La prima sigaretta ti fa schifo? Fumatene una seconda – Gennaro Ascione intervista Zdenek Zeman.

Uno-Due è un progetto di calcio, illustrazione e arte contemporanea che racconta il giuoco del pallone attraverso le storie piccole e grandi che l’attraversano. Le forze del Male e i loro galoppini editoriali ne sono acerrimi nemici perché Uno-Due non si allinea, a meno che non sia il Boemo a ordinare la linea a 4 in un 4-3-3… In attesa dell’attesissimo Uno-Due Vol.3, ecco per DROGA l’intervista che Zdenek Zeman ha rilasciato il 6 giugno 2019 a Gennaro Ascione presso il CONI (Comitato Ortografico Neolitico Interregionale), rimasta finora segreta per via degli oscuri presagi puntualmente verificatisi.

Foto di Simone Piresti

Prima di questa intervista, per scaramanzia, avevo pensato di non dirlo a nessuno. Avevo paura che succedesse qualcosa, una catastrofe, un cataclisma: vuoi vedere non mi suona la sveglia, o che perdo il treno, oppure che cado da cavallo, e va a finire che le persone a cui l’avevo detto mi domandano: «E l’intervista con Zeman?». Invece ne ho parlato agli amici perché non ho resistito, e la prima reazione di tutte le persone a cui ho fatto il suo nome è stata di grandissimo affetto. Tutti mi hanno imposto di farle questa domanda: come sta, Mister?

Bene, sto ancora bene. Ho superato un momento difficile perché mio figlio Andrea è stato malato, ha avuto un tumore e si è operato, ma adesso sta bene e stiamo tutti meglio.

Tra lei è l’Italia è stato amore a prima vista?

Sì. Quando decisi di restare ero in vacanza a Palermo, nel 1968. Ma già dal 1966 venivo in Sicilia in estate per due mesi da mio zio Čestmír Vycpálek, che era stato allenatore della Juventus. Quindi sono stato a Palermo nel ’66, nel ’67, e poi nel ’68 sarei dovuto rientrare il 22 agosto a Praga, ma i russi entrarono in città con i carrarmati il 21 agosto, allora non ripartii e rimasi a Palermo altri due mesi. A ottobre rientrai in Cecoslovacchia, tranquillamente, e l’estate dopo, nel ’69, venni nuovamente in vacanza in Sicilia per poi decidere di restarci.

Quindi lei non rimase “bloccato” al di là della Cortina di Ferro?

No, per niente. Io ero libero di scegliere dove andare, tanto è vero che andai e tornai senza problemi e alla fine decisi di stare nel Sud Italia, anche perché stando a Palermo quei due mesi in più mi resi conto che era tutta un’altra cosa: mi svegliavo e vedevo il sole, andavo a dormire e vedevo il sole. Per due mesi io non vidi mai una nuvola a quei tempi. Oggi invece viene a piovere sempre, e questo è stato l’autunno più lungo che io ricordi. Anche se sembra finalmente passato.

È a Palermo che conobbe sua moglie?

Sì, a Palermo

Come vi siete incontrati?

Un’amica mia mi portò in una pinacoteca, e in questo negozio c’era mia moglie che sceglieva i quadri, visto che si sentiva artista: dipingeva. Chiesi alla mia amica chi era quella ragazza, la mia amica ci presentò e ci vedemmo. Poi, visto che facevo anche l’istruttore di nuoto in quel periodo, andavo spesso in piscina, e me la ritrovai pure lì. Veramente lei ci andava prima di me in quella stessa piscina, solo che iniziai a trovarla all’orario in cui andavo io…

Cosa le è rimasto dei primi anni a Palermo?  

Stavo davvero bene. Non solo per il clima, anche per la gente di Palermo. Mi trattavano tutti benissimo sempre. Quando arrivai non conoscevo nessuno ma mi colpì la generosità delle persone. Ogni volta che mi vedevano mi dicevano: «Mister, vuole favorire?», «Si sieda», «Le serve qualcosa?». Io rifiutavo. Sempre. E soprattutto mi divertivo perché potevo fare tutti gli sport. Ho frequentato l’Isef lì, mi sono laureato. Ho giocato a pallavolo, a pallamano. Ho fatto l’istruttore e poi l’allenatore di nuoto, e in tutto ciò ho iniziato anche con il calcio.

