La rivolta dei barboni.

L’architettura ostile è infame, ma gli architetti che si prestano a questo sporco gioco lo sono il doppio.

Quasi ogni parte politica di questo Paese ci spacca le palle con l’immaginario della città sicura, decorosa e ordinata. Ma cosa significa?

L’ordine come categoria estetica – dicono gli spaccapalle – consegna alla città le chiavi della sicurezza, almeno questo è l’assunto. Eliminati i barboni dal centro, ripulite le strade da ogni forma di oggetto-soggetto considerato indecoroso, la città sembra libera da tutti i tipi di delitti. La storiella però non è così semplice, perché eliminati dai luoghi del turismo e del potere tutto ciò che viene percepito come esterno al “normato”, il problema non è sparito; anzi, il “problema” è di percezione, è nella volontà di nascondere la polvere sotto il tappeto, assai più grave di quello che si pensa sia reale.

Mike Davis in L’ecologia della paura ci ricorda i grandi drammi della borghesia Americana:

C’è qualche bisogno di spiegare il perché la paura si inghiotte l’anima di Los Angeles? L’ossessione ricorrente della propria sicurezza personale e dell’isolamento sociale è superata solo dal terrore della borghesia di pagare sempre più tasse. Di fronte a una disoccupazione e a un problema della casa su una scala mai eguagliata dal 1938, tutti i partiti continuano a ripetere che il bilancio deve essere pareggiato e l’assistenza ridotta. Con il rifiuto di fare nuovi investimenti pubblici per riequilibrare le condizioni sociali, noi cittadini siamo obbligati a fare investimenti privati nella sicurezza pubblica. La retorica della riforma urbana persiste, ma la sostanza è estinta. “Ricostruire L.A.” significa semplicemente rinforzare il bunker1.

Se domani i barboni, gli emarginati e tutti i bistrattati delle nostre città si svegliassero per spaccarci la faccia, sarei dalla loro parte. E, in quanto architetto, inizierei a spaccarmela già da solo.

La città non è una scenografia ideale, nonostante qualcuno (diciamo pure la maggioranza) la voglia ingabbiare in un cianotico stato di bomboniera, ma dovrebbe essere il luogo della socialità.

Nel mondo globalizzato coesistono nello stesso condominio più culture e coesistono nella stessa città più classi sociali, problematiche e tensioni. O, almeno, è la coesistenza, la compassione o la sopportazione reciproca e l’analisi delle contraddizioni che dovrebbero fare da protagoniste. Le misure securitarie però sembrano attecchire di più, probabilmente per la loro abilità nel semplificare tutto, ma allo stesso tempo allontanano l’eventuale problema giusto per il tempo di un caffè. Quindi l’ordine estetico crea anche la percezione del problema (non fattuale), e da tale percezione deriva anche l’errata gestione.

Scrive Jacques Heers in seguito ad uno studio sulla città medioevale: «L’immagine della città come ‘rifugio delle libertà’ e ‘oasi di pace’, immagine tuttora riproposta da autori compiacenti che rifiutano di prendere in considerazione i disordini e i drammi della guerra civile, è senza dubbio una delle più sfacciate imposture della storia delle nostre società occidentali»2. Questo è un discorso che potrebbe essere applicato alla nostra contemporaneità, la quale evita con ogni mezzo possibile di pensare e descrivere una città con i suoi conflitti e alterazioni.

Proliferano gli allarmismi, le richieste di apartheid urbani, complessi residenziali ultraprotetti, walled city, gated community, si fa di tutto per allontanare il nuovo nemico interno: il povero cattivo, il mendicante o il senzatetto. Questa ecologia della paura introduce il concetto di spazio difendibile, il quale si basa sull’assunto che esistono luoghi propizi al crimine. Quindi qual è la soluzione? Allontanare quegli spazi o circoscriverli in determinate zone, affinché sia possibile fermare la propagazione di questa infezione del male.

