TE LO DO IO IL PROG. Ovvero: Mini-mini “Guida alle influenze Progressive nella musica italiana non Progressive”.

Le mie dita scorrono febbrili sulla tastiera, con la feroce paura di dimenticare cosa era stato stabilito di scrivere, e soprattutto con l’urgenza di dare subito una semplice e giusta premessa, e cioè che queste farfugliazioni NON hanno assolutamente la pretesa di essere un saggio alle tendenze musicali progressive, ne tantomeno una guida esaustiva. Anche perché non ne avrei la capacità, sia come scrittore che come “esperto” della materia. Qui c’è solo un wild bunch di informazioni raccolte in decadi di ozioso ascolto, avida ricerca, conversazioni Riccardonesche e becero fiuto investigativo. Non voglio fare Nonno Scorreggione, ma davvero “ai miei tempi internet non c’era”, ed ero realmente costretto a fare il Philip Marlowe della situazione, con la musica e con i films. Poi la mia tendenza compulsiva a raccogliere tutto il possibile ha fatto il resto. E ringrazio il cielo che quasi da subito mi sono posto un limite: mai collezionista. Anche perché sono tendenzialmente tirchio. E anche perché alla fine dell’oggetto me ne frega il giusto. Come i vampiri, solo il succo.

Quindi solo pippe per il gusto delle pippe; cronologia al minimo, completezza ma de che, tanti nomi indicati e consigliati per il solo gusto della condivisione. Non sono un professionista del settore, quindi prendete questo per quello che è, una lettera d’Amore alle passioni segnanti della mia vita. Ahò, poi se è troppo fallace e incompleta c’è sempre internet!

Allora, Progressive in Italia come tendenza, e in un certo periodo (perché vendeva davvero bene, specie qui da noi) come moda. Il primo e più pregnante esempio che mi viene in mente è una scoperta fatta leggendo un mio amico, il Maestro Stefano Di Trapani. Little Tony, singoletto blandamente prog. Little Tony, sì, Little Tony. Lui, con un tappetone di tastiere, il brano è Quando c’eri tu, anno di grazia 1974. Perché? In teoria un clone del Re (o anche del Reuccio) dovrebbe essere a debita distanza di sicurezza dal Progressive, dovrebbe stare in un bel bunker antiatomico ad ancheggiare al suono di Jailhouse Rock o Patch It Up. Beh, la risposta che mi viene in mente sul perché sono i soldi. Il Prog e il Proggone vendevano, e poi sotto citerò tanti insospettabili che hanno flirtato più o meno brevemente con la musica dei drogati, per soldi o per semplice amore. O anche perché si sono trovati al posto giusto/sbagliato al momento giusto/sbagliato.

E poi che diamine, lo stesso Elvis aveva proggato nel suo ‘68 Comeback Special, vedesi p.e. Little Egypt.

Del debutto a 33 giri di Riccardo/Richard Cocciante si sa, probabilmente uno dei migliori dischi prog italiani, Mu, il lato A è un mezzo capolavoro. Prima, come Riccardo Conte, non c’era stato nulla di significato ai fini di questo articolo, ma appena fa il disco SDENG, Proggone. Accompagnano nomi notissimi agli estimatori della musica italiana del periodo, da Mick Brill a Paolo Rustichelli (grande tastierista, vedi Rustichelli & Bordini, ma cantante decisamente scarso, tanto da rivaleggiare con il Fabio Celi dell’omonima formazione ospedaliera, Fabio Celi e gli Infermieri, al titolo di peggior cantante italiano di sempre). Il disco è una mina pazzesca, l’anno è quello giusto, il 1972, in un’Italia in piena prog-mania. Persino Bud Spencer, nel 1977, in una scena del bellissimo Charleston, si premurerà di farsi immortalare con al braccio una copia del bestseller Foxtrot, questo per dire quanto qui fosse popolare il Prog. Richard poi continuerà la sua produzione in una più regolare e solida musica leggera, ma di tanto in tanto tirerà fuori i suoi artigli progressivi. Piove, del 1979, sembra quasi un pezzo Zeuhl, poi magari Christian Vander non sarebbe d’accordo, ma il pezzo potrebbe tranquillamente stare nel repertorio di gruppi come Eskaton o Weidorje (ammazza, questo l’ho tirata proprio per i capelli…).

Piccolissima nota a margine utile per il prosieguo, qui cercherò di citare esempi raramente inclusi nelle guide ufficiali del genere, sia chiaro da subito. E andiamo avanti.

Che i Pooh fossero Prog ce lo hanno detto i giapponesi e i coreani, qui da noi al massimo si includeva Parsifal. Poi negli anni ci hanno pensato loro a ribadirlo, addirittura con il disco di commiato, però per molto tempo i nostri sono stati sempre visti solo come i capostipite di tutto un genere ultra-ovattato utile per lo struscio. Non entrerò nel merito stretto della loro discografia proprio perché c’è una grossa fetta di loro estimatori e della stampa specializzata che ormai li considera un gruppo progressive, quindi mi concederò sui loro episodi più eclatanti.

