“Estetica del malessere: il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei” di Claudia Attimonelli.

Sinossi di Estetica del malessere: il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei (DeriveApprodi 2020) di Claudia Attimonelli

Il teschio è l’icona pop più diffusa del nostro tempo. Vampiri, zombie, junkie sono al centro delle scene urbane. Cinema, fotografia e reti sociali celebrano da un secolo l’immaginario dell’anomia e del disagio: il nero è la tonalità della nostra epoca! Attraverso gli studi visuali e la mediologia, questo libro ne indaga l’iconografia nel solco della schiavitù dei neri, che funge da tragica origine. Mentre cresce il movimento #blacklivesmatter è necessario interrogarsi sulle dinamiche che investono darkness e blackness, lusso e sporco, lutto ed estasi. Grace Jones, Charlotte Rampling, Siouxsie Sioux sono, insieme ad altri, i protagonisti di quel processo che ha integrato il male nel quotidiano, rendendolo innocuo e banale, ovvero di «estetizzazione del malessere».

4 Illustrazioni originali di Michele Di Stasi.

Estratto dal capitolo: Allucinazioni, collage, bricolage e profumo d’anarchia

Nel film di Cronenberg (Videodrome 1982), sfumati in dissolvenza incrociata, cogliamo alcuni tropi del dandismo e del cyberpunk, respiriamo il profumo penetrante e nauseabondo dell’edonismo decadente e sensazionalista del glam, colto nell’estrema messa in scena dell’esibizionismo sadomaso privato e reso pubblico grazie alla cassa di risonanza mediatica.

La scena in cui Nicki si brucia la pelle del seno con la sigaretta, senza fiatare, la sequenza in cui Max si eccita alla visione degli snuff video – un genere cinematografico consacrato qualche anno dopo dal film di Kathryn Bigelow Strange Days (1995), in cui i protagonisti sono drogati dalle visioni di clip con stupri, torture e omicidi ripresi mentre avvengono realmente – sono solo un paio di esempi i cui germi vanno rinvenuti nelle farse violente e live della scena glam e proto-punk di qualche anno precedente. Il bacino iconografico e performativo della New York anni Settanta e poi della Londra anni Ottanta e infine della Berlino prima della caduta del muro, trabocca di figure estatiche del fallimento e del disagio che, dopo aver assistito alla morte di tutto ciò che è autentico, celebrano l’artificio e l’essudazione del sé ferito attraverso la mascherata grottesca, l’erotizzazione delle parti marce e l’esposizione della carne.

La seduzione del pubblico, la ricerca della fama e del consenso, in quella fase di mezzo, non poteva che passare necessariamente per la violazione di oggetti e immagini sacre e ufficiali. Una serie di penetrazioni violente, dagli USA alla Gran Bretagna, hanno scandito il decennio Settanta, dalla profanazione dell’armonia del suono con il rumore (art-punk, noise, urla), all’invocazione da parte di Lou Reed di viziose deflorazioni perpetuate di continuo: «You hit me with a flower / You do it every hour / Oh Baby your are so vicious» (Vicious 1972), fino all’invocazione di frustate e incatenamenti come in Oh bondage! Up yours! Degli X-Ray Spex (1977) alle quali il pubblico rispondeva con orgiastico consenso liberatorio. Più radicale l’operazione di bricolage atta a deturpare l’immagine dello Stato e della monarchia: è sufficiente rammentare il poster contenuto nell’album Bloody Revolutions dei Crass (1980) in cui Gee Vaucher creò il meta-détournement punk che vide applicate sui volti dei membri dei Sex Pistols in posa con le spalle al muro, quelli della Regina d’Inghilterra, di Margaret Thatcher, di Karol Woityla e della Statua della Libertà. Lo slancio anarchico dei Crass era di segno opposto al latrato dei Sex Pistols di Anarchy in the UK (1983), infatti nella scelta di questo collage «transpolitico» (Susca, De Kerckhove 2008) e parimenti in molti dei loro testi, si evince la critica radicale mossa contro quel tipo di ribellione di facciata che era stata confezionata in modo tale da rassicurare l’establishment perfino sul suo riciclo all’interno del sistema della moda: «Punk became a fashion just like hippy used to be» Punk is dead (Crass 1978).

