Addio ai gelsomini.

Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

La cosa più difficile quando si scrive è trovare un buon inizio, la vita è più semplice: inizia e finisce più o meno per tutti allo stesso modo, si muore.

Ma se si sta scrivendo la propria uscita di scena dalla vita diventa tutto più complicato, hai una sola opportunità, non è concessa la replica, non puoi rifarti con una seconda lettera.

In molti abbiamo fatto un certo tipo di pensiero in determinati momenti della nostra esistenza, quel pensiero lì.

Magari ci siamo anche spinti oltre immaginando un’eventuale lettera di congedo, idee e pensieri sparsi qua e la mai buttati giù su carta in modo lineare ma solo in testa, cose da dire a questa o quell’altra persona, una lettera divisa in sezioni, ma sono rimasti solo pensieri, mai trovato un buon inizio.

Io questa voltà lo ho: il falso gelsomino.

Passeggiando a Milano tra Aprile e Maggio ci si imbatte spessissimo in recinzioni, pareti, colonne coperte da quello che a un occhio inesperto potrebbe sembrare un gelsomino, tanta è la sua somiglianza con quello vero da portarselo all’interno del suo nome: Trachelospermum jasminoides.

Anno scorso in questo stesso periodo dell’anno frequentavo una zona della città in cui c’era una lunghissima recinzione di una casa tutta coperta da quello che all’epoca credevo essere un gelsomino, il suo profumo mi stordiva metri e metri prima avvisandomi che ero arrivato a destinazione.

Quando non sai che è un falso gelsomino non puoi che apprezzarlo, poi, una volta scoperto che è qualcosa che imita qualcos’altro ti senti truffato e quel profumo di fiori così forte ti ricorda tanto quello dei fiori al cimitero con la loro acqua stagnante dentro improbabili vasi di vetro.

Una doverosa raccomandazione – sempre che non stiate scrivendo una lettere di congedo pure voi – non fate nulla con il falso gelsomino, contiene degli alcaloidi tossici.

La verità però è che il falso gelsomino non ne ha colpa, la colpa, se c’è, è di averlo scambiato per quello che non era.

Di colpo/Oggi come allora la stessa/Fatica a stare in casa/E annusando l’aria di nuovo/Con la stessa smania di allora/Con la stessa voglia di andare/Scappare/Dove non sono stato mai

Questo mi fa pensare alla selvaggina: avete mai mangiato una lepre? Immagino di sì, ma l’avete mai preparata?

E per preparata non intendo comperare una lepre disossata al supermercato e cucinarla, intendo che una sera tardi, tardissimo, mentre state rincasando con il vostro migliore amico l’auto davanti alla vostra investe una lepre – e quelli ubriachi eravate voi – che si è lasciata incantare dai fari alti e se ne va via velocissima come se avesse investito un bambino spuntato in strada un secondo dopo un pallone da calcio o il sindaco del paese.

La lepre restò lì immobile sull’asfalto, la caricammo in auto, nel baule, sollevandola per le sue lunghissime zampe posteriori.

In macchina c’era una puzza di selvatico inimmaginabile, puzzava così tanto che non riuscivo a capacitarmi di che cazzo di pervertito fosse il primo uomo che ha detto “ma sì dai, questa roba è commestibile, mi pare un’ottima idea mangiare altri animali”.

E questa è solo la puzza che faceva dal di fuori, il bello arrivò quando sentendomi sollevato per averla scuoiata e buttato la pelle che tanto puzzava in un sacchetto ben sigillato arrivammo al passaggio successivo: aprire il ventre per estrarre le interiora.

In quel momento aprire la pancia di quella bestiolina è stato come spalancare le porte dell’inferno, è come se tutti i gatti del quartiere si fossero dati appuntamento per marcare il territorio pisciandomi in faccia, tutti, assieme, contemporaneamente.

In bocca, nel naso, negli occhi, negli occhi, negli occhi, negli occhi no, ti prego! NEGLI OCCHI.

Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano.

La vita e io siamo pari.

Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci.

Voi che restate siate felici.

Durante il lockdown è successa una cosa particolare, me ne vergogno anche un po’ vista la situazione in tutto il paese ma io sono stato bene.

SONO STATO BENE.

Non nel senso che credevo di non avere le risorse per sopportare tre mesi in casa da solo, senza vedere nessuno, quelle in fondo sapevo di averle, sono stato bene nel senso che mai stato meglio negli ultimi anni e la cosa era dovuta al totale senso di deresponsabilizzazione che mi ha sollevato da ogni impegno, da ogni fallimento, da ogni dovere.

Anche dopo la riapertura ho continuato a stare bene perché inizialmente ho vissuto come quei soldati giapponesi che ritrovarono a distanza di anni in delle isole sperdute in mezzo all’oceano ancora convinti che ci fosse la guerra.

Poi sono dovuto uscire dal mio percorso da criceto che mi ero costruito: casa—supermercato—passeggiata al parco, ho fatto delle commissioni in un altro quartiere e ho visto che la vita era ripartita ovunque, ovviamente una finzione di normalità, una imitazione della realtà precedente e in questo momento qualcosa si è rotto: il senso di deresponsabilizzazione mi ha abbandonato.

Se prima ero solo perchè nessuno poteva venirmi a trovare ora sono solo perchè sono SOLO.

Non voglio fare un’analisi sociale, politica o psicoanalitica della cosa, per questo esiste già una rivista non che casa editrice che fa libri con le copertine di plastica utilissimi in periodo di pandemia visto che puoi spruzzarci l’amuchina tra una lettura e l’altra sui mezzi pubblici senza che si rovinino, non sarebbe la sede giusta una lettera di congedo, ma nemmeno mi importa del sociale ora, il sociale è cosa per vivi, il bello del congedo è il distacco definitivo da queste preoccupazioni, la cosa più simile al lockdown.

Per esempio, Gesù: e se all’epoca qualcuno avesse detto -ragazzi, forse sta cosa della crocefissione è un po’ troppo, io proporrei sta cosa nuova, chiamiamola ergastolo.

E lui ancora giovane, chiuso in una cella, a sognare di essere crocefisso e a doverlo sognare per un sacco di anni ancora, chiuso lì senza potere fare del bene, senza potere parlare con nessuno, senza sapere se il sermone della montagna abbia avuto o meno il successo meritato e poi, abituatosi alla prigionia si scopre sollevato dal non doversi preoccupare di tutte quelle cose che per un uomo solo erano davvero troppe e a un certo punto si accorge che la porta della cella era aperta e poteva andarsene da un po’.

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.

É quasi impossibile scrivere una lettera in questi casi, forse bisogna essere pieni di rancore verso qualcuno per farlo, o avere un’energia che in questi frangenti non si ha.

Adesso capisco perchè spesso non si scriva nulla o si lasciano biglietti, uno come Pavese che ha sempre scritto in modo compulsivo sul finale ha lasciato due righe.

Nel caso lascerei giusto una riga: sono stato bene anche quando sono stato male.


Ciro Fanelli è pittore, illustratore, tatuatore e scrittore. I suoi lavori sono apparsi su “La Lettura – Corriere della Sera”, “Vice”, “Esquire” e altre prestigiose riviste europee e giapponesi. Ha pubblicato Pinocchio e Les corbeaux pleurent la merde per Le Dernier Cri (Marsiglia,FR), per Rizzoli Lizard ha pubblicato Nel bosco del nostro splendore.