Un po’ del nostro tempo migliore è un discone che meriterebbe di stare nel top 10 o 20 dei migliori dischi italiani del genere, trasuda prog da ogni traccia, tiene per tutta la durata un’intensità devastante che si sublima nel pezzo finale, la drammatica e onirica suite Il tempo, una donna e la città. Credo con  il suo incessante ostinato di basso lanciato come fosse un segugio infernale alla rabbiosa ricerca di una preda da sbranare, e poi l’episodio migliore (IMO) del disco, 1966, dove i sintetizzatori di Facchinetti incrociano le lame con la chitarra di Battaglia in un duello mortale. E il sangue scorre copioso. Alla fine del disco la sensazione è quella di aver attraversato un campo di battaglia, inebriati dall’estasi del sangue.

I dischi successivi sono tutti disseminati di ordigni esplosivi ad alto tasso progressivo, con addirittura episodi che sembrano presi di peso dal Phantom of the Paradise di Paul Williams, Quel tanto in più da Forse ancora poesia. L’Ultima notte di caccia si permette addirittura di sfidare sul loro terreno i Kansas, signori e padroni del prog a stelle e strisce.

Di particolare interesse in ottica prog tutti i dischi da Opera Prima a Rotolando respirando; i successivi, fino all’incirca a Stop, contengono comunque grandi episodi prog & pompus.

Claudio Baglioni è la nostra Area 51. Un mistero che nessuno conosce. Ha disseminato prog a manciate, eppure sembra non saperlo nessuno. Gli esordi di Claudione sono prog, l’opener dell’omonimo debutto, Notte di Natale, è un pugno nello stomaco, manco fosse Why I May Not Know dei Waterloo. Basso fuzzato (molto simile un’altro brano italiano che vedremo più avanti, Sylvie…), organone, urla melodizzate di sofferenza, vero marchio di fabbrica di Baglioni e della sua produzione classica. Da qui in poi, almeno fino a Sabato Pomeriggio, le montagne russe Prog di Baglioni sono aperte, e lui ha da distribuire tanti giri omaggio.

Questo piccolo grande amore è un concept, e questo già la dice lunga sull’attitudine del nostro. Nel disco è già presente il keyboard-arsenal di Toto Torquati (titolare dell’ottimo Gli occhi di un bambino) e Antonio Coggio, e il duo si farà sentire maggiormente nel seguito concept del disco: Gira che ti rigira/amore bello. Cioè, parliamo di un unico concept diviso in due dischi, una bomba atomica.

Gira che ti rigira/amore bello parte subito a dare scoppole, dall’accoppiata iniziale di  Gira che ti rigira e 70, 80, 90, 100… fino alla conclusiva sezione presa di peso dai Pink Floyd del secondo periodo della title track.

Il successivo E Tu… arruola addirittura un campione quale Vangelis (e su di lui andrebbero aperti tutta una serie di discorsi, specie sul fondamentale 666, uscito ai tempi come canto del cigno degli Aphrodite’s Child, ma di fatto primo disco solista del tastierista ellenico), ma per assurdo il disco segnala una decelerazione sul versante prog, e bisogna aspettare il successivo Sabato Pomeriggio per vedere calate sul tavolo briscole progressive del calibro di Doremifasol, 2 1 X, Sisto V.

Il Fabrizione nazionale, Fabrizio De Andrè, l’artista più citato e infilato dappertutto non è stato immune al contagio: Storia di un impiegato è un disco Prog, sia nei contenuti (l’ennesimo concept) che nella struttura (moog cinematico, tempi rallentati a mo di battito di cuore). Il nostro aveva già in qualche modo palpeggiato il sound fiabesco di tante formazioni dedite al prog più campestre e medievaleggiante, vedi Geordie, ma con questo disco l’entrata è decisamente a gamba tesa. Flauti che veleggiano fra Jethro Tull e New Trolls (e loro qui non li tratto perché sono stati 100% prog, hanno avuto più diramazioni dei Deep Purple e in fin dei conti i loro dischi sono abbastanza noti a tutti gli amanti della materia, il capolavoro UT su tutti), cambi di tempo, galoppate. Una bella serata impegnata, un litrozzo di vino, sul piatto Storia di un impiegato e vai, magari intervallando con il primo dei Mighty Baby, non si scandalizzerebbe nessuno.

Battiato qui è pure fuoriluogo, ci sono migliaia di articoli e guide che ne trattano in maniera competente, mi posso giusto limitare a citare Meccanica, pezzo che nel debutto funziona come una piccola descrizione del genere progressive, lo riassume ottimamente.

Poi sui buoni uffici dell’artista ci si potrebbero scrivere centinaia di pagine: Osage Tribe, Alice, Juri Camisasca, Colonnello Musch, Jumbo, Genco Puro & Co., Telaio Magnetico ecc..

