“OneSix” e il concetto di live “doom”.

Nel novembre 2016 gli Autechre portarono in giro un serratissimo tour per l’Europa che li vide esibirsi ventinove volte in un mese. Di quella sequenza di live, da loro codificata come OneSix, erano circolati negli anni svariati bootleg, attorno ai quali si era – com’è abitudinario per la fanbase degli Autechre – generato uno spirito di entusiasmo oscillante tra interesse e misticismo. Per venire incontro al feticismo collezionista, qualche settimana fa Warp Records ha pubblicato ben sette live di OneSix: cinque provenienti dal tour di novembre 2016, due del 2018 che ripropongono i materiali sonori del live in forma rivisitata. Un totale di otto ore di musica, un quantitativo mastodontico di tempo d’ascolto che, per la gioia di noi autechriani, è oramai consueto nelle loro pubblicazioni.

Al di là degli introiti derivanti dal collezionismo, credo di poter rintracciare alcune ragioni che possano portare alla pubblicazione di sette live, tutti apparentemente molto simili tra loro. Di fatto i live del 2016 hanno tutti esattamente la stessa macro-struttura, organizzata mediante punti d’innesco da cui vengono plasmate configurazioni sonore ogni volta differenti. Bisogna considerare che, da almeno dieci anni a questa parte, il duo mancuniano performa e compone unicamente con un sistema algoritmico digitale da loro programmato, nel corso del tempo divenuto sempre più sofisticato e flessibile. Si può immaginare che la pubblicazione di molte date performate con lo stesso live set – vale a dire con gli stessi blocchi algoritmici tra loro connessi secondo una specifica logica – risiede nella volontà di mostrare che in un singolo concerto non si fruisce che di una singola istanza delle infinite spazio-temporalità digitali producibili dal sistema.

Luciana Parisi, nel suo saggio di architettura algoritmica “Contagious Architecture”,  ha osservato che “gli algoritmi non sono più – o non più semplicemente – istruzioni da essere performate, ma sono divenute entità performative”. In un certo senso gli Autechre concretizzano tali entità performative nella costruzione di un sistema di improvvisazione e composizione algoritmica che fonde la sintesi dei suoni e la creazione dei processi in un’unica struttura logico-formale. Questa struttura è stata talora chiamata “auto-generativa” e tale definizione ha proiettato un’aura mistica su immaginarie intelligenze artificiali in grado di produrre senso musicale in maniera indipendente dall’uomo. Sarebbe più corretto dire che il sistema è auto-generativo soltanto se si considerano i due esseri umani all’interno di esso: di fatto, questo sistema è il frutto di un processo di conversione di una logica musicale (profondamente umana) entro una struttura simbolica in grado di controllare i vari parametri del suono nel tempo. L’oggetto algoritmico prodotto è dunque una ri-configurazione del loro pensiero musicale e funziona unicamente in sincronia con le menti dei suoi creatori. Il sistema infatti non ha una temporizzazione totalmente predefinita – non ha cioè inizio, fine o climax – se non mediante l’interazione umana in tempo reale. Per questo ciò che ne viene fuori è una musica fortemente sintetica ed astratta, ma al contempo viva ed organica, che conserva lo spirito di una jam anche in complesse strutture ritmico-timbriche. Allo stesso tempo, proprio perché risultante da un pensiero algoritmico, questa musica è totalmente illeggibile se la si considera entro le coordinate formali della tradizione compositiva occidentale fondata sulla scrittura. La musica degli Autechre si pone in una tradizione (e trasmissione) altra, che non suggerisce alcun significato semantizzabile entro coordinate culturali acquisite, mantenendo tuttavia una forma narrativa percepibile.

