TRASLOCOVID.

Sono trascorse tre settimane da quando stavo affogando nel sonno, esattamente ventuno giorni e non una volta senza che, al calare del sole, si ripresenti strisciando lo stesso senso di oppressione; meno violento di quella notte concitata, ma non per questo più clemente. Via via che sulle tegole e tra i rami gemmati la luce si va prosciugando, si stringe la presa delle spire invisibili, fino a che, quando ormai fuori è buio e la finestra non concede altro che il riflesso del monolocale, le telefonate e i dialoghi dei film non sono inframmezzati dall’intercalare dei miei respiri affannosi.

L’abbraccio costrittore mi avvolge fino alle ultime ore prima della partenza, mentre mi aggiro frastornato per la stanza come uno sventurato sul luogo di un incidente o di una bomba. Il tempo sembra raggelato, il pavimento è disseminato di valigie riempite a metà, scatoloni da chiudere e buste cariche; sul letto pile di panni piegati, documenti di lavoro e piccoli elettrodomestici. Ogniqualvolta giunge il momento di svuotare armadi e librerie, in occasione di grandi pulizie oppure di un trasloco, come in questo caso, si ripete l’incantesimo. Vengo sopraffatto dalle cose. Ora, liberarmi dell’inutile e del vecchio è da sempre impresa tutt’altro che facile e l’alternativa tra il conservare e il buttare non prevede vera scelta. Questo perché gli oggetti, che tra i rifiuti non vogliono finirci, si servono del ricatto per salvare la pellaccia e prendono in ostaggio i dolci momenti passati, promettendo di custodirne il ricordo finché avranno la garanzia di restare in circolazione: se ti sbarazzi di noi, dici addio a quel pomeriggio o condanni a morte i tuoi diciassette anni. Sarebbe tollerabile, forse anche giusto, se questo potere spettasse solo ai souvenir dei viaggi, ai cimeli dei primi concerti e alle logore magliettine di gruppi oltraggiosi indossate con orgoglio al liceo, ma la situazione rischia di diventare insostenibile quando ci si mettono anche cose oggettivamente meno memorabili: tappi, bottiglie, biglietti da visita, volantini, incarti. Gli scontrini perfino.

Se non altro si tratta di un caso patologico a bassa intensità, e negli anni sono riuscito a scendere a compromessi con la ragione per non soccombere nella missione disperata di trattenere tutto. Sta di fatto che, approfittando della mia costitutiva debolezza, le schiere degli aguzzini hanno potuto prosperare, mimetizzate tra i soprammobili, raccolte in scatoloni e scatoline, indisturbate dentro sportelli e cassetti. Solo quando il patto è minacciato da cause di forza maggiore, tornano ad alzare la voce tutte insieme e più sono piccole e insignificanti e più strillano. “La pagherai! Non osare! Guarda che te ne penti!”

Per fortuna stavolta, laddove la mia cedevolezza non avrebbe saputo opporre argini, mi vengono in soccorso le circostanze, considerato che a distanza di sei mesi scarsi dal mio arrivo non c’è troppa roba da impacchettare.

Ciononostante, per tutto il pomeriggio la mia già vacillante intelligenza pragmatica mi abbandona, e mi ritrovo impantanato tra clamorosi errori di valutazione e pericolosi tentennamenti. Do la precedenza a un’ultima spesa e a una passeggiata di addio al quartiere. Rincasando, mi imbatto nella ragazza della tavola calda dove ho pranzato decine di volte prima di andare al lavoro e dove non vado più da giorni. Ci fermiamo a scambiare due chiacchiere a distanza di sicurezza, lei tiene per mano la figlioletta, mentre le comunico che il mio tempo a Montpellier è finito. Risponde con la posatezza e cortesia di sempre, ma dal tono, forse più piatto del solito, trapela la tristezza di questi giorni, mentre dagli occhi verdi traboccano due grosse lacrime brillanti. La guardo segretamente ammirato, mentre, senza la minima incrinatura nella voce, mi presenta alla bambina che scalpita, asciugandosi frettolosamente le guance col dorso della mano. Un ultimo sorriso con gli occhi lucidi e si allontana trascinandosi dietro la piccola, mentre richiudo il portone sulla strada.

