Autechre, ovvero l’inganno del suono e della ragione.

Se c’è una cosa più complessa delle strutture ritmiche degli Autechre è sicuramente quello che pensano degli Autechre i loro stessi fan. Il duo inglese, con il suo approccio apparentemente distaccato e l’ermetismo delle ultime produzioni, ha generato attorno a sé lo stesso mistero che si è formato per altri produttori elettronici poco loquaci come Boards of Canada o Aphex Twin. E quindi, nel corso degli anni, internet si è riempita di teorie e di analisi sul senso di molte loro produzioni, ed in generale sul loro approccio alla composizione. In realtà la questione è molto più semplice. Anche se non è detto che la semplicità sia sinonimo di superficialità o di non complessità.

Ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere Sean e Rob nel 1996 quando fecero un mini tour in Italia. Ero nel backstage quando suonarono al Forte Prenestino a Roma e poi nelle altre serate assieme a Marco Passarani e Mauro “Boris” Borella ed Enrico Croci che li traghettarono fra l’altro al Link a Bologna. In quei giorni con loro, ho conosciuto due persone molto tranquille e piuttosto introverse, fondamentalmente figlie del loro tempo. Ragazzi inglesi nati sentendo hip hop, electro, house, acid e techno, ma che avevano anche assorbito tutta l’elettronica inglese anni ’80, sia la parte più synth pop che quella più sperimentale, spesso confluita nel mainstream (vedi ad esempio il lavoro di ricerca sonora della BBC). Lo stesso humus musicale in cui si è formata quasi tutta la scena elettronica inglese e che ha permesso la nascita di un modo di comporre musica e ritmi che si è poi legato in maniera indissolubile con lo sviluppo della tecnologia applicata alla composizione e dando la possibilità ai musicisti di creare innumerevoli ibridi come un pittore alla sua prima esperienza con Photoshop.

Non esisterebbe la Warp ad esempio, se non ci fosse stata la scena elettronica di Sheffield anni ’70 e ’80; come non sarebbe esistita la jungle se non ci fosse stata la scena dub londinese e il freestyle di Brooklyn di Frankie Bones tramite i primi rave. Rispetto ad altri paesi, quella inglese è sempre stata la scena dove ha regnato il meticciamento di stili musicali e dove la manipolazione del ritmo è stata sempre centrale, dalla prima scena hardcore rave con la completa re-interpretazione parossistica del break funk, fino alla destrutturazione ritmica della dubstep e del grime.

In questa terra dell’abbondanza e della frastornazione, si sono mossi a metà degli anni ’80, Sean Booth e Rob Brown, abbagliati all’inizio soprattutto dal’hip hop e dalla breakdance in quel di Rochdale, vicino Manchester, per poi iniziare a collaborare dal 1987 con quei matti della Skam, una delle etichette meno citate nella storia dell’elettronica post rave, tramite il loro collettivo Gescom (in cui va citato anche uno dei migliori dj del pianeta, Rob Hall). Qui iniziano il loro percorso, assieme ai Boards of Canada, cercando di declinare i beat hip hop con il disagio della provincia e soprattutto delle possibilità dei campionatori, primo vero accesso del duo verso la destrutturazione sonora che li contraddistinguerà in seguito. Ma è solo quando esplode la famigerata scena IDM, il termine più odiato della storia della musica dopo l’Italo, che il duo definisce la sua identità. Dapprima con la partecipazione alla famosa compilation Artificial Inteligence su Warp e poi con tre album in tre anni, Incunabula, Amber e Tri Repetae sempre su Warp, che fanno breccia nel cuore di tutto quel nuovo pubblico che si era creato dopo l’esplosione della scena rave e che non voleva solo stare nelle chill out zone di qualche capannone sperduto, ma voleva comprare e sentire anche a casa quella nuova musica che magari, sotto trip, gli era sembrata unica.

Il bello è che tutta quella musica era veramente nuova. Non era solo figlia di allucinazioni o empatie generate da sostanze. Il mondo di suoni che disegnava era futuristico ed era altro da tutto: era la colonna sonora del loro quotidiano. La musica che ti metti in cuffia mentre vai al lavoro e capisci che quello che hai intorno non c’entra un cazzo con quello che pensavi che il mondo sarebbe stato. Gli Altern 8 e gli UR ti facevano ballare il sabato sera, gli Autechre e Aphex Twin ti accompagnavano la mattina in metro o nei pomeriggi uggiosi facendoti viaggiare senza sostanze, al massimo qualche canna. Ti facevano soprattutto capire che lo scollamento c’era, ma che c’era anche una possibilità di cambiamento. Quelle musiche erano affreschi di futuro che ti si formavano davanti gli occhi, come neanche la VR avrebbe potuto fare in seguito. Pura allucinazione acustica in tempo reale.

