Ora che l’attenzione sulla 77a Mostra del cinema di Venezia è scemata, trascinando con sé le usuali polemiche sui premi, mi sembra il momento adatto per parlare di alcune “cose teatrali” viste in quei giorni al Lido.
Non entrerò nel rapporto tra cinema e teatro, scontato quanto enigmatico, fatto di incontri e distanze siderali. Non definirò quindi precisamente cosa hanno di teatrale queste “cose teatrali” che sono comunque dei film, perché ogni volta il criterio sarebbe diverso. Mi sento però di dire che in più di un caso hanno portato una ventata di vita, e se questo è lo stimolo che il mondo del teatro può portare al cinema, allora ben venga.

Iniziamo con Samp, il nuovo film della coppia RezzaMastrella. Nuovo non è esattamente corretto, visto che le riprese sono iniziate nel 2001 e una preview era stata presentata al festival di Bellaria alcuni anni fa. Ma ora il film trova la sua forma compiuta, ed è di questa che parleremo. Il sottile filo rosso che lo tiene insieme è l’accettazione o il rifiuto delle proprie radici. Così il killer Samp (Rezza), che ha addirittura ucciso sua madre, se ne va in giro per diversi paesi della Puglia ad eliminare i paesani che più hanno la colpa di essere felici e integrati nel proprio territorio. In effetti, a ben guardare, il tema principale di Samp sono gli stereotipi: questi vengono continuamente proposti ed estremizzati per mostrarne l’insita ridicolezza, il loro essere sempre fuori fuoco e mai realistici. Il rapporto con la macchina da presa mi sembra che venga subito liquidato con un filtro posto sull’obiettivo per modificare l’aspect ratio, così da ottenere un 4:3 retrò. Ma questo filtro è irregolare ed evidente, sembra essere di cartone o comunque di un materiale poco adatto. Così facendo i due autori prendono subito le distanze dal mezzo professionale, ridicolizzando anch’esso. Per il resto, ci sono alcune gag fenomenali ed emerge un rapporto veramente bello, quasi tenero, con i paesani pugliesi che fanno le comparse. In ultima analisi è difficile trasporre su uno schermo l’energia degli spettacoli, ma è comunque una prova divertente e all’altezza.

Passiamo ora al film di Milo Rau, Das Neue Evangelium. L’autore svizzero ci mostra le riprese di un nuovo Vangelo ispirato a Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, proprio a Matera dove quest’ultimo era stato girato. Il film è dunque innanzitutto un making of, ma la cosa bella è che si svolge su un doppio binario. Affiancato dall’attivista Yvan Sagnet, sorta di tramite che rende possibile il collegamento tra i due mondi, Milo Rau si addentra nelle baraccopoli della Basilicata per cercare tra i migranti agricoli i protagonisti del film. Mano a mano che passa il tempo, la vita di queste persone, le loro lotte per la sopravvivenza e la dignità, prendono il sopravvento. Si genera così un amalgama interessantissimo tra messa in scena e vita. Perché, non c’è bisogno di dirlo, l’esistenza di queste persone non è fiction, eppure è grazie al progetto cinematografico commissionato che Milo Rau riesce a farci nuovamente vedere la realtà della loro condizione, le lotte per evitare lo sgombero della baraccopoli (che poi avviene), lo sfruttamento, la rabbia. Rau ha fatto qualcosa di molto intelligente, ovvero è parzialmente uscito dall’ambito teatrale ma non per velleità, lo ha fatto perché questo gli ha permesso di aumentare le sue possibilità, il suo raggio d’azione in quella specifica situazione. Il nuovo Vangelo, quindi, sono sì le scene in costume interpretate dai migranti e dalla comunità di Matera, ma ancor di più è l’epopea per una possibile liberazione.

Arriviamo al docu-film 50 – Santarcangelo Festival di Michele Mellara e Alessandro Rossi, proiettato un’unica volta come evento speciale all’Isola degli autori. È un lavoro su commissione che verrà distribuito su Sky Arte, quindi l’approccio televisivo è il punto di partenza; tuttavia, i due registi hanno avuto accesso a una grande mole di materiali d’archivio per celebrare i primi 50 anni dell’amato festival teatrale. Le immagini sono potenti e parlano da sé, oltre a ricostruire una storia importante per chiunque ami il teatro in Italia. Ciò che colpisce più di tutto forse è lo stretto rapporto tra la rassegna e l’aria del tempo, come se Santarcangelo fosse veramente una cassa di risonanza per tutto ciò che accade fuori. Anche qui, soprattutto qui, teatro e vita sono tutt’uno.
Il festival nasce nel ’71 grazie all’incontro tra Piero Patino e l’amministrazione comunale del PCI, le immagini di questi anni ci raccontano di un marasma incontenibile, una marea umana in festa per le strade della cittadina romagnola. Passano gli anni e si susseguono le direzioni artistiche, passa la fase del “Terzo Teatro” e piano piano il festival prende una conformazione più tipica, in cui però viene perseguita la vocazione internazionale e l’apertura ad altre discipline come la danza e la musica. Lo stretto legame che si viene creando con il DAMS di Bologna e le compagnie della “Romagna felix” (Socìetas Raffaello Sanzio, Motus, Teatro delle Albe) risulta essere di fondamentale importanza quando, in seguito ad un periodo di forte crisi, nel 2009 saranno proprio loro a prendere in mano il festival. Il resto è storia recente, dell’ultima bellissima edizione vi abbiamo già parlato e da dicembre inizierà a svolgersi la parte invernale chiamata “Winter is coming” presso il teatro Il Lavatoio.

Voglio chiudere questo pezzo con due parole su The Human Voice, film di 30 minuti di Pedro Almodóvar presentato nella sezione Fuori concorso (mentre tutti gli altri lavori di cui ho scritto facevano parte della programmazione delle Giornate degli autori). Il testo è un monologo teatrale di Jean Cocteau, già trasposto al cinema da Rossellini con Anna Magnani nel 1948. Questa volta è Tilda Swinton (leone d’oro alla carriera) ad interpretare la donna lasciata, che si strugge d’amore nell’ultima telefonata con il suo amante. Questa versione di Almodóvar, oltre ad essere estremamente curata nella scenografia e nei costumi, presenta un accento diverso: la Swinton non è quella donna completamente devota e fragile vista nei panni della Magnani, nel suo dolore c’è qualcosa di tenace e spietato che prenderà forma nel nuovo finale, esempio di vendetta e riscatto. Comunque sia, un’interpretazione incredibile.
Lucrezia Ercolani si muove tra teatro musica e filosofia. È una punk.