Dopo un altro paio d’ore dedicate a chiamate e messaggi rinviati per settimane e improvvisamente impellenti, mi convinco finalmente a iniziare i preparativi, senza però riuscire ad attenermi a una sequenza coerente di manovre e continuando a rimbalzare tra i bagagli, l’armadio, il bagno, il letto, sempre col pitone al collo. Impiego il triplo del tempo necessario per ogni operazione, fino a quando l’orologio non lascia più dubbi. Il tempo sembrerà pure raggelarsi, ma col cazzo che si ferma, visto che sono le due e mezza.

È l’allarme che mi serve per uscire dallo stallo: suono le campane a stormo per radunare ciò che resta del mio senso pratico: ficco tutto dentro alla rinfusa, poi i conti si fanno a casa. La situazione effettivamente si sblocca, ma è troppo tardi per le pulizie finali, quindi rimando alla mattina. Giusto il tempo necessario a vergare le autodichiarazioni francese e italiana e, quando mi corico, mancano ormai meno di quattro ore alla sveglia, se voglio farmi trovare pronto quando la mia collega S. passerà a prendermi in macchina.

Fin dai tempi delle gite scolastiche la vigilia della partenza la passo quasi insonne, figuriamoci ora che mi aspettano mille chilometri di strada attraverso due nazioni sotto chiave. Per giorni ho respinto questa soluzione, sordo alle suppliche di mia madre e ai consigli dell’amico-con-gli-agganci-al-ministero, perché rientrare proprio ora in Italia, con tutto quello che si sente, mi sembra un po’ come paracadutarmi in un teatro bellico. Quando poi sul serio Macron va in TV a farneticare di guerra e i giornalisti cominciano a parlare dell’Italia come di un esempio da seguire, dopo settimane di prese per il culo, diventa chiaro che è ora di svignarsela. Se la supponente opinione pubblica francese, che fino a inizio mese si riteneva immune, si dichiara pronta a fare le cose à l’italienne, c’è da concluderne che stiamo nelle mani del Signore.

Appena si concretizza la possibilità di restare bloccati qua, col contratto prossimo alla scadenza e l’affitto da pagare, S. propone di metterci in viaggio e rientrare nell’occhio del ciclone. Nonostante la titubanza iniziale, sento di non avere alternative e accetto.

Non è tanto il carattere rocambolesco di questo trasloco internazionale in tempo di pandemia ad angosciarmi. Certo, ripartire così, presi in contropiede dagli eventi e dai decreti presidenziali, abbandonando un mese prima del previsto persone, posti e programmi, è un duro colpo all’ottusa fede di avere sempre tempo a disposizione. Da bravo apocalittico però, mi oriento forse meglio di altri nel nuovo scenario. No, non è questo a togliermi il sonno, quanto la semplice prospettiva di dover dare a S. il cambio al volante. È che l’aspettativa di guidare per ore su autostrade vuote risveglia la mia vecchia agorafobia. Mi basta figurarmi di stare chiuso per un’intera giornata con un’altra persona in una macchina che corre su una carreggiata deserta per cominciare a mettere in dubbio la decisione di partire, ma non c’è altro da fare. Non vedo vie d’uscita e proprio qua sta la tragedia.

La Panda si mette in moto e tiro un sospiro di sollievo. L’abitacolo è talmente stipato di trolley, zainetti, borse, scatoloni, sacchetti, bottiglie, vecchi CD – c’è perfino una pianta in vaso sotto il sedile e una bici smontata che gratta il sottotetto – che non ci avrei scommesso. Anni di transumanze di famiglia sulla Salerno-Reggio Calabria per raggiungere i parenti in Sicilia, eppure non sono preparato a questo.

Si parte senza guardarci indietro, non solo perché lo specchietto retrovisore è del tutto inservibile a causa della muraglia che si erge dietro i poggiatesta, ma perché mettersi in viaggio in questa situazione assurda, per quanto giustificato, suscita sensi di colpa. La splendida luce occitana rende più cocente l’umiliazione di scappare così, il primo giorno di primavera.