Di Giganti, Dik Dik e Equipe 84 sono stati negli anni già ufficializzati i loro ingressi nel genere, con tanto di ristampone in digipack, ma i grandi esclusi (e più progressivi) del mazzo sono i Camaleonti. Amicizia e Amore alterna momenti da mano morta a folli deragliamenti prog. La title track con i suoi cambi repentini di tempo e il refrain pastorale, il prog’n’roll di Amico di ieri, amico perduto, la mini-suite Conosco questo gioco, l’amore e infine l’opus magnum del disco: Gimcana. Una canzone pazzesca, dove le meningi progressive di Tonino si sono spremute al meglio. Cambi di tempo come se piovesse, riffs hard impettiti che richiamano al miglior Nico di Palo, sezioni strumentali che incrociano i sapori PFM di è festa alle stangate rissaiole dei New Trolls più maneschi di La prima goccia bagna il viso. Disco imperdibile, provare per credere! I nostri continueranno a battere le strade progressive almeno per un altro disco, Che aereo stupendo…la speranza, buono ma decisamente non all’altezza del delirante predecessore.

Gli Stadio si formano durante le registrazioni della trilogia classica di Lucio Dalla, e prima di spiccare il volo da soli accompagneranno il cantautore bolognese in studio e nei concerti. Il loro primo omonimo album contiene un pezzo prog, Un fiore per Hal, un viaggio di quasi otto minuti in compagnia di Lucio Dalla, Genesis, Toto e gli Utopia di Todd Rundgren.

Per qualche anno ho avuto la sana abitudine di masterizzare album in ciddì mp3 per caricarmeli in macchina, beh, Disco dell’angoscia l’ho lasciato fuori. Parla di un grifo pazzesco fatto con la macchina che manco Claudio Baglioni che si cappotta e muore con la sua Camilla in Gira che ti rigira. Il disco è molto valido, attribuzione collettiva (a nome Ultima Spiaggia) di un ensemble estemporaneo capitanato da Ricky Gianco, con Gianfranco Manfredi, Ellade Bandini e San Tullio De Piscopo sugli scudi. Non lo ascoltate mentre guidate!

Il nostro esule in terra di Francia più famoso, dopo Oreste Scalzone, è senza dubbio Nino Ferrer: Metronomie del 1971 e Nino Ferrer and Leggs del 1973, dove giganteggia una mostruosa Moby Dick. Meno funkeggiante di Gainsbourg e più progressivo, ma comunque consigliato agli amanti del Sergione d’oltralpe e ai feticisti di Histoire De Melody Nelson.

Ivan Graziani è stata per il sottoscritto una delle voci più belle del panorama italiano nel suo periodo di massimo splendore, gli anni a cavallo fra i ‘70 e gli ‘80, e il cantautore abruzzese ha costeggiato il progressive con curve a gomito che farebbero impallidire un corridore di Moto GP. Il nostro era già in lizza per un posto da cantante nella Premiata Forneria Marconi, ma forse la sua voce cristallina e il comparto chitarre già saldamente occupato da Franco Mussida, faranno cadere la scelta sul Peter Gabriel nazionale, Bernardo Lanzetti. Poco male, il nostro prima accompagna il fidato Hunka Munka in Dedicato a Giovanna G., e subito sfodera uno dei più bei dischi mai registrati in italia, La città che io vorrei, primo album a nome Ivan Graziani (c’era stato un elleppì a nome Rockleberry Roll, Desperation, e la partecipazione all’Anonima Sound prima del 33 giri di debutto). Peccato che questo titolo oggi è scarsamente conosciuto, ristampato una prima volta semplicemente come Ivan Graziani e poi finalmente in ciddì nel 2013. La prima discografia di Graziani è ottima, ma consiglio vivamente l’ascolto di  La città che io vorrei, potreste addirittura ringraziarmi.

Il successivo Ballata per 4 stagioni è forte di un suono più compatto, arrangiamenti più ricchi, in alcuni punti addirittura vicino al jazzrock-fusion, come per esempio in Dimmi tu ci credi?, Donna della terra, o nello strumentale Trench. Il campo della Fiera, La pazza del fiume e la conclusiva E sei così bella sono dei piccoli capolavori, tutte con marcate influenze prog. I lupi, del 1977, è più sul versante rock, ma non mancano episodi progressivi, come Ninna nanna dell’uomo, Il topo nel formaggio, Motocross. Ad ogni modo l’album è oggettivamente molto bello e godibile, come del resto tutta la successiva discografia del compianto grande chitarrista abruzzese. La sua incredibile e caratteristica voce ha solcato alcune delle pagine migliori della musica italina.

Angelo Branduardi qui ad honorem, ma in particolare per il suo omonimo disco di debutto del 1974. Al disco partecipa uno dei più famosi arrangiatori dell’epoca, Paul Buckmaster della Third Ear Band, che firma l’incredibile Eppure chiedilo agli uccelli. Nel disco non c’è ancora quella propensione menestrellesca che connoterà la discografia di Branduardi, o perlomeno non è totalitaria, spuntando qui e là, stemperata da più terreni episodi tendenti al folk. Gli episodi più interessanti sono Ch’io sia la fascia, Storia di mio figlio e e la lunga E domani arriverà.