É bene ritornare sul concetto di bricolage introdotto dall’antropologia di Lévi-Strauss (1962), perché quando Dick Hebdige vi attinse per analizzare le pratiche delle sottoculture a partire dai bricoleur della moda come i teddy boys e i mods (Benvenga 2017), evidenziò il potenziale sovversivo di oggetti recanti significati pregressi messi in crisi dal loro accostamento in un nuovo capo vestimentario. Pensiamo alla longeva tradizione degli anfibi Dr. Martens, il cui story telling recita che sono nati come scarpe per «postmen, policemen and everyday workers» negli anni Cinquanta per poi tradursi in calzature iconiche, le più evidenti icone dello stile punk. Il bricolage punk, tuttavia, è stato per molti versi e grazie ai Crass un esperimento di multi e trans-medialità precedente la cultura digitale, dalle battaglie politiche ai testi delle canzoni, la grafica, le illustrazioni, la scenografia del palco durante i concerti e i video, tutto contribuiva a bombardare l’immaginario del pubblico sovrastato da un carico di segni sovversivi; nelle parole di Hebdige che poco prima aveva ripreso la nozione di semiotic guerrilla warfare di Eco (2012), una tale guerra, combattuta al livello collettivo, vive dell’urgenza di comunicare e veicolare una «teoria della sottocultura spettacolare […]. Il bricoleur sottoculturale, come l’“autore” del collage surrealista, di solito “giustappone due realtà in apparenza incompatibili… è lì che avviene l’unione esplosiva” [Ernst 1948]. Il punk esemplifica nel modo più chiaro l’utilizzazione di questi modelli anarchici da parte della sottocultura» (Hebdige 1979, pp. 104-106).

Perturbazione e deformazione sono le strategie di questo tipo di bricolage, che per il sociologo inglese necessitano di criteri di lettura che li rendano decifrabili: come interpretare la svastica, il volto della Regina d’Inghilterra, la spilla da balia e gli anfibi?

Molti anni dopo la semiotic guerrilla warfare, Steve Goodman aka Kode 9 pubblicò Sonic Warfare: Sound, Affect and the Ecology of Fear (2009), ivi la nozione di bricolage diviene più rigorosa nella sua potenza trans- e micropolitica poichè, a essere giustapposti e remiscelati, non sono più i simboli estetici e vestimentari bensì i virus sonici provenienti da immaginari distanti tra loro, come nel principio del sampling elettronico, soprattutto quello implicante la blackness[1].

La frigida spettacolarizzazione dell’erotismo e della morte seguita alla stagione di Woodstock – the Summer of Love – mostrò una decina d’anni dopo un volto dell’amore ancora mai visto: le storie sentimentali, nelle galassie glam e punk, apparivano mortificate o ridicolizzate dalla mascherata mondana degli show, mentre i corpi, sofferenti e emaciati, sembravano rannicchiarsi negli abbracci e nelle prese rapaci del pubblico affamato: edonismo, ascesi stoica e declino del dandy contemporaneo (da Iggy Pop a Brian Ferry). Baudelaire nelle sue allegorie visionarie propose il Cristo come la quintessenza del dandy, un uomo dalla vita intensa, come un’opera d’arte (Schiffer 2010, p. 123), similmente i punk possono essere accostati all’iconografia della croce.

Il regista underground Richard Kern, collaborando fra gli altri con Lydia Lunch, Clint Ruin, Henry Rollins, Nick Zedd, esasperò la tragedia del sacrificio amoroso culminante nel suicidio squallido, osceno, abnorme e inutile, esperito dai protagonisti dei quattro episodi di Manhattan love suicides (Kern 1985). Qui la visione caleidoscopica del porno diffrange citazioni surrealiste, anticipa il pulp di Tarantino e si nutre della farsa psicotica che rende quei quattro innamorati, dei sublimi dementi.