In termini di cultura e di etica, il calcio sta messo peggio degli altri sport?

Il problema non è il singolo settore sportivo, secondo me. Il problema è la modernità. Noi quando eravamo piccoli non avevamo che fare. Giocavamo ed eravamo su tutti i campi. Oggi i ragazzi hanno tanti altri svaghi, tante altre possibilità. O stai sul Commodore o stai sul tablet o stai sul telefonino, e dunque risulta difficile far fare ai ragazzi un’attività nella quale si stancano. Quando ero ragazzo, dopo ore che giocavamo, nessuno di noi era stanco. Nessuno voleva stare fuori dal campo.

Cosa pensa della tecnologia nel calcio? Le misurazioni computerizzate, i droni in allenamento?

Io sono di un’altra epoca, è questione di età, e sono contento di esserlo. I nuovi mezzi tecnici possono aiutare, ma io penso che un allenatore debba sapere quello che fanno i giocatori in campo, e non ha bisogno della tecnologia.

Vale lo stesso per la sigaretta elettronica?

Sì. L’ho assaggiata una volta ma non è roba per me.

Quanto tempo è stato fuori dal campo?

Solo l’ultimo anno, ma seguo il calcio comunque tutti i giorni, tutto il giorno vedo le partire, quindi anche se non ho allenato mi sono perso poco. Io mi sento sempre dentro.

Qual è il torneo che le piace di più?

Quello inglese, sicuramente. Non solo perché le squadre inglesi sono arrivate alle due finali delle massime competizioni europee, sebbene non ci fosse la squadra più forte di tutte, il Manchester City di Guardiola. Non è la questione di quello che si vede, ma di quello che ci sta dietro ciò che si vede. Il calcio inglese ha una grande cultura sportiva che manca qua in Italia ed è quella a fare la differenza. E in Italia questa cultura sportiva mancherà sempre.

Cosa intende per cultura sportiva?

Saper perdere come saper vincere. L’etica dello sport che s’insegna ai ragazzi è importante. Per gli inglesi il calcio è uno sport e quando lo si fa a livello professionistico è un impegno, e quando si deve lavorare si lavora, non come qui che quando ci si dovrebbe allenare i calciatori fanno altre cose. Certo, a volte gli inglesi esagerano con questa professionalità, però sanno che il calcio è uno sport e lo prendono come uno sport. Oggi in Italia tutti dicono che il calcio è solo business e non è più uno sport, eppure il calcio inglese è quello con più soldi di tutti. Anche se è il campionato più ricco, gli inglesi continuano a trattarlo come uno sport e il risultato è che la Premier League è il campionato più ricco, più imprevedibile e più appassionante d’Europa.

Cosa ne pensa di Conte e di Sarri in Premier?

Fanno bene a tornare in Italia perché sono professionisti e devono dimostrare sempre di essere bravi. Conte all’Inter porterà le sue idee. Lo stesso vale per Sarri, che fa bene a tornare in Italia visto che secondo me il calcio inglese non è cosa sua. Per me il calcio di Sarri è un po’ troppo elaborato: fare cento passaggi senza guadagnare un metro per me non ha senso. Questo non significa che non sia bravo, ha ottenuto anche ottimi risultati, ma lui resta della sua idea e io della mia, e io la mia non la cambio. Al di là del risultato.

Si può attaccare per novanta minuti?

Se la squadra è abituata a lavorare sì. Per me esiste una differenza tra italiani e inglesi e non sta nei giocatori, perché per me gli inglesi sono più scarsi, ma è nel lavoro. Da noi la maggior parte dell’allenamento consiste nel torello mentre lì, quando si allenano, si allenano sul serio. I professionisti sanno che fare sport significa fare sacrifici e stancarsi in allenamento per dare qualcosa di più la domenica. In Italia si ragiona al contrario: noi ci riposiamo durante la settimana così poi domenica ci si aspetta che corriamo. Ma alla fine i calciatori italiani corrono per poco tempo. Si preferisce distruggere che costruire.

Noi italiani continuiamo ad appassionarci a un campionato che da otto anni vince sempre la stessa squadra. Non le sembra un paradosso?

Vero è che la Juventus negli ultimi anni è stata sicuramente la migliore squadra. Poi il discorso è che quelli che perdono o magari ce l’hanno con loro dicono: «Ma loro hanno più soldi». Io penso che a parte più soldi hanno anche più idee. 

