Marco Mathieu, l’unica nostra forza è la sincerità.

L’altro ieri arriva la notizia. Ero a passeggiare sul lungomare di Ostia, buio e ventoso, freddo e rassicurante, notte della vigilia.

Marco Mathieu, bassista dei Negazione, si è spento dopo quattro anni di coma. Ictus mentre si trovava in motorino, dicono i giornali. Verificatosi proprio sulla sua Vespa nel tragitto tra Roma e Ostia. Lo stesso tratto di strada che percorro ogni giorno con il mio, di scooter, per andare a lavoro.

Che i Negazione siano uno dei gruppi più importanti della stagione dell’hardcore punk italiano degli anni ’80 non serve ribadirlo. Che siano parte fondamentale dell’adolescenza di ogni teenager che si avvicina al punk, nemmeno.

Si formano nel ’83, a Torino, a seguito dell’esperienza dei Quinto Braccio, Tax alla chitarra, Orlando alla batteria, Zazzo alle urla, Marco al basso. Per nove anni, undici dischi, e infiniti concerti, i quattro torinesi solcano con il loro Volkswagen bianco gli squats, le sale in affitto, i centri giovanili, del punk nascente di tutta Italia e Europa. Partendo da un hardcore punk primitivo chiassoso e sgangherato, per arrivare al crossover e al thrash.

E oggi che, dopo un sonno lungo quattro anni, Marco ci ha definitivamente lasciato, non posso fare altro che spulciare tra fanzine, dischi e libri polverosi accumulati nel corso di un’adolescenza, e lasciar risuonare le sue parole. Un po’ per colmare un vuoto, un po’ perché questo vuoto non si dà, in quanto i suoi testi e le sue parole continueranno a segnare l’immaginario di adolescenti e non che si avvicineranno a questo rumore.

Marco ha vissuto totalmente l’esperienza dell’hardcore punk degli albori, la sua intensità, la sua paradossale comunità, come lasciano risuonare le sue parole nel libretto-disco Negazione. Il giorno del sole (Skake Edizioni, 2011): “Perché la musica era motivo per esprimersi, contarsi e intanto – a modo nostro – comunicare. La musica era tutto. Rabbia e disperazione comprese nel prezzo, ovviamente ridotto. Tutto autoprodotto. Tutto autogestito. Tutto punx. Tutto Torino. Ma anche il mondo intero a cui guardare, prima che finisse. Mancava poco, forse era già finito. E allora tutto diventava inconsapevole ricerca del futuro-che-non-c’era: suonare, scrivere, collegarsi prima della Rete. Come una rete. Dischi da distribuire, fanzine da scrivere, impaginare, spedire. Cassette da duplicare. Il mondo non finiva. Però bruciava, rideva, urlava. Almeno un poco. E scoprivi di non essere più solo. C’erano altre creature a te simili con cui condividere rabbia e divertimento. Rivoluzione minimale. Ribellione, soprattutto. Contro il grigio e contro il destino-già-segnato. Contro il potere e contro l’eroina. Contro i genitori e contro le famiglie, contro i fratelli e le sorelle più grandi. Contro tutto e tutti, spesso. Suonare? Veloce e più veloce ancora, distorto il più possibile. Era l’hardcore.”

E questo è quello che ha fatto Marco e i Negazione per nove anni, girare l’Italia, l’Olanda, la Germania, la Francia, la Spagna, la Svizzera, diffondere le sue poesie e quelle degli altri Negazione, attraverso contatti immediati e spontanei, fiutandosi semplicemente tra “creature simili”, legate da quel paradossale vincolo che è il rumore e dal rifiuto di un “mondo da fare schifo”, dalla socialità di plastica, le routine rassicuranti, il turboliberismo che venivano propinate ad inizio anni ’80 da un mondo dominato dal reaganismo e dal thatcherismo.

