MUNNEZZOCENE!

Il vicolo cieco s’incunea tra gli alberelli nel fianco del complesso monumentale angioino color giallo assiro che il sole d’agosto incendia di radiazione ultravioletta. Le graminacee invadono il cemento. Plastica, merda di cane di padroni di merda, preservativi incartapecoriti con prolegomeni di aborti, bottiglie di plastica effervescenti di crack, siringhe monouso per utilizzi fine-pena-mai. Gli spazzini sono in ferie. Come tutti, o quasi tutti. Tre megere nutrono la colonia di gatti randagi che pazientano osservando la scena della distribuzione dei viveri cedendo il passo, loro malgrado, alla squadriglia di gabbiani appostata, pronta a saggiare ius primae noctis le prelibatezze in scatola annegate in un liquido amniotico di conservanti chimicissimi. Tutto intorno uno sciame di vespe mandarinie volteggia offuscando decine di metri cubi d’aria marcia a formare un ciclone assordante nel cui occhio le megere continuano imperturbabili la loro opera, come se il terrore di essere divorate, aggredite, graffiate, assalite dai politossicomani che formicolano a un metro di distanza da loro non le scalfisse neppure. Streghe, non c’è dubbio. All’imbrunire, le vespe s’annidano sazie. I gabbiani piombano in picchiata trangugiando i bocconi più grossi insieme a brandelli d’alluminio dei contenitori usa e getta, i gatti finalmente s’abbeverano alle ciotole intiepidite e piluccano i resti di cibo in accordo con la posizione che la nuova gerarchia post-apocalittica della catena alimentare ha assegnato loro in questa era che mi pare ancora senza nome: al di sotto dei volatili, ma al di sopra degli eroinomani. All’alba, la merda dei cani è raddoppiata. Al ronzio delle vespe s’aggiunge quello di migliaia di mosche ghiotte di feci essiccate a puntino. La plastica riflette la prima luce del giorno e il turbine di venticello che l’escursione termica libera dall’asfalto scadente sommuove le prime pagine lucide di un volume rilegato con colla a caldo che chissà quale demone ha fatto comparire davanti ai miei piedi.


L’ultimo dei passi che mi separa dal modulo astronautico individuale, in fuga verso un ecosistema meno ostile alla sopravvivenza biologica della specie cui malauguratamente appartengo ancora, è sospeso dalla vista di quel volume. Mi chino. Non posso fare a meno di raccoglierlo perché è bello e sembra miracolosamente lindo. La copertina a tinte spente raffigura forme a prima vista anatomiche: organi interni, un fegato, delle cistifellee. Altre sagome potrebbero essere frammenti di coralli dall’oceano di uno dei pianeti intorno ad Alpha Centauri. O rami rinsecchiti, oppure tranci smorti di tessuto connettivo neurale. Cosa ci fa qui? Chi lo ha gettato via impunemente? E perché non riesco ad allentare la presa?


MUNNEZZOCENE – sta scritto. Sta parlando proprio a me. Non è un caso che questa parola mi suggerisce l’inizio di una nuova era geologica la cui caratteristica dominante è la munnezza, la spazzatura, i rifiuti. Quella parola: munnezza, appartiene alla lingua di questa parte del sistema solare. Questa carta stampata e rilegata raccoglie qualcosa di prezioso – penso. La apro. È ora di capire.
Munnezzocene è un assemblaggio di narrazioni e immagini, testimonianze e voci che hanno contribuito a ridefinire questo territorio, tracciandone una storia intessuta di lotte e riflessioni politiche. È un frammento di molteplici esperienze personali e collettive, che raccontano cosa significa vivere e trasformarsi in una comunità di scarto, immersi in paesaggi tossici.


