codici che si manifestano anche nell’esperienza più immediata e spontanea. L’individuo è tale soltanto perché incorpora schegge di sapere e di forze produttive, perché intreccia in sé norme e convenzioni dissimili. Individuale non è qualcosa di accidentale e di sregolato, insomma di indicibile. Al contrario, l’individuazione è scandita da una molteplicità di regole e postulati e convenzioni: non è il buco nella rete, ma il luogo in cui le maglie sono più fitte; non penuria di determinazioni ma loro sovrabbondanza. Ora, questo stesso complesso di regole, che garantisce la consistenza dell’individuo, inficia necessariamente l’indipendenza e la sostanzialità del soggetto. Sono regole che non mettono capo a un centro ordinatore, che non danno luogo a una continuità dell’esperienza, che non sviluppano un’interdipendenza funzionale tra i diversi piani in cui quest’ultima si articola. Sono regole che limitano impietosamente il campo del «soggetto» legislatore, che erodono la sua saldezza, che ne ledono l’autorità.

Come potrebbe essere riformulata, oggi, l’istanza dell’irripetibilità a cui si ispira ogni biografia? Nel saggio sulla fotografia, Walter Benjamin scrive: «nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualcosa che non si risolve nell’arte del fotografo Hill, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che li ha vissuto», Si osservi che l’immagine della fanciulla pescivendola è priva di contesto: non sappiamo nulla di lei. L’obiettivo l’ha isolata artificialmente dal suo «prima» e dal suo «poi». Eppure, nonostante tutto, torna la domanda sul nome di colei che li ha vissuti, su come baciavano quelle labbra. Scrive ancora Benjamin: «Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardando indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo». Il punto essenziale è che «quella scintilla minima di caso, di hic et nunc», anziché residuo recalcitrante alla serialità, reso possibile soltanto dalle tecniche e dalle regole di quest’ultima, ossia dal fatto che «la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio». Qui il senso di una vita irripetibile scaturisce da una convenzione, da un artificio,
da un marchingegno tecnico. L’analisi di Benjamin si attaglia assai bene anche alle biografie odierne e al nocciolo più interessante (e contraddittorio) del nuovo individualismo. In una vita non cerchiamo più gli elementi di continuità e di permanenza, giacché essi sono assicurati preliminarmente dal meccanismo sociale e dagli apparati tecnici. Anziché
badare all’analogia e alla ripetizione, abbiamo lo sguardo libero per ciò che è più contingente e più fugace, per un «qui e ora» sottratto al flusso temporale e carico di sviluppi alternativi. Nella pescivendola di New Haven, scrive Benjamin, «si annida ancor oggi il futuro». La sua immagine è aperta a molte differenti possibilità. Allo stesso modo, in ogni momento di una vita individuale siamo spinti a cogliere le diverse possibilità di cui esso apparirà carico secondo una considerazione posteriore.