DON’T FLAME ME BRO .

Nell’ultimo mese sono stato vittima di flaming e denigration, fenomeni sempre più diffusi nel mondo di internet. “Flaming” è l’atto aggressivo di postare insulti, potenziato dall’anonimato e dalla distanza (dalla mancanza cioè di un confronto diretto, amplificato dalla solitudine della relazione con lo smartphone o il laptop) tipiche della presenza mediata dal digitale e principalmente dentro i confini astratti di internet. “Denigration” è l’atto intenzionale di danneggiamento nei confronti della reputazione di una persona, estraendo o modificando commenti, immagini o conversazioni dai contesti originali e condividendoli con la propria filterbubble. Entrambi sono definiti come atti di cyber bullismo.

Credevo di essere immune alle sensazioni di un simile attacco. Erano cose che avvenivano spesso sulla piattaforma FB, ma ero alle prime armi, non sapevo/sapevamo come difenderci. L’altra piattaforma, che ora equivale ad uno dei database di foto più rilevanti nella storia dei dati, sembrava invece strutturata per non alimentare dinamiche simili. E invece…

Sono stato targettizzato da una persona a cui ho visto, in silenzio, mietere altre vittime. Non mi sentivo coinvolto, pensavo fossero stronzate innocue, fin quando non sono entrato anche io nel suo mirino. Altre persone intorno a me (e intorno a lui) non riescono ancora a percepire la gravità della faccenda, quindi me ne faccio carico e sotto la benedizione di Demented Burrocacao cercherò di condividere la mia esperienza dopo una delucidazione “tecnica” sul flaming, e sulle sue implicazioni a livello psicologico. Dopodiché tenterò di aprire un canale solidale con le vittime di questo soggetto, che d’ora in poi chiameremo X.

legenda:

X = ABUSATORE

VITTIMA = VITTIMA

FLAMING, AZIONE!

sfarinata sul flaming da definizioni / fattori preponderanti a Interactional Norm Cube;

Molti concordano sul fatto che il flaming sia un atto preter-intenzionale che avviene su canali comunicativi mediati dalle macchine computazionali (computer-mediated communication, da ora in poi CMC). La CMC è caratterizzata dall’offuscamento dei segnali sociali, alimenta difficoltà di coordinazione dei feedback e coltiva fenomeni di depersonalizzazione. Nella comunicazione face-to-face, invece, si partecipa ad una interazione continuativa che permette di elaborare i cosiddetti social-cues (gesti delle mani, espressioni facciali…).

È flaming se hai un tipo di relazione con la persona che commenta? Molti studiosi argomentano che la presenza di una relazione tra due soggetti, pre-esistente alla dinamica di scambio di commenti, potrebbe definire l’atto come, invece, “schiettezza” cui finzione è consolidare quel rapporto: tu esponi i tuoi dubbi pubblicamente sotto un mio post e sarà la nostra relazione fuori dalla rete a porre le fondamenta di un chiarimento specifico, sia nel feed che per strada.

Quindi come si individua un flame?  Secondo l’articolo“An Interactional Reconceptualization of Flaming and Other Problematic Messages”, l’individuazione di un flame potrebbe essere aiutata consultando un “Interactional Norm Cube”, una tabella in cui vengono riconosciute tre prospettive: quella del presunto flamer, quella della presunta vittima e una prospettiva data da un “pubblico” o, come viene chiamato nella tabella, “terze parti”. La percezione è classificata come “appropriata”, quando il messaggio non viene frainteso e dunque ne consegue una codifica “pacifica”; e come “trasgressione” quando invece il messaggio viene considerato come un insulto.

Qui di seguito l’immagine della tabella:

Dove colloco la mia esperienza? Ho considerato i messaggi/commenti ricevuti come trasgressione, con la conferma di terze parti. Successivamente, con una verifica parallela con le stories del profilo di X, ho appurato che l’intento fosse effettivamente di violazione. Come potete notare, nella tabella questo è considerato come TRUE FLAME, dove X invia messaggi con l’intento di “violare delle norme” e sia la vittima che le terze parti considerano queste norme violate. Caso curioso: per concludere un’analisi del genere c’è bisogno di altre persone, quindi non si è mai soli, mentre nel compiere l’atto di violazione, evidentemente, lo si è.