Nei giorni precedenti sul gruppo Facebook della comunità italiana locale noto un fenomeno curioso. La realtà traumatica in cui apéros e soirées sono continuati per giorni, quando dall’altra parte della frontiera la gente moriva nei corridoi degli ospedali al collasso, deve aver allargato le crepe nella già confusa identità di alcuni dei membri più attivi della pagina, dalle quali fa capolino una figura mostruosa: Italia, genitrice ctonia dalle mammelle generose di latte e kaffèèè, uscita vittoriosa da tante misteriose battaglie e per questo stremata e bisognosa delle cure zelanti dei suoi figli poliziotti. Non c’è ragione che tenga, ognuno resti chez soi, anche le studentesse Erasmus o chi ha perso il lavoro e non sa più come pagare l’affitto. A un certo punto, il giorno prima della nostra fuga, per scoraggiare i recalcitranti, qualcuno semina il panico mettendo in giro la voce della chiusura di Ventimiglia, nonostante l’ambasciata e il consolato ripetano il contrario.

Adesso il buon senso tutto maiuscolo degli itagliani si perde nell’aria tiepida che entra dal finestrino, mentre lasciamo la città semideserta, facendo attenzione a evitare gli uccelli che, col campo libero, passeggiano arroganti in mezzo alla strada.

Alla prima sosta in autostrada per il pieno, in una grande area di servizio si manifesta l’altra presenza costante di questo road trip desolato. Uno accanto all’altro come grandi dinosauri addormentati riposano camion e autoarticolati, antichi padroni dell’autostrada. A distanza di sicurezza dal placido branco sosta un piccolo camper, unico superstite di una razza nomade ormai estinta. Oltre la porticina aperta, una nonna in tuta è assorta in un solitario.

Ripresa la strada, costeggiamo i lembi assolati della Camarga. Giunti ad Arles, voilà les flics: parcheggiata al bordo della carreggiata opposta, compare la prima pattuglia da quando siamo partiti, con un robocop inspiegabilmente cagoulé che sembra aspettare qualcuno da smitragliare, ma non siamo noi e tiriamo dritto a suon di cumbia. La seconda la troviamo appostata ad un casello una volta entrati in Provenza, ma quelli hanno un altro malcapitato tra le mani e manco ci guardano, così proseguiamo indisturbati fino a una Côte d’Azur in fiore.

Come in ogni barzelletta che si rispetti, la terza volta tiene in serbo la gag. Alle porte di Nizza adocchiamo il posto di blocco giusto in tempo per placare gli indiavolati ritmi caraibici e infilarci al volo le mascherine, prima che l’agente ci faccia cenno di accostare. Siamo stati previdenti e abbiamo tutte le possibili attestazioni utili a non farci arrestare, ma non riesco a togliermi la sensazione di apparire sospetto a viaggiare in queste condizioni.

Il poliziotto si affianca al lato del conducente e a due metri di distanza fa segno di tirare su il finestrino, lasciando uno spiraglio. “Documenti, prego”. Osserva il nostro carrozzone da circo senza una parola. Ripesco la mia attestation de déplacement dérogatoire un po’ spiegazzata e faccio per passargliela dalla fessura, come all’ufficio postale, quando intima di non provarci nemmeno, ma di incollarla al vetro. Mentre una voce interiore mi ripete “questi ora ci fanno scendere, ci perquisiscono e come minimo bruciano metà dei nostri averi”, sento chiedere: “Ma state rientrando in Italia?”

“Eh… sì…”

“A posto, andate.”

Il temuto controllo finisce così, non guarda nemmeno la carta d’identità. Prima che ci ripensino, mettiamo in moto e ci dileguiamo. Da qualche parte nel mucchio, sento gli scontrini e i bicchieri di plastica cantare vittoria per lo scampato pericolo.