La criminologia diventa nel Novecento, negli Stati Uniti, uno strumento con il quale l’architetto e l’urbanista progettano la città e gli edifici. Ad esempio con il CPTED (Crime Prevention Through Enviromental Design) furono delineati i quattro punti salienti con i quali definire gli spazi: sorveglianza naturale, territorialità, milieu e immagine. Nel frattempo l’Europa non sottovaluta l’aspetto poliziesco della progettazione e adotta l’ALO (Architectural Liason Officer) e il CPDA (Crime Prevention Design Advisor). La risposta dell’architetto al cittadino che urla maggiore sicurezza è quella di blindare tutto3.

Brutti, sporchi e cattivi, Ettore Scola, Italia, 1976

Gli indesiderabili devono essere in ogni modo securizzati e gli spazi comuni resi quanto più possibile privati. Solo in questo modo si evita uno sgradevole rimescolamento che darebbe molti problemi alla vista della borghesia urbana.

E non dimentichiamo il concetto di sanificazione urbana che nel post-covid ci trascineremo per chissà quanto tempo. Se prima la panchina bisognava dividerla affinché nessuno ci potesse mai dormire o bivaccare, da oggi in poi dovrà essere disinfettata con apposite apparecchiature contenti alte percentuali di alcol. Quale sarà la pena se tale paradigma non verrà rispettato? Giuseppe Conte, che vi ricorderà che potete fare sesso solo con i vostri congiunti.

Ritratti abusivi, Romano Montesarchio, Italia, 2013

Zygmunt Bauman in Dentro la globalizzazione descrive bene la deriva securitaria della progettazione urbana:

I timori dei contemporanei, le «paure» tipicamente «urbane», a differenza di quelle che un tempo portarono alla costruzione delle città, riguardano innanzi tutto «il nemico che è all’interno». Questo tipo di paure porta a preoccuparsi meno dell’integrità e della solidità della città nel suo complesso – cioè come forma di proprietà collettiva e collettiva garanzia delle condizioni di sicurezza individuale – che non dell’isolamento e della «fortificazione» del proprio ambito privato, casa e annessi, all’interno della città. Le mura un tempo costruite attorno alla città, ora attraversano la città stessa, in una pluralità di direzioni. Quartieri controllati da guardie, spazi pubblici strettamente sorvegliati ad accesso riservato, guardie armate ai cancelli e porte azionate da comandi elettronici sono tutte misure di sicurezza che riguardano quei concittadini con cui non si vuole avere a che fare, e non sono più rivolte contro gli eserciti stranieri o i banditi da strada, i predoni e gli altri pericoli in gran parte sconosciuti, in agguato fuori delle porte della città4.

Le strategie ipersecuritarie da un lato non fermano i criminali “esperti”, i quali sicuramente non desistono davanti ad ostacoli formali, e dall’altro crea uno stato paranoide nel quale si respira uno spazio asettico che necessita sempre maggiore divisione.

La paura è per ovvi motivi spendibile politicamente, sfruttabile per personalismi e affabile per questioni economiche. L’architettura – in questo caso come in tanti altri – non dovrebbe piegarsi alla retorica truffaldina della paranoia, dovrebbe piuttosto pensare a linguaggi che sappiano includere l’insicurezza e farne un modello estetico di elogio all’indecoroso.

Decoder, Muscha, Germania, 1984


Note:

  1. Mike Davis, L’ecologia della paura, in Decoder, n° 9.
  2. Jean-Pierre Garnier, Lo spazio indifendibile. La pianificazione urbana nell’epoca della sicurezza, Nautilus, Torino 2016, p. 27.
  3. Marco Ragonese, Pauropolis, Case Editrice Libria, Melfi 2019, pp. 61-65.
  4. Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editori Laterza, Bari 2017, p. 22.




Marco Pignetti voleva fare il pornoattore, ma non ha il fisico. Quindi per scopare con le persone sapiosessuali è diventato architetto e nel tempo libero è un Dottorando in Architettura, Disegno Industriale e Beni Culturali.