Forse proprio per amplificare questo senso di alterità, gli Autechre prescrivono che le loro esibizioni avvengano unicamente nel buio totale. Oltre ad alimentare una certa misticizzazione della loro pratica con la caratteristica nebulosità degli artisti del roster Warp Records, il buio è al contempo strumento di riduzione (visiva) ed incremento (uditivo) della percezione; una scelta di alterazione delle condizioni predefinite che somiglia all’ascolto acusmatico teorizzato dalla tradizione elettroacustica. L’ascolto acusmatico è un ascolto in cui i suoni sono separati dalla loro sorgente originaria al fine di privarli di un rapporto di causalità e percepirli come “oggetti sonori” in sé. A prescindere dal discusso ruolo ontologico che gli oggetti sonori rivestono nella musica cosiddetta concreta, è innegabile che ci sia da parte degli Autechre una certa convergenza ideale, corroborata anche da un contenuto musicale che si trova spesso al confine con certa musica elettroacustica. Nel caso di OneSix l’analogia è chiara, in quanto per la maggior parte del tempo gli oggetti sonori fluiscono senza confini formali evidenti, organizzandosi soltanto attraverso la riproduzione di infinite permutazioni ritmico-timbriche che formano un brodo colloidale di gesti elettronici convulsi – un po’ come in certi brani di Ake Parmerud o Erik Nystrom.

Si potrebbe altrettanto affermare che OneSix è un live doom: esso viaggia ad una velocità media quasi tre volte più lenta delle densissime tracce di dischi come Untilted o Draft 7.30, mantenendo però un ritmo che evolve trascinandosi in maniera inesorabile. C’è un’estrema coerenza dei materiali sonici lungo tutto l’arco temporale, analogamente ad Oversteps, sebbene in questa circostanza la sostanziale compresenza degli stessi oggetti sonori produca continuamente nuove configurazioni timbriche. L’omogeneità dell’orizzonte timbrico contrasta enormemente con irrefrenabili mutazioni nelle dinamiche interne dei suoni, contribuendo a costruire un’atmosfera da sludge metal collassato in interminabili processi logico-macchinici.

Ognuno di questi sette live trasporta in una dimensione puramente sintetica, totalmente surrogata da ogni possibile relazione con la “realtà”, dove gli oggetti sonori conservano tuttavia coordinate energetiche, timbriche e spaziali che rispondono a comportamenti fisici del tutto surreali, eppure rappresentabili. Mentre le loro recenti pubblicazioni, come Elseq 1-5 e buona parte delle NTS Sessions, mettevano al centro della ricerca sonora la continua compenetrazione di diversi livelli di profondità dello spazio acustico, in OneSix la ricerca si sposta più specificamente sulla materialità dei suoni. Si può osservare che, eccetto per un paio di momenti caratteristici che svolgono una funzione del tutto narrativa – come i monumentali stab di organo digitale posti attorno al minuto 43 dei live del 2016 – è possibile raggruppare i restanti suoni presenti in una manciata di famiglie timbriche, molte delle quali sono caratterizzate dall’uso di tecniche di manipolazione del suono che puntano a conferire una materialità fisica ai suoni sintetici. A rischio di cadere in discorsi eccessivamente tecnici, sarebbe improprio trascurare che in OneSix gli Autechre abusano continuamente di una particolare tipologia di filtri (comb filters) solitamente impiegata per creare le risonanze degli effetti di riverbero. In questo contesto tali filtri vengono invece sfruttati come processi costitutivi dei suoni stessi, creando timbriche sintetico-organiche.

Da questo punto di vista, il controllo sonoro ottenuto da Rob e Sean non trova alcuna comparazione in nessuno dei progetti musicali solitamente a loro associati, proponendo ancora una volta soluzioni sonore inedite che spingono un po’ più in là i limiti della musica elettronica.


Riccardo Ancona aka Olbos è un musicista e creative coder romano. La sua ricerca è incentrata sulla composizione, la performance e la divulgazione di musica algoritmica ed elettroacustica. Ha fondato Mossa Records e collabora in diversi progetti radiofonici.