Lei ritiene interessante il calcio espresso da Allegri?

Be’, hanno messo insieme una rosa di calciatori importante, che funziona forse non tanto sul piano collettivo ma sul piano individuale, e su quello sono superiori a tutte le altre squadre.

Lei ha allenato diversi campioni, inserendoli in un sistema di gioco molto strutturato. C’è stato qualche singolo calciatore le cui doti l’hanno costretta a ridisegnare la squadra?

No. Ogni allenatore deve avere chiara la propria idea di calcio e quello che vuole fare. Io ce l’ho e ho sempre cercato di seguirla. Poi è normale che molto dipende dalla costruzione della squadra. Però come idee e come concetti il mio calcio è rimasto sempre lo stesso. Ho avuto fuoriclasse difficili, ad esempio Gascoigne. Gazza era un campione, a diciassette anni era già il più forte calciatore inglese. Gazza era un bravo ragazzo, solo che aveva il problema dell’alcol, però era un lavoratore anche se la gente non ci crede. Quando veniva in campo lavorava perché nonostante tutto aveva questa mentalità inglese. Poi l’alcol ha influito sul suo rendimento e dopo sono arrivati due infortuni gravi. Ma anche lui si adattava alla mia idea di calcio. Coprire tutto il campo. Pressare alto. Dare spettacolo e divertire. Fare un gol più dell’avversario.

Ad oggi, c’è qualche allenatore che ha spinto il suo 4-3-3 al di là della sua idea originaria? 

Non credo. Per la mia idea di calcio vale lo stesso che per il calcio di Arrigo Sacchi. Sacchi aveva delle idee e si è imposto al Milan facendo quello che voleva. Sono anni che molti scimmiottano il suo calcio senza riuscire a imitarlo. Con il mio calcio ci hanno provato, ma con risultati pure peggiori. Ci sono dei giovani che hanno delle idee interessanti, ma devono dimostrare che funzionano.

Mister, c’è qualche sconfitta che l’ha segnata?

No, nessuna in particolare. Le sconfitte ci stanno. Io sono dell’idea che nel calcio come nella vita si va in campo e si cerca di fare il più e il meglio possibile, e a volte anche se fai l’impossibile puoi comunque perdere, così come altre volte vinci senza dare il massimo. Però lo si accetta. Ne ho perse tante come ne ho vinte tante.

Quale vittoria le è rimasta nel cuore? 

Molto dipende dagli ambienti e dal momento. Non conta solo la grande partita contro la grande squadra. Certo, vincere con il Foggia contro la Juventus dà una certa soddisfazione ma vincere contro il Bari era la stessa cosa. L’ambiente fa la differenza. Anche vincere col Cagliari 4 a 1 contro l’Inter è stato bello. Ce ne sono tante. Un Roma – Milan 5 a 0. Un Lazio – Milan 4 a 0. Con il Milan mi sono divertito molte volte, altre volte meno…

Sì, ricordo che una volta i Diavoli rossoneri vinsero 8 a 2 contro i Satanelli foggiani. Gol di Signori e Baiano. Beppe Signori, che in mano a lei esplose, dichiarò che al vostro primo incontro faccia a faccia lei lo saluto: «Ciao bomber», sebbene l’hanno precedente avesse fatto solo un paio di gol, di cui uno su rigore.

Sì, quello me lo ricordo anche io. Avevamo già visto Signori l’anno prima a Trento dove lui giocava. Poi contro di me a Messina quando era al Piacenza, e mi piaceva. Mi piaceva proprio. Ci siamo incrociati la prima volta davanti al bus a Foggia per andare in ritiro e io l’ho guardato e gli ho detto: «Ciao bomber», perché ero convinto che lui avesse i piedi da gol. E poi ne ha fatti tanti di gol, fino alla Nazionale.

Lei ha scoperto molti talenti, qualcuno se l’è inventato. Ma c’è qualche calciatore con il quale lei ha insistito e invece si sbagliava? Zeman, lei ha mai preso un granchio con qualcuno?

