DROGAE.

Se c’è una cosa più complessa delle strutture ritmiche dei giubbotti degli Autechre è sicuramente quello che pensano gli Autechre dell’uso di MDMA da parte dei loro fan e del loro corpo in continua mutazione, un loop cosmico deformato senza fine di perfezione che si fa carne, luce, scatola, nulla, tutto.
Di fatto i fan degli Autechre hanno tutti esattamente la stessa macro-struttura delle ossa del cranio, organizzata mediante punti d’innesco da cui vengono innestate a mazzetta cellule aliene, ma integranti del DNA umano e del cosmo, forme di vita animale quali granchi incestuosi, ciglia a-frattali, nani binari e similia ricordano il mito anfetaminico delle serate techno biologiche, le acid globster.
Questa struttura è stata talora chiamata “auto-generativa” e tale definizione ha proiettato un’aura mistica su immaginarie pratiche disgregate in cui i timbri sembravano trasformarsi in qualcosa di sintetico, ma anche al tempo stesso organico, che suggeriva spesso l’evocazione di intelligenze artificiali in grado di produrre spazzatura cluster in maniera indipendente dall’uomo, una mossa meravigliosa in un’era in cui il cuore è tutto e il resto (cervello in primis) è atrofizzato. Come nella ambient più pura.
Ma biologico sembra anche lo stesso strano ambiente in cui si muovono, un cratere di pianeta che sembra provenga da un film di Carpenter, in cui dei pesci digitali nuotano nascondendosi in fluidi solidificati e metalli mutanti in una continua fase rem in cui non è chiaro se è la luce a proiettare il vuoto o il vuoto a proiettare la luce.
Come all’epoca del Benny Hill Criminale Justice Act del 1994 che vietava l’uso di acqua durante i rave e addirittura gli assembramenti cromatici, in un medioevo glaciale rigurgitato da un algoritmo digitale ove a cavalcare non sono mandrie di hashtag ma gli invasati del 5g che narrano le gesta di prodi guerrieri NoWarp che affrontano spedizioni al Polo Nord in cerca di fessure 3D nate nel cuore di un universo trasversale, non lineare.
Che poi forse tanto diverse non sono, è qui il bello del loro esperimento sociale in tempo reale, respirare le infinite spazio-temporalità producibili dal sistema Incunabula.
Si comincia inoltre ad intraprendere la via dello sviluppo di un particolare senso di tensione, la cui ispirazione, a detta di Sean e Rob, viene dal pat pat sulla testa tipico della scena di Sheffield anni ’80, un vero e proprio culto che avvisava noi adolescenti e piccini dei pericoli della società occidentale nelle vesti della straniante registrazione di un’autopsia davvero vivida di un sottosella pulsante, una mitopoiesi in cui era facile perdersi tra paesaggi incomprensibili, titoli alfanumerici, intonarumori matusa, lapidazioni sottoforma di hashtag, geometrie elusive e linguaggi incodificabili.
In quel periodo si sentivano tutti solidificati, in preda ad atti surrealisti senza limiti come bussole soniche, strutture ritmiche – a volte roboanti a volte quasi criptiche – con le maglie nostalgiche di un futuro passato noise, storto e celestiale che viaggia ad una velocità 444 volte più lenta delle densissime tracce di culture millenarie autodistrutte alla velocità del suono, mantenendo però un ritmo che evolve trascinandosi in maniera inesorabile.
Dall’astrattezza si crea il concreto, uno spleen marziano rivolto a nessuno.
E cioè la droga.


Nuxx taglia cose, copia gente.