ODI O MI ODI? CYBERODIO

cosa porta ad odiare online? online disinhibition effect e l’assenza di non-verbal-cues;

Nei luoghi in cui sono cresciuto la violenza è il più delle volte giustificata in base alle motivazioni della stessa. La giuria è il popolo, gli amici dei nemici o gli amici degli amici, che sono amici dei nemici e via dicendo. Nei peggiori dei casi è il nucleo familiare stesso a ritenere “degno” un trattamento violento. Se la violenza è la dimostrazione diretta, e con implicazioni nette, dell’odio, allora l’odio da dove ha origine? Il più delle volte sono stato discriminato per le mie scelte, considerate non conformi alla realtà che mi circondava. Tante di queste volte mi trovavo davanti a persone che non odiavano me, odiavano e basta. Altri, altre, me, loro stessi, non avrebbe fatto alcuna differenza: era quello il mondo che vedevano (stiamo parlando di pre-adolescenza), era quello il mondo che gli offrivano e che loro abbracciavano come unica certezza. Personalmente ho avuto il privilegio di vivere a contatto con culture differenti nei periodi più sensibili della mia crescita, e faccio di tutto da sempre per condividere tutto quello che ho visto e vissuto, perdendomi in flussi di contaminazione reciproca. Poi, invece, c’è gente che semplicemente non vuole. Non vuole confrontarsi; non vuole ascoltare; non vuole collaborare; non vuole co-esistere; non vuole cambiamenti e nei peggiori dei casi vuole solo odiare. Risalire all’origine di questo odio è un percorso complesso, e la scelta non appartiene che al soggetto odiante.

Condite questo odio con l’Online Disinhibition Effect e avrete una notevole riduzione di empatia che riduce le interazioni a un gioco “me contro te”. La natura bellica di internet che affiora. A tale proposito vi consiglio L’Orizzonte Negativo, Saggio di Dromoscopia di Paul Virilio.

HATER O FLAMER? OSTILITÀ ONLINE

cosa distingue un hater da un flamer?

Mentre nel flaming la vittima percepisce del pericolo da parte di commentatori violenti, e può trovare ausilio nell’opzione di bloccaggio utenti fornito dalle piattaforme social (che non serve a un cazzo perché il problema non è da che profilo agisce l’abusatore, ma l’azione in sè), hater e hated si alimentano a vicenda sullo stesso campo di gioco: il super-ego capitalizzato. L’iperdiffusione dell’ostilità online si sta rivelando come la conseguenza esplicita della capitalizzazione delle identità digitali: frutta molto di più (per la piattaforma) che si accendano questioni ridondanti piuttosto che discorsi compiuti nel rispetto della netiquette e degli individui dietro ai profili (discorsi volti all’accrescimento di consapevolezze sulla storia del mondo e sulle implicazioni delle proprie scelte, che proseguirebbero fuori dalla rete). Cosa fa FB per contrastare l’ostilità online? Cosa fanno le corporations, le big company musicali, le case di moda, le grandi riviste-di-tutto per creare alternative alle ostilità online? Risposta: assumono social media managers-goodwashers, o scrittrici/scrittori di articoli o artisti politicamente corretti, mentre dall’altro lato sponsorizzano misoginia, razzismo, sfruttamento di esseri umani e conformismo patriarcale. In economia si chiama codalunga: vendi tutto quello che puoi vendere e a fine anno anche i centesimi hanno fatto il loro dovere – in sintesi: trasformi tutto in merce.

Anche per questo un flamer è una vittima, anzi è una persona schiava dei processi (ma non così tanto) impliciti dei social network, che, ricordiamolo: sono aziende. L’hater è invece una falange armata di un sistema di scambio molto più radicato al culto dell’identità (e del successo) che non all’odio in sè. Forse esagero, ma penso che l’hater sia in qualche modo consapevole del suo ruolo nell’accrescimento dell’ego della persona odiata. Sembra paradossale, data la gestione a mio parere banale dei nomi che il cantiere colonialista statunitense/anglofono da alle cose, ma non lo è.