Le bambole sgargianti della Grande Mela, i New York Dolls travestiti di lucidi pantaloni a fasciare gli organi genitali, con profonde scollature fino all’ombelico e su tacchi altissimi, cantavano con toni da cinico melodramma in Looking For A Kiss: «Ho vagabondato tutta la notte, solo per un bacio, un buco e un bacio» (New York Dolls 1973). La discesa nell’infinito e il sogno reale: trascinarsi come cani nella notte solo per cercare un bacio – confessione del desiderio di perlustrare i luoghi dell’altro – e un buco, per non venire respinti dalla scultura del volto che ne impedisce la fusione. Quest’ultima riuscì incredibilmente ad avere luogo, non solo per il tramite dell’eroina ma soprattutto grazie alle possibilità prefigurate dal cyberpunk: lo schermo del videodrome che si fa carne e si concede a ogni penetrazione che fori la superficie catodica, aprendo le porte del regno dello spettacolo permanente.

La tensione verso l’amore, per questi profanatori dei cimiteri dell’eros, è allora sublimata in un feticcio romantico, un talismano piccolo da conservare per sempre, come le conchiglie e la collanina orientale che Robert Mapplethorpe acquistò dal negozio dove lavorava Patti Smith nei suoi primi tempi a New York, il giorno in cui i due si incontrarono per la prima volta. Lei, dopo avergliela incartata, gli disse d’un fiato e impulsivamente, imbarazzandosi subito dopo: «Non darla mai a nessun’altra ragazza che non sia io» e lui, serafico, le rispose: «Non lo farò» (Smith 2010, p. 37).

Nel 1983, in un capitolo delle sue Storie d’amore, Julia Kristeva (1985) frugava fra i profumi, le carogne e gli effluvi del dandismo descritti da Baudelaire, cercando e trovando affinità con la sprezzatura che ha caratterizzato l’attitudine punk, così simile in questo al distacco superbo, sdegnato e consapevole del dandy. Il profumo del punk dal 2010 è realmente in vendita, la fragranza è a base di limone e pepe nero (anche i colori sono isotopie della scena), si chiama Sex Pistols, ha un marchio patinato di God Save the Queen ed è stato già ribattezzato come «il profumo dell’anarchia» tra gli strali dei detrattori e il sostegno dei fan.


[1] Si veda a tal riguardo il capitolo relativo ai Crass in Atti insensati di bellezza. Hippy, punk, squatter, raver, eco-azione diretta: culture di resistenza in Inghilterra di George McKay (2000) per ciò che concerne il disinteresse da parte di molti punk nei confronti della cultura nera britannica, da confrontare con la posizione di Paul Gilroy in tal senso nel suo ‘There Ain’t No Black in the Union Jack’: The Cultural Politics of Race and Nation (1987): egli menziona le rivolte durante il Carnevale di Notting Hill del 1976 dove sound system, linee di basso e ritmo emersero con tutta la potenza musicale e politica, si pensi all’inno Police and Thieves dei Clash (1977), generando quell’incontro fatale tra la cultura black e il punk il quale integrò sul finire degli anni Settanta il dispositivo sonoro del reggae nello scenario urbano londinese al punto da far comprendere ai punk «la fondamentale continuità tra l’espressione culturale [N.d.A. musica e stile] e l’azione politica». In diretta continuità con queste azioni di bricolage culturale nacquero i generi di fine millennio, frutto di contaminazioni contigue e foriere di rivoluzioni soniche dalla techno alla drum n’ bass (Attimonelli 2018, Eshun 1998).


Claudia Attimonelli è ricercatrice in Semiologia del cinema e degli audiovisivi all’Università Aldo Moro di Bari, dove insegna Immaginario, media e cultura visuale. È autrice di vari libri sulle culture urbane e digitali, tra cui: Techno. Ritmi afrofuturisti (2008); Pornocultura (con V. Susca 2016); Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (con V. Susca 2020).