Dopo la militanza nei New Dada, e prima dell’avventura dei Krisma, Maurizio Arcieri ha costruito una carriera solista quasi esclusivamente basata sui 45 giri, e l’unico episodio a 33 giri è Trasparenze del 1973. Un disco meraviglioso a cavallo fra nostalgie sixties, scarno rock psicotropo e incredibili scenari che anticipano il post-rock e la musica ambientale. Assolutamente da recuperare, merita un’approfondito ascolto.

Dopo una prima parte della carriera vissuta prima come Carla Bissi e poi come Alice Visconti, Alice si scorcia il nome e giunge alla corte di Re Battiato, che per lei tesse Capo Nord, Alice e Azimut. L’ultimo dei tre è il più interessante (Deciditi è il pezzo più spinto), ma ogni fan di Battiato troverà  parecchi motivi di interesse in tutti e tre gli albums.

Francesco Guccini fa una piccolissima comparsata nel calderone prog con Radici; Canzone dei dodici mesi e Canzone della bambina portoghese gli episodi più vagamente progressivi di un album comunque ricco di strumentazione e punti di interesse.

Ivano Fossati e trattato in quasi tutti i testi base sul prog che potete trovare in commercio. Fra il primo disco dei Delirium, il debutto solista di Il grande mare che avremmo traversato e il successivo Poco prima dell’aurora (in comproprietà con quell’altro jolly prog di Oscar Prudente poi titolare del buon Infinite fortune e autore di Stadium, la più famosa sigla di Domenica Sprint), ci sono tanti punti di interesse, marcati da una forte identità stilistica, improntata inevitabilmente dall’uso del flauto traverso. I successivi Good-Bye Indiana e La casa del serpente sono più levigati sul rock, con qualche sprazzo di genio, tipo La vedette non c’è.

Eugenio Finardi incideva per la Cramps, quindi direi che Non gettate alcun oggetto dai finestrini, Sugo e Diesel sono tutti molto interessanti, anche perché c’è il gotha della Cramps a suonare, da Patrizio Fariselli a Ares Tavolazzi. Con Blitz qualcosa muta nel suono, anche grazie alla nuova band che lo accompagna, i Crisalide, e il disco segna un passaggio ad un suono più leggero e meno spigoloso, pur presentando pezzi progressivi come Op. 29 in Do Maggiore e Guerra lampo

Anna Oxa, la bellissima. Il primo disco della splendida cantante pugliese, Oxanna, del 1978, contiene una vera e propria mazzata prog, Se devo andare via, una specie di abc del genere, con tanto di repentini cambi d’atmosfera, parti piano e voce contro potentissimi riffs sinfonici. Altri brani interessanti contenuti nel disco sono il rock di Dove, la famosissima Un’emozione da poco, e Pelle di serpente, con il suo andamento un po’ electro world music.

Giorgio Gaber lo includo per Io se fossi Dio, pezzo di 14 minuti uscito su un 12” ad un solo lato. Gli estimatori del lato B di Animals dei Pink Floyd potrebbero apprezzare parecchio.

I Nomadi li includo solo perché una decina di anni fa Amos Amaranti, chitarrista della formazione per pochi mesi intorno al 1972, pubblicò su Youtube delle registrazioni in sala prove che mostrano il gruppo cimentarsi in pezzi molto, molto progressive. La band nel 1975 pubblicò il singolo Gordon/Sorprese, con il lato A molto vagamente prog.

L’album omonimo di Leano Morelli del 1978 contiene un paio di pezzi davvero interessanti, e ne segnalo in particolare uno, Bob, praticamente un’outtake di Song for America dei Kansas!

Il cantautore Enzo Maolucci ci ha regalato due ottimi albums, L’industria dell’obbligo (1976) e Barbari e bar (1978). Nel primo è d’obbligo citare il duro jazzrock di Rita Fenu, mentre nel secondo Chi ha interrotto Stockhausen e Il barbaro Ulisse.

Riccardo Fogli è il cantante-bassista dei Pooh fino a poco prima di entrare in studio per registrare Parsifal, e documenti live del periodo ce lo mostrano assolutamente a suo agio con il sound progressive che stava imboccando il gruppo. Un anno dopo aver lasciato la band e aver pubblicato un LP solista, da alle stampe il singolo Amico sei un gigante/Una volta di più, con il lato A firmato da Vittorio De Scalzi. La somiglianza con La prima goccia bagna il viso dei New Trolls, e in generale con tutto il debutto dei New Trolls Atomic System, è molto forte, ed il pezzo potrebbe tranquillamente essere considerato uno dei migliori del genere. Nel 1978 registra Matteo, un concept album pesantemente progressivo, tanto che la casa discografica rifiuta di pubblicarlo. Il disco vedrà comunque la luce nel 1999, ormai fuori tempo massimo.

Piccolo intermezzo su meteore che hanno solcato il cielo discografico tricolore, magari anche solo con un singolo o poco più, che mantenendo un’impostazione da canzone leggera hanno caricato il portabagagli di influenze prog: I Bisonti, formazione cara agli amanti del Beat, quelli con il taglio di capelli a caschetto tanto per intenderci, nel 1972 sfornano una progressiva Padre mai come b-side del singolo Dolce Butterfly. Gli Uh! rilanciano, sempre nel 1972 una Più nessuno al campo, sei minuti di cadenzato R&B, cupo e acido, con organo e chitarra fuzzata a farla da padrone. I Vagabondy probabilmente avevano i posters dei New Trolls in sala prove, e Nico di Palo poteva tranquillamente denunciare il loro cantante per plagio: Io chiamo il tuo nome del 1969 è più New Trolls degli stessi New Trolls, quindi ottima. Pezzone!