Io di tutti i giocatori che ho allenato ho sempre voluto fare dei giocatori importanti. Se non ci sono riuscito con tutti vuol dire o che avevano meno talento di quello che pensassi o che io ho sbagliato approccio. Difficile capirlo. Ma non mi posso lamentare, le mie squadre hanno sempre reso molto di più di quanto ci si aspettasse da loro sulla carta, grazie alle mie idee e ai miei metodi. Però molto spesso dipende dal carattere del singolo giocatore.

Tempo fa, a proposito di Balotelli, lei dichiarò che spesso gl’insulti allo stadio non dipendono dal colore della pelle ma dagli atteggiamenti in campo. Nell’Italia di oggi, pensa sia ancora così?

A me interessano i comportamenti dei giocatori. Poi se sei bianco, giallo o nero è uguale per me. Ti fischiano? Be’ succede sempre. Quando allenavo il Licata in Sicilia e andavamo in trasferta ci urlavano tutto il tempo «mafiosi!», perché fa parte del tifo, eppure noi non ci sentivamo mafiosi. Una cosa è certa, se i giocatori, che dovrebbero dare l’esempio, in campo non lo danno, allora è normale che si prendono i fischi e che si prendono qualche “Buh!”, ma non necessariamente è razzismo.        

Io sono partenopeo, e di cori contro ne riceviamo più di altri e lei lo sa, perché ha allenato il Napoli in quella che è stata la panchina più breve della sua carriera: stagione 2001-2002. Sei giornate?

No, sette. L’ultima in trasferta a Perugia, pareggiammo 1 a 1, giocammo meglio delle altre gare, ma la sera stessa mi esonerarono. Mi dispiace perché anche lì, come altrove, gente bellissima: ancora oggi se vado in Sicilia passo per Napoli e tutti quanti mi fermano e mi vogliono offrire mille caffè.

Lei rifiuta?

Sì. Sempre. E mi dispiace non essere riuscito a fare bene e neppure a lavorare, perché anche lì c’era una situazione societaria negativa. C’erano due presidenti, Ferlaino e Corbelli. Ferlaino mi diceva: «non parlare con quello là», e Corbelli mi diceva: «non parlare con quello là». Peccato perché quella non era una squadra da retrocessione anche se era costruita maluccio. C’era un giovanissimo Jankulowski che potai io a Napoli.

Roma, al contrario, è la città dove ha vissuto di più. Lei è amato e odiato sia sulla sponda giallorossa che biancoceleste, per il suo calcio, non per i suoi colori. Ed è raro che ciò accada in una città dove per molti esiste solo il derby. Che rapporto ha con Roma?

Vivo qui dal ’94, mi piace molto. Calcisticamente è un bell’ambiente, il problema sono le società. Stavo facendo bene alla Lazio, siamo arrivati secondi e terzi, poi mi hanno cambiato. E alla Roma lo stesso. Il primo anno alla Roma mi sono divertito tanto, ma al secondo anno già siamo andati molto peggio perché la società non la pensava come me, né sul campo né fuori dal campo. Io volevo le regole. Poche regole ma chiare e da rispettare tutti. Non sopportavo che tutta la squadra si allenasse in campo mentre c’era ancora qualche giocatore fermo a non lavorare. Per la società non era un problema mentre per me era importante. Siamo professionisti, non si arriva tardi sul posto di lavoro.

Mister, lei allenerebbe mai la Juventus?

Io ce l’ho con la triade non con la Juventus in generale. La triade che ha fatto del calcio italiano tutta un’altra cosa. Oggi la Juventus è un club al quale nessun allenatore direbbe di «no».

Però capita che alcuni allenatori si differenzino dagli altri perché hanno il coraggio di andare contro il sistema. Il ruolo dell’antagonista può essere un limite professionale?

E va be’, sì, però se nessuno dice mai di «no» di questo passo non cambieranno mai le cose! Io ho cominciato a Licata, in due anni abbiamo vinto il campionato, poi l’anno dopo siamo arrivati terzi e l’anno dopo ebbi la possibilità di andare in diverse squadre con società più forti alle spalle, in categorie superiori, ciononostante sono rimasto. Lo stesso è successo a Foggia. A Foggia scelsi di rimanere cinque anni di seguito e anche lì ebbi diverse possibilità di andare su panchine importanti. Ed è vero che siamo dei professionisti però certe squadre ti rimangono per sempre nel cuore per via di certe scelte controcorrente.