Chi ha scritto una cosa tanto calzante? DRACO – nome collettivo col quale Augusto Fabio Cerqua, Antonio del Giudice, e Vincenzo Di Rosa firmano quella che ora mi appare una forma editoriale già vista, appartenente all’era geologica alla quale vorrei sottrarmi: una ri-vista. Rivista di con-ricerca che affida il lettore a saggi, interviste, poster dal sapore situazionista, descrizioni di performance artistiche e parola poetica per guardare dentro la catastrofe di un territorio dilaniato dalla devastazione ecologica che distrugge tutto il pianeta, osservandone i guai da una prospettiva spaziotemporale specifica. Qui, i confini tra il sintetico e il biologico, tra il naturale e l’artefatto diventano irrilevanti, nella misura in cui la materia oscura che compone questo universo è – appunto – lo scarto. Ed è questo – lo scarto – il codice che occorre decriptare.


Per farlo, è necessario ripensare lo spaziotempo della fabbrica umana in termini di laboratorio e di atelier. Nell’opera “fotografica” Necrobiopsi, Gaia Leandra trasforma l’occhio di chi guarda in un microscopio elettronico per esplorare un microcosmo di creature mutanti che prendono vita sintetizzando gli elementi che compongono lo scarto. Davanti ai miei occhi prende corpo un microbiota di amebe, o insetti, o creature aliene a metà tra la chimica del carbonio e il materiale psichico degli incubi ancestrali ciò che brulica inaudito, dentro una iridescenza che eccede la cornice formale dei dati biometrici e ai margini ottico-strumentali di ciascuna “fotografia”. Esito plausibile del processo di decomposizione e ricomposizione ad una scala dimensionale per cogliere la quale è necessario, da subito, sospendere l’antropocentrismo della misurazione. Quello strategemma millimetrato che dall’umanesimo europeo in avanti ha ristretto le possibilità umane di comprensione della vita nel cosmo alla dimensione meccanicistica e sublunare della conoscenza del come, astenendosi dalle strutture profondissime dei perché. Lo sguardo unviersalizzante e fintamente neutro della scienza moderna ha aperto spazi di resistenza e di prassi politico-artistica che declinano, nella dimensione locale, la lingua universale della catastrofe. Nella seconda metà del ’900, la critica al positivismo ha attivato ovunque delle riposte teorico-immunitarie che hanno cercato di rappresentare la realtà partendo da una scala interpersonale comunitaria. Nei paraggi della zona che poi diverrà famosa come Terra di Fuorchi, gli anni ’70 sono stati fucina di indagine e di sperimentazione.


Inizio a capirci qualcosa. Non è un caso che in questo numero di Munnezzocene trovi spazio un documento di assoluta rilevanza come il saggio di Stefano Taccone sulle avanguardie ecologiste campane degli anni Sessanta e Settanta. Qui il lettore può ricostruire la genealogie della rivolta contro il disagio della devastazione ecologica che si fa immediatamente abitativa facendo riemergere dell’etimo habitat la distruzione degli spazi di vita. Non soltanto esterni ai moduli abitativi in cui gli umani sono costretti dallo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, ma anche interni all’architettura dell’ortogonalità assurta al rango di incontestabilità. Una critica che fa saltare il confine tra i depositi di rifiuti, l’inquinamento a valle dei processi industriali e le condizioni concrete delle abitazioni in cui famiglie più o meno numerose e indigenti – di fatto – vivono. Racconti, interviste, fotografie in bianco e nero su sfondi acidificati compongono l’affresco post-sviluppista della discarica abitata come luogo residenziale.
La discarica era stata relegata mentalmente al margine dell’immaginario spaziotemporale della modernità Qualcosa che in linea di massima si colloca al di fuori dell’abitare in una distribuzione funzionale delle attività entro il quale la necessità ineliminabile dei processi di gestione degli scarti lasciava comunque illesa la maestà del vivere civile, urbano, rurale o perirubano che fosse. E invece dagli slum nelle megalopoli del Sud del mondo alle aree che i rifiuti in eccesso, la presenza di impianti di trattamento dei rifiuti, la vicinanza a distretti industriali o a zone di accumulo di merci negli snodi della logistica globale, conettonono gli spazi del capitalismo globale incuranti delle forme di vita antropica e non che sussistono su quegli stessi spazi.