E chiudo questa mini parentesi con il nome migliore del lotto, Le Estensioni. Caro amore che vai, il loro singolo del 1971, ha sul lato B uno dei migliori pezzi prog di sempre, italiano e internazionale, L’attesa. Raramente mi è capitato di ascoltare un tale concentrato di potenza e intensità, una canzone costruita su una tensione epica rara anche negli episodi più blasonati del genere (e una delle assonanze in termini di tensione strumentale che mi viene in mente, per quanto distantissima come stile, è Everyman degli Stackridge, con la sua liberatoria esplosione finale). Mi permetto di consigliare di andarlo ad ascoltare, a volumi importanti, con scorta di fazzoletti a portata di mano. Astenersi persone facilmente impressionabili, deboli di cuore e vesciche lente, la canzone è davvero una bella mazzata.

L’iconica Donatella Rettore, musa di Klaus Kinski, regina delle Hit-Parade, inizia il suo approccio al rock con il terzo long playing, Brivido Divino. Il disco si apre l’hard rock plastificato della title track, per poi virare sul mid tempo glam punk di Salvami. Quindi si arriva finalmente al prog gallop di Eroe (che somiglia sorprendentemente al brano Un’isola dei Nuova Idea), per poi passare per la disco artsy di Divino Divina, e chiudere degnamente il disco con la scatenato hard’n’roll di Brilla.  Il seguente Magnifico delirio aggiunge altre frecce prog all’arco della cantante veneta: già dall’iniziale marcetta di Delirio con i suoi stacchi a metà strada fra gli ELO e gli Skyhooks, campioni australiani del artsy glam’n’roll. A seguire troviamo Stregoneria, un pezzo anthemico condito da tastiere in odore di Goblin, e la contorta e minacciosa Magnifica. Chiudono degnamente l’album Le mani e l’epica Il granchio. Su Estasi clamorosa gli episodi più riconducibili a una qualche ingerenza progressiva sono Il filo della notte e Clamoroso. Kamikaze Rock ‘n’ Roll Suicide, del 1982 chiude un po’ l’ideale stagione più avventurosa della Rettore, il disco contiene la mini-suite Oblio, la dura Sayonara, Il garage, Sangue del mio sangue e Canto, gli episodi decisamente più eccitanti per gli amanti del prog. Doveroso sottolineare che la qualità dei quattro dischi presi in esame è davvero molto alta, gli amanti del rock troveranno parecchi punti di interesse negli arrangiamenti, le chitarre sono molto presenti, in maniera anche abbastanza rissosa.

Piero Ciampi ha dato il suo contributo, seppur davvero minimo, basta ascoltare canzoni tipo Andare, camminare, lavorare o la struggente e monumentale Adius, pezzo che potrebbe tranquillamente rientrare nelle materie didattiche della prima Scuola di Canterbury.

Toto Cutugno e i suoi Albatross si segnalano per Volo AZ 504, pezzo consono alle atmosfere di Love Boat con qualche cenno progressivo. Per intenderci, a me il pezzo fa cacare, però le tastiere ci stanno e pure tanto, con un gran suono. il difetto principale sta nella melodia del pezzo, troppo alla Cutugno, e quindi a mio parere abbastanza scarsa, per non dire “Celentanesque”.

Il Maestro Amedeo Minghi, è indubbiamente più interessante e progressivo di Cutugno, e per un migliore approfondimento vi rimando al bello ed esaustivo articolo apparso su Vice a firma Demented Burrocacao, mia malcelata fonte di ispirazione. Il mio unico approccio con la materia Minghi è il primo omonimo album del 1973, dove fanno bella mostra il prog totale di Racconto (con un vistoso stacco di inferocito flauto traverso), E tu con lei, brano a metà strada fra Curtis Mayfield e Arthur Verocai, e l’allucinata e plumbea Candida Stella. Negli anni successivi Minghi inserirà spesso brani dal respiro più ampio nei suoi albums.

Per Lucio Battisti idem come per Battiato; oggi lo sanno pure i sassi che ha pompato prog come un forsennato, quindi nella sua discografia dove peschi peschi bene. L’unica notina che vorrei sottolineare è che il riff principale di Una donna per amico (1978), è in qualche modo simile al riff di L’ultima luna di Lucio Dalla (1979), che è simile al riff di Buona domenica di Antonello Venditti (1979), che è simile al riff di Turn it on again dei Genesis (1980).