Lei ha sempre preferito dare continuità al progetto piuttosto che accettare incarichi su panchine più prestigiose?

Non sempre. C’erano altre esperienze da fare, a un certo punto, e le ho fatte, ma spesso ho scelto di restare. Quando allenavo la Roma ebbi due offerte dai due club spagnoli più importanti. Allora il presidente Sensi chiamò mia moglie per dirle: «No, non lo faccia andare, deve rimanere con noi», e io decisi di non parlarci nemmeno con le due società spagnole. Col senno di poi, in quell’occasione, credo di aver sbagliato, anche se in quel periodo ero romanista, mi piaceva l’ambiente, mi piaceva la squadra, e sono rimasto. Se avessi accettato, la mia vita sarebbe stata molto diversa. Io ho fatto tre esperienze all’estero, di cui due traumatiche: una alla Stella Rossa di Belgrado e l’altra al Fenerbache. In nessuna delle due riuscivo a fare calcio. In Turchia il presidente se n’era andato l’anno prima che arrivassi io, e poi io non riuscivo a capirmi con la squadra. A Belgrado, iniziammo ad allenarci con la promessa che gli stipendi sarebbero stati pagati, andammo in ritiro una settimana e la squadra rispose alla grande, i calciatori fecero cose che non avevo mai visto fare in tutta la mia carriera: si allenavano con impegno e tanta costanza. Poi gli stipendi non furono pagati, i giocatori smisero di allenarsi, scioperarono, smisero di impegnarsi. Chi lavora va pagato.

Il suo è un bel lavoro. Si sta bene in panchina?   

Benissimo. Ci sono abituato: sono cinquant’anni che ci sto, a modo mio.

Parte del suo fascino è proprio il modo suo, il suo carattere. Zeman è un personaggio?

Non lo so, io non faccio il personaggio, anche se molti mi cercano per questo, perfino Marzullo, ma sono cose che non m’interessano. Sono molto richiesto perché molti si aspettano che io spari qualche bomba che si possono giocare sui giornali, in televisione, alla radio, ma io non ce le ho sempre le bombe. A parte il fatto che non le ho mai avute: io semplicemente dico quello che penso su quello che mi si chiede.

Lei vuol farmi credere di essere sempre stato lo Zeman che è?    

Sì, io sono sempre stato così.

Anche da bambino?

Sì, anche da bambino. Anche da bambino mi piaceva comandare gli altri compagni e spesso ci riuscivo, sia in classe sia quando si giocava. Oggi è più difficile con i giocatori.

Come imponeva il comando? Usando il pugno di ferro?

No, non ho mai usato la forza. Cercavo di far fare agli altri le cose che volevo, convincendoli che erano buone anche per loro, per come la vedevo io. Di sicuro qualche cosa l’avrò sbagliata anche io e mi prendo le mie responsabilità, però conquistarsi coi risultati la fiducia degli altri è la cosa più importante. 

Lei non si è mai tirato indietro di fronte alle responsabilità. Io non ho mai fumato nella mia vita. Se le chiedessi la mia prima sigaretta me la offrirebbe?

Non te la offro perché so che non l’hai detto sul serio.

No, mister, sono serissimo: io non ho mai fumato una sigaretta nella mia vita.

E non la fumare!

Ma tanto non mi piacerà.

Io te la offro ma ti consiglio di non prenderla.

Grazie per il consiglio. Allora, me la offre?

Ce ne sono tanti che me ne chiedono una chiedono perché vogliono conservarsela.

No, io voglio fumare la mia prima sigaretta con lei.

Non è che poi ti senti male?

Proviamo.

Ok. Poi devi andare a comprarle perché ne ho poche.

Mister, vedo male o il pacchetto è pieno?

Sì, il pacchetto è pieno ma il tabaccaio è lontano. Dopo ti do l’indirizzo.

Va bene. Me la offre, sì o no?

Ok. Vediamo se tiri bene… Ci sei? Com’è? Che è? Fai la tosse?

Sì, mister, credo non prenderò mai il vizio.

Ma come, non ti piace fumare?

Non lo so, ma credo di no.

Sicuro?

Penso di sì.

E prenditene un’altra!

Sempre all’attacco… E la sua prima sigaretta? Se la ricorda?