Non accetto la definizione di hater perché non posso e non devo definirmi “odiato”: ogni persona vive la propria vita e l’invidia è un processo che non ci appartiene ma ci opprime, e tutto ciò che opprime è al servizio del potere, non degli ecosistemi. In più assecondare questa dinamica malata non aiuterebbe X, non gli permetterebbe, cioè, di esperire soluzioni diverse alle sue interazioni violente nei confronti di altre vittime.

ESTRARRE COMMENTI, CONFIRMATION BIAS

(i confini netti della filter-bubble)

infarinatura sulla filter-bubble e sull’accrescimento dell’ego tramite la de-contestualizzazione;

La filter-bubble è una conseguenza della profilazione online. Ogni passaggio su un percorso di ricerca è, per gli algoritmi appositi, la conferma di ciò di cui (teoricamente) hai bisogno. Ogni volta che selezioni un risultato stai “rinunciando” ad un altro e dunque il cerchio si restringe. Tutto ciò che troverai davanti a te sarà pre-selezionato per semplificarti il tragitto, e per aumentare le tue prestazioni sul web.
Nei social networks, la filter-bubble viene intesa anche come echo-chamber (camera di risonanza), cioè un luogo dove “[…] individui e gruppi tendono a voler confermare le loro convinzioni che sono già parte del loro bagaglio cognitivo; inoltre tendono a percepire con maggior forza opinioni in linea con le proprie, che risuonano in loro maggiormente” (Tecnologie Del Dominio, Ippolita). Inutile dire che questo bias di conferma è anche associato a fenomeni di complottismo.

Estrarre commenti dal contesto di discussione e condividerli con il proprio feed è uno dei volti di questa dinamica. Quello che X dice, compiendo quest’azione, è: “la verità è irrilevante, conta ciò che io condivido con voi (followers), conta cioè che sia io a dirvi a quale status dovreste dare conto.” Le credenze, come scrive Daniel DeNicola su L’Indiscreto spesso (…) sono più simili a stati d’animo o atteggiamenti che ad azioni volontarie. Alcune credenze, come i valori personali, non sono scelte deliberatamente; vengono ‘ereditate’ dai genitori e ‘acquisite’ più o meno inavvertitamente dai propri pari, inculcate da istituzioni e autorità, assunte per sentito dire. Per questo motivo penso che il problema non sia come si giunge a sostenere una credenza, ma il rifiuto a cambiare opinione, che può essere un atto volontario ed eticamente sbagliato.”  

I social networks sono fondamentalmente gabbie per l’ego, e possono influire direttamente sulla realtà sociale degli individui. Da Trump, a X, lo scopo è affermarsi perseguendo odio e violenza, non ci sono altri termini per descriverlo (ci sono ovviamente background differenti). Dovremmo iniziare a dare un peso alla nostra presenza (tutt’altro che metaforica) online.

L’ARTE DELLE PIATTAFORME

la dinamica di cui sono stato vittima è il volto della solitudine delle piattaforme. Fare arte per postarla o postare l’arte che si fa?

Quando ho attivato il primo profilo IG, quello del collettivo di cui faccio parte, ricordo benissimo quanto credessi fosse inutile. Non capivamo come funzionava, ci confondevamo spesso col postare cose ad orari sbagliatissimi per le leggi di quel mercato, e dopo altre stronzate decisi di chiuderlo. Quando IG è entrato a far parte in maniera più consistente nella mia vita è coinciso con il mio trasferimento da Roma a Torino e con la scelta di iniziare ad applicare i miei istinti creativi in uno spazio apposito che nella capitale sarebbe costato molto più delle mie capacità finanziarie. Vedere, online, che tanta altra gente stesse percorrendo i miei stessi passi mi ha rasserenato, aiutandomi a smontare l’esclusività dell’arte, inserendola nel contesto  delle parole, dei gesti e delle consuetudini sociali atte ad incrementare l’esperienza del singolo inserendolo in diversi gruppi e macro-comunità. Ho iniziato a seguire tantissima gente da ogni punto dell’europa e del mondo, e ho iniziato a interagire con più suggestioni, ma sempre coltivando il confronto reale con la comunità di persone a me vicina. Riconosco che se fossi stato il me di 15 anni fa avrei ceduto totalmente alla tentazione dell’emulazione. Anzi, non l’avrei percepita per niente come tentazione ma come dato di fatto: se questa persona fa questo, e io posso farlo, allora io… so farlo. Non c’è bisogno di percorsi, di background: è estetico, è qui davanti a me, lo vedo/lo copio. Questo processo non è avvenuto ma… in termini leggermente differenti è anche questo il percorso delle personalità artistiche: copiare, ricalcare, impadronirsi di tecniche… Siamo esseri umani che danno priorità a cose differenti, ma i processi di apprendimento seguono le stesse vie primordiali: sguardo e azione.