Edoardo Bennato, è sempre molto interessante; cantautore dotato di una vocalità abrasiva un po’ alla maniera di Peter Hammill, anche se non prettamente prog, ha prodotto dischi molto validi, mantenendo una qualità abbastanza alta per buona parte della sua carriera, realizzando fra l’altro svariati concept albums. Per gli sniffatori di mutandine prog doveroso segnalare la canzone Franz è il mio nome contenuta nel’ottimo La torre di Babele. Il suo iniziale stile improntato sul folk di derivazione Neil Young/Bob Dylan era materia di studio anche di Francesco De Gregori e Antonello Venditti, entrambi all’esordio nell’imperdibile Theorius Campus. E nel disco Venditti batte De Gregori 6-0 6-0. La cantina. Roma capoccia e Sora Rosa sono i punti salienti dell’album, tutti a firma del pianista-cantante Rayban-munito. De Gregori nel 1972 collabora alla realizzazione dei testi del bel Frutti per Kagua dei Capitolo 6, quindi, dopo essersi cimentato alla chitarra in vari contesti folk capitolini, giunge all’esordio split prendendo mazzate dal titolare del famoso inno della Roma. Da lì il Principe tira giù un paio di dischi folk, in cui l’unico episodio prog è la canzone Saigon, che chiude il debutto solista di Alice non lo sa. Bisogna attendere il pluri-celebrato Rimmel per ascoltare piccole ma eleganti impennate progressive, con la title-track che rifà il verso alla Band dei primi due bellissimi dischi (Music from Big Pink e The Band), Pezzi di vetro che paventa quasi un Alan Sorrenti di Aria senza atmosfera psichedelica, e soprattutto l’irresistibile crescendo di Pablo, canzone praticamente perfetta e multiforme, basti ascoltare la versione fusion contenuta nel film-concerto Banana Republic, impreziosita dagli interventi di un grandissimo Lucio Dalla. In termini di progressive Venditti offre molto di più; esordio come autore per il lato B di un singolo della band progressive Le Impressioni, poi parte sparato con il suo L’orso bruno, con ben tre proggate sparate a canne mozze, L’uomo di pane, Il mare di Jan e Sottopassaggio. Il secondo disco, Le cose della vita, parte subito con il giro di piano alla Tony Banks di Mio padre ha un buco in gola, il folk spigoloso e scheletrico, quasi alla Robbie Basho, di Brucia Roma, e la regale Stupida signora, con la sua andatura a metà strada fra il primo Elton John e i Supertramp più pianoforte-centrici. Lilly, il quarto album, ci regala la ieratica Santa Brigida, mentre il successivo Ullàlla affida l’apertura al rock urbano non ortodosso di Maria Maddalena, prosegue con la lunga Jodi e la scimmietta, in odore di Cat Stevens, e chiude con la cosmica Per sempre giovane. Sotto il segno dei pesci è oggettivamente un gran bel disco, e gli episodi con qualche vaghissimo richiamo prog sono Il Telegiornale e L’uomo falco, per il resto ormai l’influenza del genere andava scemando, quindi la successiva produzione del cantautore sarà più levigata e omogenea.

Per completezza è doverosa citare la canzone Roma (non si discute, si ama), inno della AS Roma scritto assieme a Giampiero Scalamogna (Gepy & Gepy), Sergio Bardotti e Franco Latini. Probabilmente una delle canzoni più emozionanti ed epiche mai scritte, impreziosita dal celebre riff iniziale di synth, decisamente di stampo progressivo.

Il compianto tastierista Federico Troiani prende parte alla formazione dei leggendari Fholks, quindi nei Reale Accademia di Musica, e finita questa avventura inizia la carriera solista. Rari se non rarissimi gli spunti di interesse prog nella discografia del cantautore, ma forte di un passato così illustre una qualche traccia nel dna c’è. Nel primo album, Strade, 1978, l’unica traccia che ha senso citare qui è Vento del Sud. Il secondo album, Federico Troiani, 1979, ha qualcosa del Renato Zero pompus del periodo, qualche manciata di Venditti e di Baglioni, in un’atmosfera generalmente più direzionata verso il rock, con brani come Fuori dal tempo e Carmela, mentre il terzo, Hotel Eden del 1981, offre il potente commiato di Andare via.

Intorno al 1971 Mia Martini era solita farsi accompagnare nei live da una band chiamata La Macchina (ex I Posteri), e sebbene questa formazione si sciolga prima di entrare in studio, Oltre la collina, il debutta solista di Mia Martini, è un album dalle forti connotazioni progressive, grazie anche alla partecipazione della premiata ditta BaglioniCoggio. Tesoro ma è vero e Padre davvero, le prime due canzoni, mostrano subito l’aggressiva natura dell’album, con la splendida e lancinante voce della Martini e i potenti squarci di chitarra elettrica. Claudio Baglioni firma il progressive di Gesù caro fratello, altra sontuosa mazzata del disco. C’è spazio anche per una cover in italiano del buon Cat Stevens/Yusuf Islam, Nel rosa, prima di lanciarci nell’assalto alla baionetta di Ossessione. Chiude il tour de force di Testamento, vendicativa cavalcata soul da cardiopalma. Disco sicuramente notevole, ascolto stra-consigliato.

Rino Gaetano non m’è mai piaciuto, e se pure ha immesso influenze nei suoi dischi io non potrei saperlo, perché non li ascolterò mai!