Nonostante l’esultanza iniziale, il lassismo della polizia francese lascia presagire ben altra accoglienza alla frontiera. Ci hanno lasciati andare senza questioni solo perché togliamo il disturbo e lasciano che se la sbrighino i loro colleghi italiani. Mentre ci avviciniamo a Ventimiglia ripassiamo la versione da rifilare alle guardie, per evitare di innervosirle e scampare alla fucilazione come sospetti untori. I battiti accelerano quando, transitando su un breve viadotto infilato tra due gallerie, su un piccolo cartello quadrato sporgente nel vuoto compare: ITALIA, in bianco, con la corona di stelline su sfondo blu.

Quando sul finire della mattinata arriviamo al casello, però non c’è nessuno. Nel senso che non solo non ci sono gli eroi della nazione, ma non c’è nemmeno traccia di più modeste presenze umane. I gabbiotti sono vuoti, lo slargo è deserto, la strada silenziosa. Un mezzogiorno di fuoco, senza nemmeno lo sceriffo. La frontiera po esse fero e po esse piuma: oggi è stata ‘na piuma.

Preso da un raptus euforico e sedizioso, premedito di scatenare una flame war nella comunità italiana di Montpellier una volta arrivato a destinazione, pubblicando un paio di foto con la didascalia: “I confini sono sguarniti, l’Italia è aperta e di chi se la prende”. Sarebbe bello salutare quel gruppo con un buongiornissimo così, mandando in frantumi i deliri law and order degli italiani brava gente, ma penso che qualcuno potrebbe non reggere il colpo, in un momento del genere. Lì per lì è proprio questo il maggiore incentivo a farlo, per ripagarli del panico generato dalle loro stronzate, ma come sempre finirò per scendere a più miti consigli.

Ci penso ancora mentre, dando prova di aver ormai interiorizzato i dettami del distanziamento sociale, consumiamo in silenzio il nostro ultimo pranzo preparato a Montpellier, chiusi in macchina in un’area di servizio spazzata dal vento, da qualche parte a metà strada tra Imperia e Savona.

Il tracciato dell’autostrada ormai costeggia la Riviera di Ponente e tra una galleria e l’altra si affaccia il mare. Sarebbe il caso di documentare il momento epocale, ma le prestazioni mediocri della fotocamera, il parabrezza maculato e il photobombing di guardrail e frasche mi convincono a desistere. Sarebbe indimenticabile se potessimo fermarci, visto che non c’è nessuno, ma non ho il coraggio di proporre a S. nemmeno di rallentare: temo che non capirebbe questo mio desiderio, giudicandolo troppo frivolo. E poi c’è pure una luce di merda, col cielo assolato e insieme lattiginoso che si mescola al mare in un punto indefinito, per cui decido che non vale la pena di rischiare la morte, travolti in curva magari dall’unico autotreno in circolazione in Liguria.

Immersa in questa luce acquosa e disperata ci accoglie Genova, annunciata dai tunnel che si snodano sotto i palazzoni arroccati della sua periferia ovest. L’autostrada si interrompe all’improvviso allo svincolo per il ponte crollato e siamo costretti a scendere in città per riprenderla dall’altra sponda del Polcevera. Facciamo il nostro ingresso trionfale dall’Aurelia srotolata come un tappeto rosso da Cornigliano alla Lanterna. Le acciaierie, le torri di container, le gru del porto, i balconi scrostati dalla salsedine affacciati sul lungomare stanno a guardare questa intrusione nel loro mondo senza più gente.

Genova, è la prima volta che ci incontriamo ed è un peccato che avvenga così. Entriamo senza bussare e ti sorprendiamo nuda, con sgomento ed eccitazione. Intanto il navigatore smette di collaborare e non vuole più saperne, quando al termine della discesa, ai piedi di un grattacielo di vetro, si materializzano dal nulla alcune persone. Saranno cinque o sei tra i due capi della strada, chi da solo e chi in coppia. S. rallenta in attesa di indicazioni su quale strada prendere, ma io taccio, ipnotizzato dalla scena di due uomini che, incrociandosi al centro della via inondata dal sole, si fermano per un istante a stringersi la mano sorridenti, prima di passare oltre.

