I J Church sono uno dei gruppi preferiti.

Penso che i J Church siano uno dei gruppi preferiti.

Nessuno ha mai sentito cosa fossero veramente. Qualche quarantenne della Bay Area se li ricorda sorridendo, ma poco più che questo.  Formatisi a San Francisco nel 1992, da quell’anno ci sono a fianco in ogni momento in cui SI sta bene, ma soprattutto in ogni attimo in cui SI sta male. Hanno prodotto circa 150 cose. C’era del bisogno di espressione da parte del chitarrista cantante Lance Hahn; se ne parlava l’anno passato col gestore di un negozio di dischi di Seattle. Lance Hahn non poteva non scrivere testi, non poteva non cantare, ogni giorno della sua vita. Fino a quando la terminò all’età di 40 anni nel 2007, a causa di complicazioni di malattie renali.

Suonano sicuramente punk rock, ma così intriso di sonorità anni ’90 da risultare sfigati ed indimenticabili alle orecchie che sanno emozionarsi. Uno dei loro batteristi fu il primo dei Jawbreaker. Ma i Jawbreaker – per non menzionare i Green Day, di poche miglia di distanza a Berkeley – vengono ricordati da ogni storia, che sia underground o ufficiale, i J Church no. Ed è questo che li rende indimenticabili, anche se nessuno se li ricorda, come il principe Myskin per Walter Benjamin. C’è un’esigenza di non essere dimenticati, anche se nessuno li ha mai ricordati.

SI considerano le cose più incredibili che abbiano prodotto due 7 pollici, Ivy League College del ’95 e Tide of Fate del ‘93. Involontariamente riemergono alla coscienza ogni qualvolta SI sta male. E lo stare male o bene o male è ovviamente sempre un SI. Alcuni pensano che sia uno stato personale e delimitabile. Ma lo stare bene o male è chiaramente uno stato del mondo, e pensarsi soggetti è credersi persone, cioè, etimologicamente, maschere. Sono scanzonati, sono senza pretese, sono sinceri, sono naiv, sono da lacrime, sono veri (anche nella post-factual democracy), sono superficiali, sono profondissimi, sono immanenti, sono trascendenti, sono carini, sono niente di che, sono incredibili, sono quotidiani, sono senza speranza. E la speranza si dà solo ai senza speranza, come termina Marcuse’s One Dimensional Man, citando.

E qui sta il messianismo di questi sette pollici dimenticati dalla storia. Interrompono il fluire delle cose che SI dicono importanti, per introdurre la bellezza immanente del giocare con la vita caduca e finita. Non SI possono ascoltare, senza spendere lacrime di disperazione o di gioia, che, secondo Spinoza, Ethica, libro III, sono esattamente lo stesso stato del mondo. E infatti non SI riesce a dire se i J Church siano un gruppo profondamente tragico o strutturalmente comico perché, qui e ora, nel 1993, nel 2020, negli strati di tempo che si costellano, loro vengono prima delle divaricazioni. I J Church sono essere che si dà nelle sue determinazioni, non distintamente da questo, sono vite che si danno nella loro forma, inseparabili, indimenticabili. E la tragedia della vita che raccontano nei loro testi scanzonati è la sua stessa commedia, semplicemente si indistinguono. Come nella canzone dedicata al cadavere del rettore “Marie Provost”, “She was a winner that became a dog’s dinner. She never meant that much to me, whoah, poor Marie”, vittoria e caducità sono la stessa indistinguibile variabile, e anche se never meant too much to me, se ne sta parlando. Perché comunque è una storia.

E la sensazione che danno i J Church all’ascolto è sinesteticamente la stessa di quando si guardano le stelle in cielo, e i propri problemi si ridimensionano, perché SI capisce che sono piccoli, quanto siamo enormi e minuscoli noi che le osserviamo esprimendo un desiderio: “A million broken stereos are stars in the sky, The one thing I will always hear, Is the constant ringing that’s in my ears, It reminds me of the stars in your eyes.”


Emanuele Pelilli si è addottorato in filosofia politica focalizzandosi sulle categorie di alienazione e reificazione nel marxismo occidentale, lavorando tra Roma, Berlino e San Francisco. Urla nel gruppo hardcore punk Nofu e strimpella in altri complessini rumoristici.