Il messia italiano, l’idolo delle italiche folle, Vasco Rossi, proprio lui, anzi, anche lui ha pucciato il biscotto nel caldo cappuccino progressive, e lo ha fatto nel suo primo elleppì, Ma cosa vuoi che sia una canzone?, che già dalla prima traccia, La nostra relazione, mette bene in chiaro quali sono le cifre stilistiche dell’album. Proseguendo troviamo Jenny è pazza, con la sua coda di tastiere impazzite, Tu che dormivi piano, con suo stacco alla PFM, e il conclusivo bordone pianistico di Ciao. La sensazione all’ascolto vira sul decisamente bizzarro: qui più che di influenze prog ci sono dei veri e propri blocchi di stacchetti mutuati dal rock progressivo, specialmente nell’uso delle tastiere. 

Il venditore di felicità per antonomasia, Renato Zero, mi mette una certa soggezione, sia per la complessità della sua carriera sia per la mole agguerrita del suo seguito, per cui cercherò entrarci in punta di piedi, in modo molto sintetico. Dato che poi del nostro esistono già centinaia di agiografie mi limiterò a segnalare le più vistose sbandate artsy e il periodo più propriamente glam/pomp. Il fake-live No! Mamma, no! ospita parecchi momenti freak, da Nonsense pigro a Tk6 chiama torre controllo, dal funk alterato di Ti bevo liscia fino all’anthemica title track. Peccato per il pubblico finto sotto, davvero fastidioso. Invenzioni cala sul tavolo da gioco gli assi dell’iniziale Qualcuno mi renda l’anima e della dura Il tuo safari. La saltellante Depresso, brano che potrebbe piacere ai fanatici di Leo Sayer, chiude il disco nel migliore dei modi, con addirittura un finale hard rock. Il successivo Trapezio va preso tutto, del resto si comincia ad entrare nel periodo più classico della divinità Zero. La parentesi a tratti disco di Zerofobia credo che la conoscano anche su Marte, e poi il disco contiene una delle canzoni più belle di sempre, la maestosa Il cielo, quindi si va diretti al masterpiece Zerolandia, e già Uomo no e La favola mia bastano a quantificare la caratura dell’album. EroZero spara cannonate hard-prog-disco nella belligerante Nascondimi, l’intro alla maniera di Isaac Hayes di Grattacieli di sale, il curioso esperimento simil-KevinAyersiano di La rete d’oro, e la decadenza mitteleuropea della celeberrima Il Carrozzone. La bomba pompus esplode con Tregua, Amico e Fortuna veri e propri anthems progressivi. Menzione per il live Icaro del 1981; lì compare per la prima volta la magnifica Più su, e credo sia poco altro da aggiungere.

– Cantante preferito?

– Lucio Dalla.

– E il personaggio che considera più significativo nella storia della musica, in senso assoluto?

– Lucio Dalla.

Last but not least il mio preferito: Lucio Dalla, l’unico e il solo. Sottoscrivo ogni singola parola della celebre scena di Borotalco, del resto per me è uno degli artisti italiani più importanti di sempre, primo nella mia personalissima Top 10 dello stivale.