Oltre due secoli di riflessione sulla società industriale, infatti, hanno plasmato finanche il pensiero critico di un produttivismo radicale. Vale a dire, il focus resta sempre sulla produzione, le sue leggi e il modo in cui esse si combinano con la distribuzione dei prodotti e infine con il consumo. Un ciclo di vita del prodotto che viene raccontato come chiuso in se stesso, nel quale lo scarto rimane una dimensione residuale e marginale, se non addirittura pienamente eliminabile per mezzo del riciclo, del riutilizzo e di una serie di pratiche di cui le istituzioni globali si fanno promotrici sotto la bandiera della cosiddetta economia circolare. E invece no. Lo scarto è centrale data la sua posizione ontologica di ineliminabilità. A Marx questa condizione era chiarissima: la logica del capitale, in purezza, non funziona. Per farla funzionare è necessario introdurre delle ipotesi ad hoc: lo scarto. Ma la logica del produttivismo ha serrato per lungo tempo la strada che Marx stesso aveva accennato. Strada che oggi si spalanca innanzi a noi e mostra l’orizzonte del disastro. Per questo, ripensare il pianeta significa ripensarlo dai margini. Le pagine che MUNNEZZOCENE dedica all’intervista con lo studioso Marco Armiero segnano una soglia. Un prima e un dopo. Un rito di passaggio di liberazione da strutture mentali preconcette in direzione di una consapevolezza diversa delle relazioni antropiche ed ecosistemiche da cui disapprendere, per poi rivoluzionare. Visioni suggerite dalle fotografie dell’artista Antonio Della Corte.


Rivoluzionare necessita di un manifestare. Rivoluzione necessita di un manifesto. Lo hanno inserito i curatori come foglio singolo, scritto nero su verde, tra le prime pagine di MUNNEZZOCENE. Lo avvolgo, lo infilo nella bottiglia di birra sbavata, a tre passi da me. Apro il modulo di trasporto intergalattico. Ne verifico il funzionamento tramite il software di autodiagnosi. Inserisco le coordinate per il lancio. Attivo la procedura di partenza. Adagio la bottiglia sul sediolino al posto di comando. Conto alla rovescia. Chiudo il portellone dall’esterno. Io resto qui. Continuo a esplorare MUNNEZZOCENE: il contributo di Serenella Iovino, “Naples 2008, or, The Waste Land”, che ci fa immergere nel lato oscuro della cittadinanza e dell’etica di una Napoli sommersa dalla munnezza. La sezione visiva con i lavori di Chiara Arturo, Andrea Bolognino, decaycollege e Kelvin Grey. Il contributo del Laboratorio Architettura Nomade (LAN) che chiude il numero con CoolCity, un progetto che analizza la memoria idrica di Napoli, invitando a ripensare il rapporto ecosistemico con le acque sotterranee. Tra le pagine, in forma sciolta e non rilegata, si trovano due opere: una di Marco Pio Mucci e un’altra co-curata con la persona che si cela dietro l’account Instagram @pizzeria_u_memeriell.



Sono pronto: cerco altri simbionti con i quali cospirare. Il modulo si eleva. I gas di scarico abbruciacchiano il pelo dell’ultimo dei gatti sornioni. Decollo effettuato. Un tossico sgrana gli occhi e applaude: Viva la DROGA!

Affido al cosmo il manifesto nella bottiglia, colla esa-speranza che qualche alieno vi s’imbatta e decida di trascorrere le sue vacanze eoniche nel mio B&B vista-munnezza.



Fotografia di Ivana Sfredda e Carlotta Tornaghi. Courtesy Panopticon Publishing, 2025.


Gennaro Ascione è un eretico praticante, di un ordine minore. Dedito allo studio, all’interpretazione, all’analisi, alla comprensione e alle lettere, e più ci si impegna più non ci capisce un beneamato cazzo. Editorialista, saggista e ricercatore. Autore del romanzo Vendi Napoli e poi muori. Ed è tutto vero e del saggio Napoli balla.