No, non me la ricordo. Ma so che mio zio mi ha rovinato. Ho iniziato a fumare regolarmente quando sono venuto a stare in Italia, avevo ventidue anni. Prima ne fumavo una al mese, così, giusto per darmi un tono. Per fare il personaggio… 

Lei pensa ancora che il segreto del calcio sia l’allegria?

Della vita è l’allegria, del calcio è il divertimento. Io come allenatore mi diverto a far divertire gli altri. È difficile, sembra un controsenso, ma per divertire e divertirsi bisogna faticare tanto. È come se esistesse una soglia tra quello che si fa in allenamento e quello che si fa in campo, e quando si va in campo è come andare in scena: si va a fare lo spettacolo per il pubblico che viene a vederle la partita. Per me è così. Io sono stato benissimo con il Foggia, con la Roma, con il Pescara, perché ogni domenica venivano tutti allo stadio e tu sai che devi trasmettere qualcosa, il tuo dovere è dare delle emozioni. E io so come dare emozioni attraverso il calcio. Questo è quello che so fare. Oggi spesso la gente si annoia allo stadio.

È vero, mister. Il campionato è diventato noioso e ci sono presidenti, come De Laurentiis, che sostengono che in fondo il pubblico allo stadio non è importante, che tutto diventerà virtuale, e che…

Deh! Io penso che questa è una grande sciocchezza, perché quando la gente non viene più allo stadio e resta a casa davanti alla Tv, non ci vuole niente a cambiare programma con il telecomando, e il calcio si perde. La gente non s’interessa più al calcio. Invece la cosa bella è riunirsi allo stadio, parlare con gli altri, commentare le partite e le azioni… «socializzare», si dice così oggi, no?

Grazie per aver riabilitato la parola «socializzare», che soprattutto per i ragazzi conta tanto. Questo calcio senza più valori né bandiere non fa male ai ragazzi?

Certo, si soffre. Ci sono anche calciatori che sono nati e morti sportivamente indossando la stessa maglia. Penso a Totti o a Maldini. Però oggi c’è troppo business e si cambia casacca molto più rapidamente. Dispiace per i ragazzini che si affezionano a uno, che crescono con lui e poi non lo vedono più. Purtroppo oggi il calcio è messo nelle mani di presidenti, procuratori e direttori che lo fanno solo per altri scopi, non per scopi sportivi.

Questo calcio che guarda solo al business, è sostenibile nel lungo periodo?

Secondo me no e penso che se ne accorgeranno presto. Molte società hanno problemi finanziari e continuano a fare debiti anche se il calcio muove grandi numeri. Il calcio oggi fa i soldi in gran parte con la televisione, ma a sua volta la Pay Tv ha fatto tanti abbonamenti in più grazie al calcio. In futuro ne farà sempre di meno, però. Si stanno espandendo in Asia, però credo che il calcio lì non decollerà. I cinesi negli anni hanno chiamato molti campioni a giocare, ma il calcio è ancora fermo e già oggi rispetto a prima ci pensano due volte prima di prendere uno straniero.

E allora dove sta andando questo gioco fatto di soldi, farmacie e Tv, Mister? C’è ancora spazio per la passione?

C’è ancora e soprattutto ci deve essere. I farmaci si danno ai malati e sono convinto che i giocatori di calcio non sono malati quindi non ne hanno bisogno. E di sicuro non ne hanno bisogno i ragazzi che si avvicinano allo sport per passione e divertimento.

Mister, lei oggi allenerebbe delle giovanili?

Oggi, no. Sono vecchio. A Palermo feci nove anni di settore giovanile e mi trovai benissimo con i ragazzini e con i ragazzi. Fu bellissimo. Forse oggi non avrei più la pazienza necessaria, forse, e ci vuole tanta pazienza con i giovani, bisogna insistere sempre perché i giovani insistano.

Io non ho mai giocato a calcio, mister. Sono talmente scarso che, mentre l’aspettavo, ho tirato tre calci al pallone e mi si è rotta la scarpa…

Be’, è colpa della scarpa non è colpa tua. Insisti.


Gennaro Ascione è un eretico praticante, di un ordine minore. Dedito allo studio, all’interpretazione, all’analisi, alla comprensione e alle lettere, e più ci si impegna più non ci capisce un beneamato cazzo. Editorialista, saggista e ricercatore. Autore del romanzo Vendi Napoli e poi muori. Ed è tutto vero.