La provenienza jazz si fa sentire subito, soprattutto nell’eclettica forma espressiva; il debutto, 1999, viaggia fra potenti canzoni soul e R&B inusuali cantati scat e impennate freak, come in Intro e La paura. Il successivo Terra di Gaibola è praticamente un disco prog, e lo si capisce già dall’incipit di Il fiume e la città. Orfeo bianco è subito uno dei picchi del disco, con il suo incedere possente e i tuonanti riffs dei fiati. Dolce Susanna e, soprattutto, ABCDEFG mantengono il disco su solidi binari progressivi, fino ad arrivare al picco, Sylvie, la canzone perfetta. L’intro è affidata ad un lugubre tappeto d’organo, e poco dopo entra un devastante basso trattato con il fuzz; parte la strofa e sale la tensione fino a sublimarsi nell’esplosione del refrain, con tanto di chitarra solista che sciorina legati a grappoli come fossero frustate. Irresistibile, non si fanno prigionieri. A chiudere degnamente un altro tris di magia, Africa, K.O. e Il mio fiore nero. Il successivo Storie di casa mia si appunta sulla giacca un paio di episodi a tinte forti, Il bambino di fumo e Il colonnello. Il giorno aveva cinque teste segna l’inizio della collaborazione con il paroliere Roberto Roversi, con cui andrà a realizzare una trilogia da considerare come spartiacque fra la prima e la seconda parte della carriera di Lucio Dalla. L’importanza dei testi si fa predominante, lo stile musicale si plasma di conseguenza per meglio veicolare i concetti del poeta bolognese. Alla fermata del tram è uno degli emblemi progressivi della trilogia Roversiana, come un manifesto programmatico di quella che sarà la proposta del duo, esplorazione musicale e concettuale, aderenza alla politica nei temi testuali, materiali futuribili nel suono. Il coyote, Grippaggio, L’operaio Gerolamo e la sua ripresa ne La canzone d’Orlando gli altri punti focali dell’opera. Anidride Solforosa alza il tiro, già dall’operetta kosmische della title track, proseguendo con il caracollante jazz de La borsa valori. Quindi si arriva ad uno dei capolavori assoluti di Dalla, Ulisse coperto di sale. La canzone parte con un ostinato di piano, con la voce quasi urlata, arrivando in crescendo al ritornello quasi Zappiano, e subito dopo parte lo stacco rallentato, enfatico e drammatico, con il clarino a fare da contrappunto alla parte cantata, ma ecco che subito il pezzo riparte con una fuga in avanti del basso, che tesse note su note come una ragnatela. Quattro cambi di tempo nei soli primi due minuti del pezzo. Appena il tempo di riprendersi dallo stordimento di cotanta maestria che si arriva a Carmen Colon, canzone tratta da un episodio di cronaca nera, la giovanissima vittima di quello che all’epoca venne chiamato Alphabet Killer. La musica è un folk jazzato, punteggiato dalla voce impostata su registri alti. Un mazzo di fiori scomoda paragoni addirittura con i King Crimson di In the Wake of Poseidon e Lizard, mentre la conclusiva Le parole incrociate sembra citare addirittura i Second Hand di Death May Be Your Santa Claus. Automobili è il canto del cigno della collaborazione con Roversi, l’album più esplicitamente politico di Dalla, uno dei più infarciti di progressive; Intervista con l’avvocato inframezza scatti prog, musica contemporanea e aperture free. L’eco dei Genesis di Peter Gabriel rimbomba possente in Mille miglia (l’inizio molto simile a The Fountain of Salmacis). Nuvolari è un prog pianistico con un gusto retrò che non sarebbe dispiaciuto ai Roxy Music. La cavalcata de L’ingorgo ci introduce a Il motore del 2000, l’episodio più celebre del disco, la Welcome to the Machine di Lucio Dalla. A chiudere Due ragazzi, altro rimando ai Genesis, questa volta di The Lamb Lies Down on Broadway.

Da qui in poi Dalla comincia a scrivere (quasi) esclusivamente da solo, e la nuova autonomia autoriale si presenta subito sfoggiando i calibri pesanti della famosa trilogia formata da Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980), l’apice artistico ed economico del cantautore bolognese.  Come è profondo il mare parte sospesa, un moto siderale di due note poggiate su un quattro quarti lento e ipnotico, con il basso a farla da padrone, in un crescendo nervoso. Il resto del Lato A è occupato da un mini-concept composto da Treno a vela, Il cucciolo Alfredo e Corso Buenos Aires, surreale e grottesco racconto dell’allucinato viaggio di una combriccola male in arnese (un uomo, suo figlio e un cane) da Bologna e Milano. Il secondo tassello della trilogia è Lucio Dalla, e presenta il suo tridente d’attacco composto da marcatori quali L’ultima luna, Stella di mare e La signora. Nel secondo lato spiccano l’immortale Anna e Marco e Notte. Dalla è l’ultimo grande disco del cantautore bolognese, quello della trilogia più rock, con capolavori quali Balla balla ballerino, Il parco della luna, Mambo, Meri Luis, e Futura, senza tralasciare il momento più evocativo e romantico, l’epica Cara. I dischi successivi perdono molto del sound che rese famoso Dalla negli anni ’70, anche in logica di una precisa scelta del cantautore, e le canzoni non sono più all’altezza della passata produzione. Una felicissima eccezione è il famoso Q Disc del 1981, ultimo colpo di coda del tipico sound Dalla. Tre canzoni (Telefonami tra vent’anni, Madonna Disperazione e Ciao a te) e un pezzo strumentale (You’ve got a friend), per un vinile che ancora oggi entusiasma per la qualità assoluta delle tracce. Le tre canzoni sono ognuna un masterpiece, il miglior commiato possibile dell’esaltante parabola di Lucio Dalla.

E qui chiudo questa piccolissima e modestissima guida alla musica italiano influenzata dal progressive; il periodo trattato è quasi esclusivamente gli anni ’70, proprio perché è il decennio dove quell’influenza è stata la più egemonizzante, almeno fino all’arrivo del punk e della new wave, ma anche qui si potrebbe aprire un’ulteriore parentesi sugli ulteriori strambi incroci generati all’alba degli anni ’80. Perché poi il prog, anche se caduto in disgrazia, aveva comunque allevato tutta una serie di musicisti e compositori, ora riadattati al nuovo regime, ma irrimediabilmente marchiati da quell’impostazione. Ed in fondo anche il punk aveva avuto il suo progressive, e una certa wave, rivestita di nuovi suoni e nuove didattiche, nascondeva tutta una serie di insidie che riportava concettualmente agli intricati dedali musicali della scuola progressiva. Togliere, trasformare, ma sempre navigando avanti, sottovento fra i quattro punti cardinali. Ma questa è un’altra storia…


Diego Foschi è grafico di bassa lega, cine-nozionista, martello delle materie progressive, Santana dei poveri. Cinema alto e basso, amenità, zozzerie, musiche di dubbio gusto. Di sani principi ma di facili costumi.