Allora che c’è di male in IG? Come tutte le piattaforme social, agisce in un presente e in una realtà condivisa da entità umane e non-umane. Nel contesto antropico, se levi la libertà di aggregazione (norme restrittive, divieti di assembramento, cessione attività culturali…), allora non stai che forzando gli individui a rimanere entro i limiti della definizione di utenti ingabbiati nelle camere di risonanza dei loro feed. Una persona ha bisogno di interfacciarsi con ambienti che forniscono stimoli differenti e contrastanti, un* adolescente che vuole sperimentare arte-performance-musica e qualsiasi declinazione di attività non volte alla produzione di beni di consumo, necessita di entrare in contatto corporalmente con tali ambienti per trasformare le suggestioni (magari anche originate sulle piattaforme) in esperienze.

Nella storia in cui mi sono ritrovato vittima, X asserisce di avere uno stile unico ed esclusivo, assecondando una paranoia amplificata dall’architettura di IG che lo porta a vedere molti eventi ed espressioni intorno a sé come atti emulativi nei suoi confronti, dinamica che lo porta inesorabilmente a compiere violazioni a danno di altre persone, sotto gli occhi di followers che magari si ritrovano ad alimentare ancora di più il suo ego e, appunto, aggiungere legna al fuoco. È questa la dinamica degli attacchi di cui sono stato vittima, il volto della solitudine delle/nelle piattaforme.

Ci terrei ad essere contattato dalle altre persone violate, così da darci una mano ad elaborare meglio quello che è successo.

IL PROBLEMA NON SEI TU (VITTIMA)

Che tu sia un* pischell* adolescente e abbia iniziato ad avere a che fare con questo mondo profondamente sminchiato, o che tu sia un post-18enne e ti sia ritrovato in queste dinamiche all’apparenza ingestibili, non fa nessuna differenza: le vittime non sono mai il problema. Tu non sei il problema, io non sono il problema! NO!

E allora il problema qual è?

IL PROBLEMA NON SEI TU (X) AKA DFMB

comprensione ed empatia sono la chiave per non commettere atti di odio online, dietro ogni profilo c’è una persona. DON’T FLAME ME BRO.

Se mancassi di empatia direi che il problema è X. Ma si, mi ha fatto soffrire, mi perseguita, cerca di screditarmi con le persone a me vicine… il problema è lui! Invece per niente, il problema non è neanche la persona in questione. Possiamo concentrarci nel cercare le cause di questa violenza nelle dinamiche del confirmation-bias e delle echo-chambers, sfruttate dalle multinazionali per trarre profitto dallo scambio di interazioni sulle piattaforme e dalla condivisione furente; possiamo cercarle tra le caratteristiche negative (e molto spesso pervasive) di fenomeni socio-culturali come il writing e l’hip-hop (la mia zona, la mia tag, il mio stile… / sono true, tu sei fake, dissing, e dosi di machismo eteronormativo…). Siamo nel 2021 (ex2020 per quanto mi riguarda) e non riusciamo a creare alternative a questo tipo di dinamiche? Davvero non si può fare di meglio?

Si può, incrementando gli atti di solidarietà e aggiungendo ingredienti nuovi al dibattito sull’odio fuori e dentro la rete. Dovremmo, citando il collettivo Ippolita, “…praticare lo sguardo obliquo dell’antropologia di noi stessi, lo sforzo di osservarci agire e farci stranieri, de-solidarizzarci dal nostro Io e coltivare uno scetticismo metodico ma non ossessivo. Valorizzare le differenze senza renderle assolute.” (Tecnologie del dominio, Ippolita).

note: questo articolo non ha la pretesa di essere estremamente specifico, i collegamenti ipertestuali potrebbero soddisfare molto di più la vostra curiosità al riguardo.


Frank Brait è artista e direttore artistico del collettivo Misto Mame residente in Roma 00185.