Riprendiamo la via del levante e il clima in macchina continua a essere rilassato e il mio umore è tutto sommato alto, la preoccupazione della sera prima sembra eccessiva adesso, quindi appena S. dà segni di stanchezza all’altezza della Spezia mi propongo di darle il cambio al volante. Senonché, mentre aspetto il mio turno per andare a pisciare in un fosso, alla larga dall’autogrill, circospetti come randagi – in lontananza due camionisti in mutande e ciabatte seduti sul marciapiede del parcheggio, le scapole esposte al vento, la pancia gonfia appoggiata sulle cosce e le palle sul brecciolino – capisco di aver cantato vittoria troppo presto, a giudicare dal nodo allo stomaco e dall’agitazione ronzante. Partono i rimproveri per aver sopravvalutato la mia tenuta emotiva, ma, arrivati a questo punto, l’amor proprio non consente passi indietro e, al momento di riprendere il viaggio, mi metto al volante, faccio manovra alla cieca e imbocco la corsia di immissione.

Più la Panda sovraccarica prende velocità, più le mani si fanno sudate e il respiro si accorcia. Apro il finestrino, l’aria che mi sferza il viso e il rombo che percuote il timpano mi tengono all’erta, mi distraggono dal pensiero stupefacente di stare seduti in poltrona dentro una scatola lanciata a tutta velocità, mentre il paesaggio si muove su uno schermo. Mi concentro su un punto indistinto qualche metro più in là del cofano ed evito di spaziare troppo con lo sguardo, di alzare gli occhi sulle Alpi Apuane alla mia sinistra, sul cielo della Lunigiana o sul punto di fuga in fondo alle due corsie vuote. Improvvisamente accuso ogni minuto di riposo perso, ma sono talmente teso che la palpebra non può calare; più probabile invece che mi cadano i bulbi dentro le orbite, per come sento i muscoli oculari ricoperti di ruggine.

Forse S. capta l’impercettibile tensione che aleggia nei due metri cubi che condividiamo e, spulciando la collezione di CD dei genitori, propone i Gipsy Kings. Saranno venti anni che non li sento, ma in qualche modo funziona: riesco a mantenere il controllo di me stesso e del mezzo, perfino mentre supero l’unico rivale in pista, un pullman turistico. Sulla corsia di sorpasso esito, mentre già vedo il mastodonte stringere improvvisamente a sinistra e spalmarci sullo spartitraffico. Siamo a metà della lunghezza del pullman, che ora misura centocinquanta metri, tengo gli occhi fissi davanti, mentre al di sopra dell’ansito della bestia in corsa una vocina mi sussura “Ora vi ammazzate” e i Gipsy Kings gridano “Bamboleooo!”. Vorrei urlare pure io per darci più spinta, per darmi coraggio, ma pure questo alla povera S. vaglielo a spiegare. Mantengo il contegno anche mentre osservo rimpicciolirsi la bestia sconfitta nello specchietto di destra e dentro di me mi batto il petto in segno di trionfo.

Ancora in preda al delirio continuo ad accelerare su una sopraelevata infinita, che separa le litigiose province di Pisa e Livorno. Il rettilineo nel nulla, la velocità, le raffiche di vento che scuotono l’abitacolo, l’attacco di The Great Gig In The Sky, ci lanciano su una rampa di decollo per lo spazio. Da un momento all’altro mi aspetto di vederci superare in altezza gli stormi che, spaventati dal nostro passaggio, si levano sulle dolci colline toscane, sui loro casali e i loro guardoni. Non spicchiamo il volo, ma lo scenario cambia presto lo stesso quando riprendiamo l’Aurelia, puntellata di case cantoniere e di gatti stecchiti sull’asfalto butterato. Ogni piccola buca potrebbe dare il colpo di grazia alle sospensioni allo stremo, ma a farci quasi finire fuori strada è un attimo di distrazione mentre richiudo la bottiglia dell’acqua da cui bevo compulsivamente per placare l’ansia.