E come reazione a tutto questo arriva l’autogestione, l’autoproduzione, le occupazioni. Arriva l’hardcore. Non solo il punk, da subito riassorbito e cooptato nel panorama musicale egemone. Ma una reazione dura allo stesso punk, che già a suo tempo aveva rappresentato una risposta radicale al classic rock dei ‘70ies. Citando le sue stesse parole in Lumi di punk (a cura di Marco Philopat, Agenzia X, Milano, 2006), “Hardcore. Parola importante, perché all’epoca quel modo di suonare veloci e aggressivi, vestendo non necessariamente di borchie e cuoio, magari con le camicie a quadri, i jeans e le sneaker invece che creste, chiodi e roba leopardata addosso, era già diventato un elemento di rottura nella scena punk. Un altro modo possibile di vivere quella ribellione, dentro e fuori la musica.” L’hardcore come ribaltamento radicale non solo di una certa estetica musicale, ma anche della stessa logica dominante. Non sai suonare? Puoi avere un gruppo. Non sai comunicare? Puoi scrivere testi. Non hai posti che permettono al tuo rumore di esprimersi? Meglio, noi della vostra noia e della vostra plastica non ci facciamo un cazzo, e i posti ce li prendiamo senza chiedere a nessuno. E da qui le occupazioni di squats, i concerti nei basements o nei cortili delle case. L’hardcore è stato tradurre le mancanze in punti di forza, il parlare completamente una nuova logica e grammatica, ed il tutto fatto con la massima velocità, volume ed aggressività. Il mondo accelerava, e anche la sua reazione doveva farsi veloce e radicale: “Ma quello che continuava a muovere ogni cosa era la musica, che in qualche modo rappresentava il linguaggio comune con cui diverse forme di ribellione riuscivano a parlarsi, a riconoscersi, fuori dai circuiti ufficiali, in un mondo nascosto e intanto vivo, fottutamente vivo. Altro che ‘punk is dead’…”

E quel rumore come linguaggio comune di cui parla Marco è stato lo stesso performativo che ci ha portato – e come noi, anche infiniti altri – a formare un gruppo, a trovarci a diecimila kilometri di distanza geografica dalle nostre città, ma a sentirci comunque a casa. Grazie a quel riconoscersi tra creature simili, a quelle tensioni libertarie e di autogestione, a quel diy che da musicale si faceva etico, e da etico bruciava in intensità politica.

Ed è incredibile rendersi conto di non aver mai conosciuto personalmente Marco, ma di avere le sue parole e le sue vibrazioni ad accompagnarci ostinatamente dalla prima adolescenza. Di sentirlo non solo intimo e fraterno, ma parte di quello che si è.

A partire da quelle di Il giorno del sole, “quello che ci rimane è la tristezza del tramonto, serena tristezza di giorni vissuti e sofferti nel limbo delle emozioni più forti. La nostra speranza vede, il giorno del sole, facile per gli ingenui, impossibile per gli ipocriti. L’unica nostra forza è la sincerità, il nostro giorno del sole, splenderà di energia, fin dall’alba, e il tramonto vivrà, dei nostri sorrisi, sui volti scavati dal pianto”, fino al suo testo preferito, Un amaro sorriso: “Dentro c’era tutto, quel che eravamo e quel che sognavamo. La sofferenza e la gioia, la rabbia e la speranza. Un’estrema voglia di vita, e i primi brandelli di futuro. La strada come percorso e dimensione di viaggio, l’amicizia, le riflessioni e le paure, le città di notte che scorrono fuori dal finestrino.” Soprattutto questi versi, ora che Marco non c’è più, risuonano intense, “in faccia a noi stessi, in faccia alla morte. Forse stiamo sbagliando, ma chi sarà mai l’eroe del giusto? Non rimarrà niente di quello che siamo, risate sfuocate nello specchio del vivere, sberleffo alla santa ragione. Ricorderemo sempre tutto, lucidi guerrieri pronti a vendicare la vita. Ribelli al nostro destino, piccola minaccia in un tempo sbagliato”.

Quello che ci rimane è la tristezza del tramontare, che diventa serena e redenta nel momento in cui si fa irreparabile, colma delle nostre risate sfocate e delle emozioni più forti. E proprio perché non rimarrà nulla di quello che siamo e il tramonto vivrà dei nostri sorrisi, Marco, il nostro giorno del sole è vicino. E splenderà di energia.


Emanuele Pelilli si è addottorato in filosofia politica focalizzandosi sulle categorie di alienazione e reificazione nel marxismo occidentale, lavorando tra Roma, Berlino e San Francisco. Urla nel gruppo hardcore punk Nofu e strimpella in altri complessini rumoristici.