Ovviamente non c’erano solo Rob e Sean. Di artisti bravi in quegli anni ce ne sono stati tanti, ma il problema era che tutti facevano cose leggermente diverse l’uno dall’altro. Non c’era l’amen break, una 303, una 808 o una 909 ad uniformare i brani come avveniva nei rave o nei club. La tecnologia musicale usata nella cosiddetta IDM , anche se uguale, dava risultati diversi. Era basata sull’elaborazione del suono e soprattutto del ritmo, su cui appoggiare melodie mai completamente definite e spesso ripetitive, delle nenie urbane che però sapevano anche di spazio e non conosciuto. Dai sampler di vario tipo, si passò ai software di sampling ed emulazione sonora. Tutto sempre per andare oltre. Per entrare ancora di più in quella visione di futuro, magari perdendosi un po’, ma a dimostrazione che la tecnologia era un tool, un mero strumento di congiunzione con un mondo che non esiste. Come nella Techno più pura.

In quel periodo con Marco Passarani eravamo fra i direttori artistici di Distorsonie, il primo festival di musica elettronica post rave italiano, che veniva ospitato al Link a Bologna. Proponemmo tanti nomi al nostro referente principale, Mauro Borella. Fra i primi ci furono i ragazzi della Skam (Gescom, Freeform, Rob Hall), la Rephlex e anche i ragazzi della Schematic di Miami del duo Phoenecia, una sorta di Autechre americani, in cui militava anche Otto von Schirac, Richard Devine e gli stessi Autechre che per loro fecero alcuni remix epici. Quando li incontrammo, mi sembrò di rivedere lo stesso approccio di ricerca sonora di Sean e Rob: capire fin dove le macchine poteva spingersi. Zero ego e concettualità. Solo pura ricerca sonora. Devine come anche Josh dei Phonecia erano anche dei veri maghi della programmazione e dell’editing e lavoravano solo con laptop, fatto assolutamente nuovo in quegli anni. Devine in particolare elaborava patch complessissime ed era fissato con la modellazione del suono e l’elaborazione del pattern ritmico. In quel periodo si sentivano tutti. C’era uno scambio continuo di software che diede vita allo sviluppo di un vero e proprio suono unitario che vedeva al centro sempre più la scomposizione del beat.

Se nei Boards of Canada l’elemento ritmico era volutamente obsoleto e secondario, negli Autechre, da Chiastic Slide in poi, ma soprattutto da Confield ed eliminando volutamente LP5 che svetta per unicità e purezza assoluta, la frammentazione ritmica diventa centrale. E’ forse anch’esso un lavoro sulla nostalgia e sulla consapevolezza della dissoluzione del passato in un presente che non sarà mai futuro. Nei BoC la melodia diventa una foto sbiadita o un super 8 solarizzato, mentre negli Autechre il ritmo diventa un break infilato nell’ingranaggio di una scala mobile. Un loop senza fine di destrutturazione sonora. Ma tutto questo inconsapevolmente, direi naturalmente, senza alcuna sovrastruttura concettuale. Come dei Kraftwerk da Westworld in bilico fra autocoscienza e rielaborazione continua di pattern uguali e sempre diversi, Sean e Rob si avventurano in ogni lavoro con la consapevolezza che l’esplorazione del suono non potrà mai finire, a costo di essere assolutamente autoreferenziali e criptici.

Della loro avventura sonora, ultimamente ricca di lavori molto spesso ostici, è però interessante la reazione del pubblico e dei loro fan, fra adulazione indiscussa e ricerca di significati che quasi mai ci sono. Come se in fondo non ci si potesse semplicemente arrendere al Suono come fanno loro e si dovesse necessariamente razionalizzare. Il che è un bellissimo ragionamento (questo sì) sulla difficoltà del rapporto del mainstream con la musica strumentale che, in assenza di testi, melodie o ritmi definiti secondo le nostre abitudini culturali, ha bisogno di una contestualizzazione per esistere. Come se il Suono non avesse diritto all’esistenza di suo. In molto lo capiscono e sono i veri fan, altri fanno finta di capirlo, alcuni lo rifiutano a prescindere e altri ancora lo accettano solo se contestualizzato. In questo senso gli Autechre sono un vero esperimento sociale in tempo reale. Sicuramente non voluto da Sean e Rob.


Andrea Benedetti si occupa di techno, electro e musica elettronica da 30 anni sia come dj che come produttore con la sua ex-società di produzione e distribuzione Finafrontier assieme a Marco Passarani e per altre etichette italiane e straniere come Sounds Never Seen, Plasmek, Sysmo, Solar One, art-aud, Glacial Movements (con Eugenio Vatta) e New Interplanetary Melodies… Ha scritto articoli e recensioni per Orbeat, Superfly ed electronique.it e nel 2007 è uscito il libro Mondo Techno per Stampa Alternativa, curandone la riedizione, Mondo Techno Remix per lo stesso editore nel 2018 assieme a Christian Zingales.


Grafica di Jacopo Buono (PHASE).