Cogliendo l’occasione dell’ultima sosta per svuotare la vescica dietro una pompa di benzina tra i campi, S. mi esonera dalla guida e riprende il volante. Attraversando alcune frazioncine, capitali della noia e dell’eroina, incrociamo un paio di volanti che marciano in senso contrario, ma non si fermano, non fanno inversione, non ci inseguono. In questo tramonto sulla Maremma siamo invisibili, come il resto dell’umanità, scomparsa alla vista, inghiottita dalle casette giallo vomito con i ballatoi e l’aia sterrata.

L’ultima cosa illuminata dai raggi sempre più deboli che scavalcano l’Argentario e sorvolano la laguna di Orbetello è il portico abbandonato sotto i pini della Dogana pontificia.

Calato il sipario della sera, non resta che l’intrattenimento di chiacchiere stanche fino all’arrivo dai miei, dove scaricheremo in fretta prima che S. riscenda a Roma. Civitavecchia, Fiumicino, il GRA, l’Appia, i Castelli Romani bui e desolati come alle quattro del mattino e invece non è che l’ora di cena. Troppo stanchi per stare a dare spiegazioni agli sbirri, gli ultimi dieci chilometri sono tutti una manovra di aggiramento dei centri abitati, ma finalmente, come per miracolo dopo dodici ore di viaggio, approdiamo al cancello di casa mia senza veder sventolare palette.

Il gracchio del citofono mette in moto la grottesca procedura di accoglienza. Mentre scarichiamo la macchina, padre madre e sorella scodinzolano nel vialetto di ingresso, festanti e timorosi. Divisi tra il sollievo per la ritrovata integrità del nucleo familiare e la preoccupazione per la potenziale bomba virale che si stanno mettendo in casa, ogni loro gesto ed espressione trasuda commozione e imbarazzo. A distanza di sicurezza, si congedano ringraziando S. con la stessa reverenza riservata a un primario dopo diciotto ore di intervento. Prima di seguirli e di andare incontro a quello che mi aspetta, faccio lo stesso, optando per un sovversivo abbraccio, ultima occasione di contatto umano per due lunghe settimane.

Chiuso il portone, mi faccio subito un’idea delle due settimane di “sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario” che si prospettano. Prima ancora che il mio impermeabile tocchi la sedia si leva l’urlo materno: “Nooo! Non toccare niente, lascia tutto in camera tua!”. Attraverso lo spiraglio della porta della cucina in cui si sono barricati, le donne di casa mi recitano il protocollo da seguire, mentre intravedo il mio vecchio passeggiare rassegnato intorno alla tavola apparecchiata, esautorato e degradato da pater familias a potenziale vittima.

Mentre trascino le valigie fino al piano di sopra, sento mia madre gridare dal fondo delle scale: “Vatti a sistemare, ché è pronto da mangiare!”. Appena accendo la luce, la stanzetta rettangolare appare più piccola del solito nel giallo tenue, così innaturalmente ordinata e pulita. Mi hanno preparato la cella. Ripenso a una vecchia foto scattata da questa soglia giusto dieci anni fa. Era questa la mia prigione di carte?

Mi volto e sulla porta del bagno, scritto col pennarello rosso in una grafia familiare su un foglio a quadretti, leggo il mio nome. Sarà per evitare che papà, ormai mosso solo dalle tenaci e ottuse forze dell’abitudine, metta accidentalmente piede nella zona contaminata. Ancora fisso le lettere maiuscole, quando sento il passo inconfondibile di mia madre che sale le scale. Mi chiudo in camera in attesa del via libera, ma quando riapro la porta la sorprendo sul pianerottolo, bardata come neanche dopo Cernobyl. Abbandonato a terra, il vassoio con la cena.

A testa bassa lo raccolgo, apparecchio la scrivania e quando porto alla bocca il cucchiaio ho ancora indosso la mascherina.


Giorgio Vallone vive nascosto. Maestri ineguagliabili e mete irraggiungibili sono il segreto dei suoi insuccessi. Tra i tanti propositi incompiuti, scrivere di più, magari meglio, forse pubblicare. Rompe gli indugi a trent’anni collaborando con Droga.